
Troppe parole forbite… Piccolo discorso sull’opera di Alessandro Piperno
Letterature
Edoardo Pisani
“Il cuore è sovrano del corpo e padrone della mente”
Xun Zi
Non c’entra molto, o forse sì. Milano, un pullman qualsiasi, c’è uno che porta un cappellino da baseball, nero: sopra la visiera, intorno a una lapide gialla le scritte “live fast” e “die”, di fianco c’è un pugno col dito medio alzato e, se non fosse ancora chiaro, sulla nuca, la scritta “fuck you”. Giusto per dire cosa si vede là fuori, oggi.
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Nel 1999, all’alba del nuovo millennio, il “Los Angeles Times” organizzò un simposio dedicato ai “tesori dimenticati” della letteratura del Novecento. Milan Kundera, ad esempio, partecipò consigliando la lettura de L’uomo senza qualità di Musil (“dà prova di un’intelligenza penetrante, affascinante e coinvolgente. E per giunta è un vero romanzo: È attraverso le situazioni dei suoi personaggi che Musil raggiunge un’ineguagliabile diagnosi esistenziale del nostro secolo …”).
Al simposio un altro scrittore, Simon Leys, sinologo e storico dell’arte di origine belga, selezionò invece quattro opere, già “giustamente famose”, scriveva (“dacché quando un testo è di genuino valore o bellezza, è improbabile che venga ignorato per molto tempo o che possa cadere in un completo oblio”) ma che non hanno “raggiunto il più ampio numero di lettori che chiaramente meriterebbero”.
Ha quasi l’aria di un messaggio nella bottiglia per il nuovo millennio (in ordine cronologico):
*L’uomo che fu giovedì di G.K. Chesterton (1908): altrove lo indicò, insieme a L’agente segreto di Conrad, come il suo romanzo preferito del Novecento – una singolare detective story dallo sfondo metafisico: “L’investigatore comune va nelle bettole ad arrestare i ladri, noi andiamo nei salotti culturali a scovare i pessimisti”;
*il resoconto per mano di F.A. Worsley della famosa spedizione trans-antartica comandata da Shackleton (Sackleton’s Boat Journey [1931?]: “una straordinaria storia di sopravvivenza. Ci sono delle prove fisiche estreme che soltanto la volontà dell’uomo è in grado di superare – nessun animale vi sopravvivrebbe!” E in una lettera a un amico commentava ulteriormente: “Il più prodigioso dei racconti di sopravvivenza in mare. A un tempo allucinante e tonificante”);
*L’abolizione dell’uomo di C.S. Lewis (1943): “Un saggio meno noto di un autore altrimenti famoso, ma forse il suo lavoro più importante. In un certo senso, anch’esso tratta della sopravvivenza (un tema su cui vale la pena riflettere mentre entriamo nel nuovo millennio): può l’uomo moderno sopravvivere al collasso morale della sua cultura?”
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Fra queste, segnalava poi uno degli ultimi romanzi del forse più celebre degli scrittori giapponesi del Novecento, Il cuore delle cose di Natsume Soseki – del 1914 (l’autore sarebbe scomparso due anni dopo, a quarantanove anni, lasciando incompiuto un altro immenso lavoro, Luce e ombra) –, titolo che tenta di rendere un termine giapponese intraducibile, Kokoro (così nell’edizione di Neri Pozza – poi Beat – del 2001; SE ne pubblicò una versione intitolandola semplicemente Anima, come anche tra l’altro figurò tra le poche uscite della casa editrice di Franco Battiato, L’Ottava. Segnaliamo poi l’adattamento manga di Yoshizaki Nagi, pubblicata recentemente da Lindau).
