20 Gennaio 2023

“La vita non è altro che nebbia”. Unamuno, hidalgo dello smarrimento

Se siete allergici ai romanzi nei quali vi spiegano come dovete vivere e che cosa dovete fare, se non sopportate gli scrittori con il ditino perennemente alzato a richiamare chi non si adegua alla dittatura ammantata di buoni propositi del dilagante conformismo, oggi meglio noto come mainstreaming, ho quello che fa per voi. Nebbia, un meraviglioso romanzo dello spagnolo Miguel de Unamuno, scrittore, filosofo, pensatore e un sacco di altre cose, nato nel 1864 e morto nel 1936.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1914 e la trama è di una assoluta banalità. Augusto, il protagonista, è un giovane benestante e nullafacente che vive in una specie di nebbia esistenziale, perennemente immerso nelle sue fantasticherie e in una sorta di ozioso scetticismo;

«Noi uomini non siamo soggetti né alle grandi gioie né ai grandi dolori, perché queste gioie e questi dolori ci giungono avvolti in un’immensa nebbia di piccoli eventi. E la vita non è altro che questa nebbia».

Fino al giorno in cui si innamora di Eugenia, un’affascinante pianista, che però si prende gioco di lui, lo inganna e gli procura strazianti pene d’amore. Con il pretesto di questa vicenda Unamuno manda in mille pezzi la struttura tradizionale del romanzo e crea quella che lui stesso ha battezzato una nivola, un neologismo nato dalla fusione tra le parole “nebbia” e “novela”. Per andare al sodo, Augusto, rifiutato e ridicolizzato dalla bella Eugenia, decide di suicidarsi, ma prima, per così dire, esce dal libro e va a parlarne direttamente con Unamuno, che così da autore diventa personaggio del libro. Dal confronto tra i due Augusto scopre che non può suicidarsi come vorrebbe per la semplice ragione che non esiste, è solo un personaggio frutto della fantasia dell’autore che ha pieno potere su di lui.

«La verità, mio caro Augusto, è che non puoi ucciderti, perché non sei vivo, e che non sei vivo – e nemmeno morto – perché in realtà non esisti».

Dopo un iniziale senso di spaesamento però il nostro eroe si ribella al suo creatore proclamando la sua condizione di essere reale, non immaginario. A questo punto abbandona il progetto del suicidio e afferma di volere vivere; non contento, arriva addirittura a insinuare che il vero personaggio di finzione, non reale, potrebbe essere proprio Unamuno in quanto ente nivolesco e dunque destinato a morire quando Dio smetterà di sognarlo.

«Che non sia, mio caro signor Miguel lei e non io l’ente di finzione, colui che non esiste in realtà né vivo né morto… che non sia lei unicamente un pretesto perché la mia storia giunga fino al mondo».

Insomma, siamo di fronte a uno scontro a muso duro con reciproche accuse di inesistenza tra il personaggio principale e l’autore del libro. Unamuno cerca di riprendere in mano le redini della storia ribadendo che la morte di Augusto è già stata scritta, dunque è inevitabile. Nel prosieguo Augusto scoprirà che la sua immortalità deriva proprio dalla sua inesistenza. Il finale del libro lo lascio al piacere della lettura, ma vi avviso che un ruolo non secondario lo avrà anche Orfeo, il cane silenzioso confidente di Augusto.

Sono sicuro che vi è già venuto in mente Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, che però arriverà solo qualche anno più tardi, nel 1921, anche se va dato atto allo scrittore siciliano di essersi spinto ancora più a fondo di Unamuno nella complessità del rapporto tra personaggio e autore. Fatto sta che Nebbia è un libro dove tutto, mi scuso per il banale gioco di parole, è nebbia, nella quale si muovono a tentoni i personaggi e l’autore stesso alla ricerca di un significato nella propria esistenza. Alla fine diventa quasi impossibile distinguere tra finzione e realtà, tra vita e sogno. Musica per le orecchie di chi come me da sempre diffida delle persone e dei libri con le idee troppo chiare.

La grandezza di Unamuno sta anche nel fatto che non ha ricette preconfezionate o facili soluzioni da proporre e lascia il lettore libero di interpretare la sua storia come vuole. Chiaramente Nebbia è una metafora della condizione nella quale vive l’essere umano: una fittissima nebbia dentro cui si aprono mille percorsi, tutti plausibili e implausibili al tempo stesso, davanti ai quali l’uomo vaga sempre più sperduto senza trovare un approdo.

Leggendo ed entrando sempre più a fondo nell’infinito gioco di specchi di Nebbia mi è spesso venuto alla mente il grande Fernando Pessoa, l’autore del meraviglioso Libro dell’inquietudine, e in modo particolare certe sue riflessioni a dir poco illuminanti sul rapporto tra noi e i personaggi dei libri che leggiamo:

«Ho notato spesso che certi personaggi di romanzo assumono per noi un’importanza che non potrebbero mai raggiungere coloro che conosciamo e che sono nostri amici, coloro che parlano con noi e che ci ascoltano nella vita visibile e reale. E questo fa sì che sogni la domanda se la totalità del mondo non sia tutto una serie intrecciata di sogni e romanzi, come scatole dentro scatole più grandi – una dentro l’altra e queste dentro ad altre –, tutto una storia con più storie, come le Mille e una notte, che si snoda falsa nella notte eterna».

Nebbia è un libro leggero e al tempo stesso profondissimo, che anticipa molti dei temi che saranno al centro di tutta la grande narrativa moderna che seguirà: la messa in discussione del mito del progresso, la fine del dominio sulla realtà per un uomo che comincia a vedersi come la vittima di un meccanismo infernale che lo stritola e non gli lascia scampo.

Inoltre, a mio modesto avviso, è anche la summa della vastissima opera di Miguel de Unamuno, composta da romanzi, poesie, drammi teatrali, testi filosofici, penso soprattutto a Del sentimento tragico della vita, e approfonditi studi sulla figura di Don Chisciotte che lo portarono a vedere l’eroe della Mancia non come un illuso, ma come un uomo della speranza al servizio delle ragioni del cuore. A conforto della mia tesi, c’è anche lo stesso Miguel de Unamuno, che poco tempo prima di morire alludendo alla propria esistenza ha affermato: «Cammino sperduto nella nebbia».

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