Montescudo è un ridente paese sui colli di Rimini: poco più di tremila abitanti, posizione strategica, costantemente conteso tra Malatesta, Montefeltro, Stato Pontificio. Presumo faccia parte dei cosiddetti ‘borghi più belli d’Italia’. Galvanizzati dall’epopea di Napoleone, incazzati con i paesi limitrofi, gli abitanti di Montescudo, nel 1797, scendono a Rimini per ‘consegnarsi’ nelle mani dell’Imperatore – allora général. Il sommo, dalle brume della sua ambizione, gradì: da allora il gonfalone del comune di Montescudo è marchiato con i colori della bandiera di Francia. Come a dire, tutto il mondo è napoleonico.
Quanto a me, che pure ho un nonno nato a Reims, dove si incoronavano i re di Francia – ma Napoleone, nel 1804, optò per Parigi – alla sapida battuta di Dolgorukov in Guerra e pace (“Napoleone? Un uomo in pastrano grigio che desiderava tanto che io gli dicessi maestà, ma che, con suo evidente rammarico, non ha ricevuto da me nessun titolo”), preferisco quella di Chateaubriand, “egli aveva conquistato città e reami; io non avevo preso ancora che delle chimere”. Esercizio di sottigliezza davvero napoleonica: lo scrittore si mette al pari dell’Imperatore, consapevole che catturare chimere è ben più nobile che conquistare città e reami. Ma forse, più di tutti, ha capito tutto Dostoevskij, come sempre, che fa di Napoleone un’urgenza, per così dire, esistenziale:
“Un giorno mi domandai: se al mio posto, ad esempio, si fosse trovato Napoleone, e per cominciare la sua carriera non avesse avuto né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, ma invece di tutte queste cose belle e monumentali gli fosse capitata semplicemente una ridicola vecchietta, vedova di un impiegato del registro, da uccidere per poterle rubare i soldi dal forziere, per la carriera, capisci?, ebbene, si sarebbe deciso a farlo, se non avesse avuto via d’uscita?”
Delitto e castigo si gioca tutto qui, nella domanda disarmante, nell’uomo che vive tra fallimento e sputo di gloria, tra spunti e spunzoni, tra essere Napoleone e restare pidocchio.
Tuttavia, queste belle cose non le dico. Per farmi grande – ego napoleonico – cito Napoleon Symphony, il romanzo (diciamo così) di Anthony Burgess, mai pubblicato in Italia. Carlo Miccichè, che di napoleonico ha la struttura, non credo la loquacità – me lo immagino, ovviamente, il divo, taciturno, austero, tutto solido nel suo sortilegio – mi guarda come fossi un santo tonto. Nel suo libro, Essere Napoleone (Edizioni Ares, 2022), un capitolo – l’ottavo – è dedicato al Dossier K., cioè al the greatest movie never made, il Napoleon di Stanley Kubrick: Burgess – penna acida, prediletta da K. – vi passeggia di striscio, sulle murate dei capoversi. Con Miccichè, sulla carta, non azzecco nulla: lui traduce in fiction romanzi che, genericamente, potrei disprezzare; tuttavia, più che un mitomane mi pare un mitografo, è un creativo, e mi parla, con enfasi, del suo ‘museo’ casalingo dedicato a Napoleone. Simili ossessioni mi ammaliano; comunque, convergiamo su un dato assoluto: il film più bello su Napoleone è il Napoléon di Abel Gance, del 1927, con Antonin Artaud che fa Marat. Quando gli dico che Artaud prende a vagare tra Messico e Irlanda certo che lì risiedano i residui popoli di Atlantide, galvanizzato dagli studi dell’occultista Fabre d’Olivet, malvoluto da Napoleone, Miccichè fa un sorriso che si smorza in smorfia.
Nel suo libro – spigliato, senza turbe enciclopediche o tormenti intellettuali, con l’arguzia del ‘comunicatore’ –, tra l’altro, Miccichè stigmatizza il progettato Napoleon di Ridley Scott: pare sia una ca*ata pazzesca. Un assunto non mi sembra assurdo:
“Sono personalmente convinto che le donne non abbiano contato granché nella esistenza di Napoleone. Aveva la testa troppo altrove per andare oltre le regole elementari del desiderio… A Sant’Elena, nella resa dei conti con il Destino, scriverà che l’unica donna veramente importante della sua vita è stata sua mamma. E io gli credo”.