Leys scrive che non conosceva “altri romanzi scritti nel nostro secolo che posseggano una tale misteriosa semplicità – una stessa sottile e straziante purezza”. Nell’introduzione alla traduzione inglese dell’opera che Leys consigliava, di Edward McClellan (i capitoli non sono numerati ma solo intervallati da asterischi, aumentando la tensione ipnotica del racconto), lo studioso di Soseki Damian Flanagan scriveva (prima di dare la sua definizione del titolo, che “significa ‘cuore’, ma nel senso emozionale e spirituale, piuttosto che fisico della parola”):
“Congratulazioni, caro lettore, per aver appena comprato uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – tieniti forte, però, perché ti aspetta un giro su delle montagne russe. Kokoro è semplicemente fantastico – un Grande Gatsby con più anima – e leggerlo sarà, per alcuni, un’esperienza sconvolgente. Ma il romanzo può anche essere un’anguilla sfuggente, difficile da acciuffare come da tener ferma, ed esplorarla potrà sembrare di errare per un labirinto psicologico pieno di porte ingannevoli. E che a volte tutto di esso sia come un Giano bifronte.”
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Una delle lenti con cui si può leggere il romanzo, è quella del rapporto tra diverse generazioni, con tutto ciò che ne deriva: l’educazione (la trasmissione del sapere e della tradizione), il rapporto padre-figlio, la domanda sull’amicizia. Uno dei due protagonisti, infatti, il personaggio che dice “io” nelle prime due delle tre parti del romanzo, è proprio uno studente universitario alla fine della sua carriera accademica.
Il ragazzo incontra, un giorno, in una casa da tè sulla spiaggia in una località balneare non lontano da Tokyo, tra “una grande quantità di teste nere che ci ostruivano reciprocamente la vista”, l’uomo che chiama Sensei – più vicino, annota McClellan, al senso della parola francese maître che a quello dell’inglese teacher – e sul quale sarà incentrata la terza ed ultima parte: “Il maestro e il suo testamento”.
Sensei è un accademico solitario e isolato, in evidente contrasto con il proprio mondo e in quella fase storica di modernizzazione e occidentalizzazione (per altro, Soseki stesso era docente di letteratura inglese all’Università Imperiale di Tokyo – succedette al celebre scrittore inglese Lafcadio Hearn –, posizione da cui si ritirò per impegnarsi definitivamente nella scrittura; egli espresse in diverse occasioni il malessere che gli suscitarono i suoi anni di studio, particolarmente il periodo londinese, durante i quali ebbe non poche crisi piscologiche legate anche ad una malattia nervosa che lo perseguitò sin dalla giovinezza).
A proposito, si potrebbe riportare questo episodio piuttosto semplice e illustrativo: il giovane studente e Sensei stanno discutendo di che cosa sia un uomo “cattivo”; il più anziano, dice: “Non c’è un vero e proprio stereotipo di uomo cattivo. In condizioni normali, tutti sono più o meno bravi, o, almeno, normali. Ma tentali, ed essi potrebbero cambiare improvvisamente. Questo è ciò che spaventa tanto degli uomini”. Poco dopo, il giovane, non resistendo più vuole sapere di che tipo di tentazione parla l’anziano, al che quest’ultimo risponde semplicemente: “Il denaro, no? Di fronte al denaro, anche un gentiluomo diventa ben presto un farabutto”.
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Questo modo di intendere l’esistenza, dunque, decentrata sulla dimensione dell’apparire, e sull’intelletto piuttosto che… sul cuore – persomi nel labirinto dell’opera di Soseki, mi è sembrato di ritrovarmi a questo bivio. Ed è interessante che anche in un altro dei libri segnalati in quell’occasione, L’abolizione dell’uomo di C.S. Lewis – scritto proprio durante la Seconda guerra mondiale – si parli di “Uomini senza Petto” e si legga, ad esempio, che “senza l’ausilio di emozioni allenate l’intelletto è impotente di fronte all’organismo animale”.
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Dall’ultima parte de Il cuore delle cose:
“Se la mia vicenda aiuterà te e altri a capire anche soltanto una parte di ciò che siamo, potrò ritenermi soddisfatto”.
