D’inverno il mare, libero dal giogo estivo, da quella gabbia di luce, torna ciò che è: ispido, selvaggio, bruno.
Quando la luna è piena, il mare indietreggia, si accuccia, anche di venti metri dalla riva: le vongole boccheggiano sulla spiaggia, qualcuno le raccoglie, in grandi secchi.
Bisogna fare il bagno al mare, d’inverno, perché il gelo ammette soltanto gesti lucidi, primi, precisi e senza pena. La piccola fiamma del corpo è alimentata dai movimenti delle braccia e delle gambe. Soltanto nell’acqua fredda senti, dalla punta dei piedi a quella del naso, che hai un corpo, percepisci la carne, i binari del sangue, e qualcosa che si aggira in mezzo: pensiero, istinto, anima, chissà. Ti senti che nuoti, inguainato in una muta non sempre efficace, da altrove.
Gli uccelli riferiscono la vita del mare ai cieli.
Il vero prestigio è quando sul mare si alza la nebbia, questa alcova divina.
A volte è una nebbia a strappi, lacerata, come se la luce avesse una benda sul viso. A volte è bassa, mero respiro del mare messo a maggese.
Il mare, qui, su questa costa adriatica, è ligneo: si può intagliare, ci puoi passeggiare sopra, farti costruttore di icone.
Qualcuno porta a passeggio i cani, lungo questa desolazione che consola, un deserto del Gobi dietro casa.
Sul fondale, la sabbia prende forme ardite e senza argomento: arabeschi decorati con conchiglie e gusci di granchio. La forma continua è la curva, sintomo sinuoso. Il mare che sibila.
Più di una volta mi ha bucato il pesce ragno, mercenario dei fondali.
Quando la nebbia è una sfera sembra di stare tra i Cimmeri, tribù delle steppe, “confinati tra nebbie”. Omero fonda una relazione tra le nebbie e la nostalgia, dunque tra le nebbie e l’evocazione dei morti.
Nuotare in mezzo alle nebbie è affascinante: ti senti sotto assedio, rinchiuso, e dopo poche bracciate la riva è invisibile. In mare aperto, il rischio è di nuotare a casaccio, disorientato: il freddo, però, permette al corpo una minima riserva di caldo. Se nuotassi troppo a lungo verso il largo, il gelo avrebbe la meglio sui miei movimenti.
La nebbia, il gelo: smarrisci ogni parentela, ogni nome si rivela un incavo, cavità senza eco.
Quando c’è la nebbia, fitta, grigia, boschiva, il mare è piatto, sembra un lago – da un refolo lieve riconosci la direzione della terra, palustre magnete. Allora ritorni verso riva, di solito scoprendoti in un luogo diverso da quello in cui sei partito. La nebbia disorienta, ti chiama a sé: quella la monotonia cupa è a volte insopportabile. Potresti gridare.
Il mare duplica la forza della nebbia: sei come in una foresta di specchi, senza ristoro.
Nell’Esodo, Dio si rivela a Mosè in un incrocio di fumi, tra nubi stupefacenti, nella bocca della nebbia.
Hevel è parola biblica che ricama l’effimero: significa respiro, soffio, vapore, vanità. Nebbia, soprattutto. Cosa c’è dietro la nebbia – vanitas vanitatum – evocata da Qohelet? Niente. Forme illusorie che si sfarinano come brina sui ceppi. Oppure, tutto.
Nella sua versione di Qohelet, Guido Ceronetti varia il “vanità delle vanità etc. etc.” di Girolamo in “fumo di fumo”. Potremmo tradurre nebbia di nebbie. Abele/Hevel, l’innocente assassinato, è corpo di nebbia, nebulosa carnale: corpo che sempre ritorna, come un’ossessione, alla foce di ogni forma. Secondo Martin Buber hevel è dunst, nebbia; secondo Henri Meschonnic è buée, brina, vapore, condensa, ciò che appanna la vista.
Quando nuoto nella nebbia mi sento un niente, pura brina sul pensare di Dio – e questo mi conforta. Uscendo a riva, risorgo – non è detto che un giorno non prenda risolutamente il largo.
La nebbia, nube della non conoscenza, è qualcosa di simile alla notte oscura. In questo caso però la luce si cristallizza in veli. Più scosti i veli, più ti immergi nel velame – scoprire significa: stare fermo.
Nella mitologia norrena il Nilflheimr è la “terra delle nebbie”: posto ai confini dell’abisso, abitato da una stirpe di giganti, governato da Hel, figlia di Loki, sorella di Fenrir, portatrice di dolore, regnante sui morti per malattia o vecchiaia, sui dementi, i traditori, i criminali.
“La vita che ho vissuto/ è un dedalo di nebbie”, scrive Jens Peter Jacobsen, il maestro di Rilke. “Nascondi le cose lontane,/ nascondimi quello ch’è morto!”: Pascoli implora la nebbia “sottile e pallida”. Eppure, la nebbia, sortilegio indefettibile, nasconde per rivelare.
La nebbia, nebula, è “nuvola a terra”: il cielo capovolto. Quando le nuvole sorgono dal basso, la rivelazione è ovunque. Da Nefele, la nuvola, nasce il re dei Centauri, Euritione. I rari uomini sulla riva, visti dal mare, sembrano creature fantastiche, con la testa da cane o da volpe, con dieci gambe.
Tra le nebbie, ogni forma appare sconvolta e l’unica sapienza è sparire.