01 Giugno 2019

Leggendo la Napoli di Alessio Forgione ho capito perché, per troppi anni, non mi è andato giù lo splendore senza scampo di Nabokov

Leggendo il libro di Alessio Forgione, Napoli mon amour (NN Editore, 2018), di un trentenne napoletano con la psiche e le beghe e le sfighe di un ventenne, risultato vedi mai di una società bloccata e ritardante e di una città fantasma e post-atomica senza essere passata per l’atomica, che tanto basta la povertà, ho capito perché pur’io a lungo non mi son fatto andare bene Nabokov. L’Amoresano (il cognome del personaggio è la più bella cosa del romanzo di Forgione, assieme al titolo), così naïf da star contento solo quando La Capria gli fa i complimenti per i tre racconti che gl’ha portato fin dentro casa, è troppo gradasso e infatuato della propria miseria (si paga le birre e il tabacco, poi vive da figlio unico coi suoi), non può sopportare lo sfacciato canto letterario di Nabokov. Nabokov canta sempre ma in fondo Nabokov ha alle sue spalle un’infanzia dorata russa e poi una cacciata dal paradiso tramite Rivoluzione rossa, e un padre ucciso e la vita da emigrato eccetera, vuoi mettere rispetto al dramma – per chi vorrebbe avere cose di cui poter scrivere – di una famiglia di ceto medio e dell’essersi preso due lauree e aver lavorato per tre anni e mezzo sulle navi? Per amare Nabokov devi saperti liberare dalle retoriche alla povero-me e Forgione c’ha imbastito tutto il suo dolente romanzo su una retorica così – c’è un trentenne di talento, rude e romantico, disilluso ma che ancora ci vuole credere, insomma sempre quell’io che torna utile allo scrittore che vuole proporre un protagonista commiserato e amato specie quando dà mostra di sapersi prendere a calci da solo: essù, non vi fa simpatia? Non è così uguale a voi che leggete e che se amerete leggerlo comprerete i libri di chi lo assilla, descrivendolo proprio-così, e lo dispenserete dal doversi continuare a angosciare per un lavoro che non gli va e a cui deve, però, il malessere che diventa storia generazionale ovvero un libro a cui vuoi bene e che assolve a una funzione di sicuro, sebbene ben lontana dalla letteratura, non quella di Nabokov, tale che Nabokov diventa esemplare e chissà quanti altri no?

A Nabokov interessava più quello che scriveva della sorte di chi lo scriveva, o perlomeno riusciva nell’inganno mortale dell’arte, cioè quello di saperti sembrare gratuita, non estorsiva, non colpevolizzante, non lamentosa e non con per fine estetico il mezzo gaudio di un male comune. Napoli – cioè la scena-degli-eventi, cioè chiunque ne abiti una – non si sposterà di un centimetro se la si dichiara identica a sé stessa da centinaia di anni e di libri a cui tutto sommato deve pur andar bene che sia così, altrimenti il piccolo sforzo di raccontarne un’altra, a costo di doversela prima immaginare, l’avrebbero fatto. Io, per dire, credo l’immobilità sia sempre negli occhi di chi non guarda, non fuori comunque. Attraverso il trentenne inventato da Forgione io, avviato alla quarantina, dico al me ventenne che fui che aver attraversato il ponte degli anni anche solo per riconoscere quanta acqua ci scorresse sotto, senza essersi però mai ingrossata di una mia lacrima versataci dentro come amo per pescarci qualcosa, è la convalida dell’essermi spostato dal punto in cui ero a un altro, di aver insomma vissuto, e a un romanzo che ti fa da tramite – anche se più di qualche volta t’ha messo voglia di gettare lui dal ponte all’ennesima frase dedicata a una sigaretta da fumare e all’ennesima precisazione che si è riso alla battuta fatta – gli devi comunque qualcosa.

Antonio Coda

In copertina: Vladimir Nabokov a caccia di farfalle; una fotografia che è più di ciò che ritrae

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