“Vivevo a fondo la colpevolezza dell’uomo. […] Era a causa di quel senso di colpa che avrei accettato volentieri una frustata, perfino da mani estranee. Quando quel desiderio si faceva particolarmente intenso, mi diventava sempre più chiaro che la punizione doveva partire non da altri, ma da me stesso. Fu allora che pensai alla morte. Uccidermi mi appariva una giusta pena per le mie colpe. In conclusione, decisi di continuare a vivere come fossi morto”.
“Benché avessi stabilito di vivere come se fossi morto, a volte il mio cuore rispondeva al movimento del mondo esterno, e sembrava quasi danzare con energia repressa. Ma non appena io tentavo di farmi strada attraverso la nube che mi circondava, una forza dotata di uno spaventoso potere mi si avventava addosso, non so da dove, e mi serrava il cuore; io arrivavo al punto di non potermi più muovere. Una voce mi diceva: ‘Hai ragione a non fare nulla. Resta dove sei.’ E ogni desiderio di azione mi abbandonava di colpo. Dopo un attimo il desiderio ritornava. E io tentavo ancora una volta di farmi strada, poi di nuovo venivo frenato. E urlavo, con furia e dolore: ‘Perché mi fermi?’ Con una risata crudele, la voce mi rispondeva: ‘Lo sai molto bene.’ E allora capitolavo in una resa senza speranza”.
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In quell’introduzione all’opera, Damian Flanagan metteva a confronto Kokoro con Il mercante di Venezia di Shakespeare, di cui cita alcuni versi: “tu non puoi trovare migliore impiego, Bassanio, / che vivere ancora e scrivere il mio epitaffio” (IV, i). Secondo il critico, infatti, “[l]a vera storia di Kokoro risiede altrove”.
“Qualsiasi sia la natura superficiale delle cose in Kokoro, per quanto Sensei possa dire di aver scelto di morire per redimere la colpa della morte di K, e di indulgere nel junshi come il generale Nogi, queste rimangono tutte delle superficialità. Esse giocano in Kokoro lo stesso ruolo di mascheramento che il contratto di Shylock e l’antisemitismo giocano a loro volta ne Il mercante di Venezia. Sono come gli scrigni luccicanti di Porzia: essi ingannano l’occhio, ma non contengono nulla di valore… Kokoro ha a che fare, anzitutto, con i modi di trasferire il proprio cuore nel petto di un altro. Nel romanzo questo lo si ottiene attraverso una morte messa in scena molto accuratamente”.
E prima: “in Kokoro abbiamo la situazione, altrettanto ironica, di un giovane uomo che tenta di comprendere il cuore dell’enigmatico ‘Sensei’, finendo poi con questo tentativo nell’avere la linfa vitale stessa di Sensei trasfusa in sé e trovarsi con il suo stesso cuore non più suo”.
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Dall’ultima parte, “Il maestro e il suo testamento”:
“Ma questa non è l’unica ragione per cui desideravo scriverti. Vedi, a parte ogni senso del dovere, c’è la semplice ragione che desidero raccontare il mio passato. Poiché soltanto io ho sperimentato il mio passato, potrei essere scusato se lo consideravo come mia proprietà esclusiva. E non è naturale che io possa desiderare, prima di morire, di dare a qualcuno questa cosa che è mia? Almeno, io la penso così. D’altra parte, preferirei vedere il mio passato annullato con la mia vita, piuttosto che offrirlo a qualcuno che non lo desidera. […] Senza esitazione, ora sto per costringerti dentro le ombre di questo nostro oscuro mondo. Ma non devi aver paura. Guarda attentamente dentro quelle ombre, e afferra ciò che potrà servirti nella vita. Ti parlo di oscurità morale, perché io sono nato come creatura etica, e sono stato educato come persona etica. I criteri della mia morale sono forse diversi da quelli dei giovani d’oggi. Comunque, appartengono a me. Non sono abiti presi a prestito per un certo periodo di tempo. Per questo motivo io penso che tu, in fase di maturazione, possa imparare qualcosa dalla mia esperienza”.
Alessandro Burrone