01 Marzo 2024

Nebbia, quaresima della terra. Vagabondaggio tra le forme trasfigurate

Nebbia: quaresima della terra.

Il sole si leva il manto e anche il più piccolo fiore conficcato sul margine della strada sembra una bestia con la bocca aperta.

Chi è il pioniere di questa grigia regalità?

Sui campi dilaga la nebbia, il palio del creato. La stella, finalmente libera della sua corona, può tornare garzone – corre, ha messo le gambe.

In questi istanti, si ritenga sciolta ogni promessa: l’acqua nel secchio fa il rumore della campana.

Nebbia: la terra ha la febbre, trema ogni turibolo d’erba e io vorrei tornare innocente, vorrei che qualcuno bevesse alla fonte delle mie dita.

Le mimose sembrano lanterne; poi: un pulviscolo di lucciole.

Essere finalmente indifeso, con un corpo di carta: qualcuno, piegandolo, può farne barche, cappelli, cigni. Si possono usare le forbici – puoi accartocciarlo. Nella nebbia, tutto è sul punto di liquefarsi. Il corpo non ha più dighe, doghe o recinti di contenzione. Nessun contenzioso strugge l’occhio al fatto. La nebbia permette a ciascuna forma di trasfigurarsi: sotto quel manto l’albero diventa elefante, il gatto un angelo, il trattore un capodoglio. Le case che separano i campi sembrano uccelli in cova, con la serpe della migrazione a fior di becco.

Trasfigurare, cioè: trasgredire.

Per sparizione, le cose acquistano senso – splendore.

“Impalpabile e scialba”, punto nuziale dell’acqua, né nube né pioggia, in stato d’estasi, la nebbia, nella Bibbia, è il simbolo della vita effimera (“La nostra vita passerà… si dissolverà come nebbia/ messa in fuga dai raggi del sole”, Sap 2, 4), della cecità che affligge gli infedeli: “La tenebra ricopre la terra/ nebbia fitta avvolge i popoli/ ma su di te risplende il Signore” (Is 60, 2).

Nebbia: iniziazione degli occhi. Dopo aver attraversato la nebbia, le cose non sono più le stesse, la luce che le attanaglia ad avvoltoio è diversa. Tutto torna nuovo, come dopo un battesimo.

La nebbia è il figlio cadetto delle nuvole: a lei non è data eredità nei cieli, ma un mero avanzo di terra, su cui tiranneggia per un tempo irrisorio, a colpi di stimmate. Avanza a pieno petto, ha i tentacoli. A volte si taglia il ventre: ne esce una cucciolata di lumi, fatue braci, le figure angeliche che diciamo apparizioni, giunchi di spirito, giacimenti stellari.

Legge di nebbia: l’attesa.

Mura di nebbia: non ne siamo prigionieri perché questo è un addestramento – grigio ascensore verso l’Eden.

Per i poeti giapponesi, spesso, la nebbia è l’istante della rivelazione. La nebbia svela la natura del mondo illusorio, prepara a capire che ogni forma è anche il suo opposto – che non ha ruolo la misura. Nebbia: nube della non conoscenza.

Così scrive il monaco-poeta Ryokan:

“Seduto in meditazione su una roccia
il mento fermo e lo sguardo
che attraversa banchi di nebbia…
chi vuole abbandonare gli affanni del mondo
e restare qui insieme a me?”

Nebbia: brancolante branca della letteratura. Ne hanno scritto Miguel de Unamuno e Stephen King, Pascoli e Selma Lagerlöf, che ha fatto della nebbia l’amuleto dei paesi neutrali, in tempo di guerra (“Una mattina d’autunno dell’anno 1914, il primo della Grande guerra, una nebbia molto fitta avvolse la calma e tranquilla contrada che l’Uomo pacifico aveva scelto come dimora, lontano dai rumori del mondo…”). Secondo Henry David Thoreau la nebbia è “aria di nuova terra…/ tovaglia stesa dalle fate/ prato alla deriva dei venti”; secondo Hermann Hesse la nebbia fidanza alla solitudine:

“Soltanto i saggi
credono che l’oscurità
possa cadere: silenti come
gabbie, da tutto sono separati

ma è strano marciare nella nebbia:
la vita matura in solitudine
nessuno esiste per l’altro
ciascuno resta solo”.

Forse perché è inconsistente, perché è scostante, annuncio di ciò che può essere, la nebbia attrae gli scrittori. Nebbia: bianco foglio, biada delle ombre.

Febbricitante, entro nella nebbia. Imparerò mai ad amare senza chiedere nulla in cambio? Ad amare senza conoscere l’amore, senza alcun ricavo? Amare senza saggezza, senza rettitudine, da ignari, da ingenui, perché il corpo è un germoglio, semi le gambe. Offrirsi. Offrirsi come un vaso, come un bicchiere pieno di vino che qualcuno versa sulle scale. Anche l’aria è un elemosiniere.

È possibile arare la nebbia?

No, la nebbia non è un talare, è una lebbra. Nella nebbia, tutto è lebbroso, elettrificato dalle piaghe.

In una pagina del Memoriale, Angela da Foligno racconta di aver lavato le mani a un lebbroso: erano “putrefatte, marce e quasi monche”. Al termine dell’attò di pietà, la donna beve dal secchio in cui sono depositati gli scarti della lebbra. “Mi sembrava di essermi comunicata, perché sentivo una gioia suprema”. Le croste della lebbra sono sacre, sono pari all’ostia. “Poiché una crosta di quelle piaghe era rimasta appiccicata alla gola, mi sforzavo di inghiottirla”.

Nutrirsi del male, vivifica.

Si entra nella nebbia con i campanelli alle caviglie per entrare nell’altro mondo da questo lebbrosario – si è mai, perfino sollevati, se stessi? Io: pigolio di paglia – che arda: le analogie tra fumo e nebbia le lasciamo ai filologi. Nebbia: fuoco che bagna, che goccia.

*In copertina: Luigi Ghirri, Campagna modenese, 1985, Eredi di Luigi Ghirri

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