05 Agosto 2020

“Nessuno ha il diritto di ridurre la vita agli studi, di allontanare i motivi di fervore spirituale”. Natalino Sapegno, l’uomo che ha forgiato la scuola italiana. Le sue lettere sono straordinarie

Ci sono libri che accompagnano nei giorni di incertezza. Sono quelli che teniamo più cari a distanza di anni. Possono essere eventualmente libri nati da parole scambiate: scambiate non già tra quell’incontro di due solitudini, lettore e scrittore, che di per sé è la lettura. Possono essere libri di parole: libri fatti di lettere, di messaggistica – se vogliamo – superficiale, torrida e sentimentale come può essere solo la messaggistica. Eppure…

*

Gli epistolari hanno il loro fascino. Quello di Petrarca e quello di Goethe, così superbi, o quello di Proust così diffuso. Ma qui siamo a un passo dalla letteratura. Quando penso ai libri di lettere più banali ed episodici, dove il colpo d’ala si accompagna alla notizia della passeggiata, della primavera fiorita e del nuovo mal di testa, ho in mente altro. Sono quei libri dove la lettera può essere anche solo una cartolina. Ma quanto rivelatrice!

*

Mi piacevano molto, risfogliarli ora per farne dono al lettore è piacere immenso.

*

Soprattutto perché dietro ogni composto Professore, scoprii a fine università, si celava un artista mancato, un artista pregiato. Un uomo di sentimenti. Quando per esempio volevo studiare e capire la trasformazione dell’italiano che si fece comunista per andare in cattedra mi imbattei in Natalino Sapegno. In sintesi: valdostano poi professore di liceo a Ferrara negli anni Trenta, poi dopo la guerra superprofessore di letteratura all’università di Roma. I manuali dei vari Petronio e Salinari sbocciano da qui. Il resto è storia dell’altro ieri.

*

L’impatto di Sapegno sul modo di insegnare letteratura nei licei si potrebbe pesare col bilancino, tanto è stato costante. Per dire: se nella maggior parte dei manuali avete 20 pagine su Verga e 18 su Manzoni, ebbene il ‘responsabile’ è Sapegno…

*

Sapegno si può dire abbia plasmato la scuola italiana sino a ieri allo stesso modo e anche più di quel che Gramsci non abbia fatto per gli strati dei ceti accademici.

*

Però. C’è un però. Dietro la sobria facciata del letterato di sinistra, Sapegno aveva un cuore d’oro. Per questo andai a leggermi le sue lettere pubbliche con Aragno: Le più forti amicizie.

*

Ecco, tanto per dire cosa, gli scriveva quell’enfant prodige e per nulla viziato che era Gobetti:

Io disapprovo e non riesco ad amare quelli che mi parlano con leggerezza e intonazione di superiorità di queste cose letterarie, che si sono costruito il loro piccolo mondo letterario e non vivono che d’immagini estetiche o di propositi di gretto lavoro intellettuale. Disapprovo e odio, anche se cerco di dominare il mio sentimento, quelli che mi dicono: voglio fare i miei studi tranquillo… nessuno ha il diritto di ridurre la vita agli studi, di allontanare i motivi di fervore spirituale per raccogliersi in una negazione egoistica… in te il tormento è vivo oggi più che mai e perciò la tua deliberazione non ne può prescindere. Ti conforto a non dubitare. Io non posso giudicarti: troppi elementi mi sfuggono. Ma neanche voglio giudicarti ora: accetto perché sento sincerità. Sono sicuro che il tuo proposito si compierà: ho fiducia nel tuo rinnovamento, chiaro e forte, perché lungamente maturato. (Torino 2 ottobre 1920)

*

La coscienza della vita insieme allo sviluppo della vita, sembra di leggere. L’autocritica mai fine a se stessa.

*

Da una lettera di Sapegno all’amico pittore Carlo Levi (Aosta 13 agosto 1920).

I giorni perduti non sono stati certo perduti realmente e non sono che una reale preparazione alla redenzione laboriosa a cui ti avvii: se ora ti appaiono vuoti e inutili – ora che ti trovi verso di loro in un atteggiamento di opposizione e di ripugnanza – forse un giorno quando avrai superato anche questo nuovo momento, ti appariranno utili e ricchi di lavoro. In ogni istante quando contempliamo la nostra opera passata essa ci appare inutile e sciocca, anzi ridicola: tutto ciò che abbiamo superato ci spinge al riso. Ma quanta tristezza è nel nostro riso, nel riso di Cervantes sulle consuetudini passate e finite.

*

Ecco, direi che per entrare di traverso in quel guazzabuglio che è il cuore umano una lettura a volo d’aquila dei grandi carteggi, sfogliando le pagine come fossero il quotidiano della nostra realtà, può portare in alto, può portare lontano, da un giardino chiuso popolato da guardiani e censori a un arenile popolato da gladiatori. Per dirla in termini letterari: dal giardino di Mansfield Park al mare, ai suoi orizzonti confusi. Con un gladiatore postumo che fa cenno da lontano… (Andrea Bianchi)

***

Dalla lettera di Natalino Sapegno a Mario Fubini

Torino 5 giugno 1922

... mi pare anche adesso, mentre forse in atto non è così, che tutta la nostra vita sia uno sforzo perpetuo di dimenticarsi di quel mistero che la inizia e la chiude, e tutta la comprende, mistero che coincidendo con la vita stessa è affatto incapace di qualsiasi soluzione: uno sforzo siffatto mi pare talora meritorio e sublime, sebbene tristissimo, talora vile, infecondo, frutto di profondissima disperazione.

*

Dalla risposta di Mario Fubini

Firenze 6 giugno

… per entrare in un campo più personale, riconosco nelle tue espressioni sentimenti, quante altre volte! da me provati. L’animo ha bisogno di gioia, di sentimenti vivi, come diceva Leopardi: aborre ogni sembianza di inerzia. E quando questi sentimenti mancano se li foggia e se non può godere del bene gode del male. Vi è – ed io lo conosco – una gioia della disperazione.  Allargare il nostro dolore, goderne è l’unica via di uscita da un torpore mortale. Ma dove sembra gioia è tormento: perché l’animo è vuoto, ha bisogno di nuova disperazione per avere nuova gioia: nascono sentimenti del tutto artificiali. Il dolore si allarga sempre più, diventa più vago: e dove parrebbe trovare un appagamento, si trova una più grande disillusione e senso di morte. Non senti tu stesso quanto vi sia di falso nelle tue parole, come esse dicano di più e di meno di quel che vorresti dire? Come in quel rifuggire dal precisare il proprio dolore e nel tentare di allargarlo a dolore generale vi sia un’intrinseca viltà? Beati ancora i romantici che lo vivevano tutto, il dolore universale, e potevano avere una sincerità che a noi è negata…

*In copertina: Andrew Wyeth, “Winter”, 1946 (l’immagine è tratta da qui)

Gruppo MAGOG