È vero. Napoleone è ovunque, dilaga perfino nel Metaverso. Per ciò che mi riguarda, nel breve recinto italico, ricordo un bel romanzo di Roberto Pazzi, Verso Sant’Elena, pubblicato da Bompiani, e un raffinatissimo libro di Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont, che dà sfogo a una vicenda napoleonica. Entrambi transitarono per le maglie generaliste del Premio Strega – segno che l’Imperatore sa ancora mordere, ha mordente. Tempo fa, sotto un nome fittizio, fittavolo del miraggio, m’infilai anch’io nella saga, inventandomi un Napoleone che “ora viveva come un albero”.
Credo che il dialogo con Miccichè sia stato viziato dalle circostanze: un ristorante opacamente romano lungo i navigli di Milano, troppo vino, eccesso di garbo – i preparativi di nozze prima di Waterloo. Insomma, dall’impero di Napoleone siamo passati dopo un po’ a parlare di algocrazia, il dominio dell’algoritmo. Io, generosamente idiota, resto arroccato ai settenari del Manzoni, all’ombra dell’Imperatore che dimostra, ancora e ancora, la malia del “Dio che atterra e suscita,/ che affanna e che consola”.
Dunque, Napoleone. La proiezione del tuo ego? Insomma: da dove arriva questa passione per l’inarrivabile Empereur?
Eziologia inspiegabile. Nessun condizionamento parentale o ambientale. Nessun mentore. A nove anni negli anni Settanta, in gita con i genitori a Les Invalides, sento come una voce. E da allora, un qualcosa che avevo dentro dormiente è venuto fuori, con sempre più consapevolezza. Fenomeno peraltro comune, ho scoperto, a molti membri della Community N. che con gli anni ho frequentato e frequento.
Da sempre prediligo la versione fornitami da una amica ufficialmente paragnosta, la quale mentalizzò un mio trisavolo, probabilmente del ramo ligure, che avrebbe combattuto per l’Imperatore o che comunque visse direttamente l’epopea, ricavandone una esperienza anche subliminale tale da marcare il codice genetico. Fino al discendente idoneo, sempre geneticamente, a recuperare e a far proprio il messaggio. È un’interpretazione che trovo molto più conseguente di qualunque lettura psicoanalitica, che mi scivola inesorabilmente nello psicologismo auto-biografico. Ecco perché i tanti testi e saggi storici che da allora ho letto, compulsato, comparato, catalogato, collezionato, annotato, ciancicato, mi hanno creato e rifinito un mondo. E ancora sto in mezzo al guado. Mi tengono virtuosa compagnia una adunanza di stampe, manate di soldatini, variamente millimetrati, di accigliati busti di molteplici dimensioni e peso, di ceramiche Capodimonte, di servizi da caffè e soprammobili assortiti, tipo saliere a forma di bicorno, proprio da esposizione.
Da aggiungere: pellegrinaggi per la Repubblica Cisalpina, da Arcole a Marengo per poi passare ad Austerlitz (oggi Slavkov u Brna. Repubblica Ceca) e poi Wagram (o meglio Deutsch-Wagram, a nord-est di Vienna) e ancora Waterloo in Belgio e quindi giù fino all’isola d’Elba, dove hanno persino le bottiglie di birra indigena con l’etichetta napoleonica. Sopra il tutto, estenuanti polemiche, mai sopite, con mia moglie, in merito alla living-room ‘ridotta’ a museo. Ma è stato quando giovanissimo sono incappato in Fabrizio del Dongo che “combatte” a Waterloo oppure nel Barone Rampante che fa solecchio a Napoleone ai piedi del suo albero o ancora nella battaglia a palle di neve che ‘Nabulione’ comanda nel collegio di Brienne vu par Abel Gance, che mi sono sentito davvero a casa. Quanto al mancato film di Stanley Kubrick su Bonaparte, è un lutto che non ancora superato. Adesso sono riuscito finalmente a raccontare tutto in un libro.
Nel tuo repertorio, a tratti inarrestabile, carpisco una cosa, forse errata. Napoleone, infine, pur creatura del tutto mitologico-letteraria (c’è il Napoleone di Manzoni, quello di Foscolo, di Tolstoj, di Kubrick…), resta dopo tutto inafferrabile, inafferrato. È così?
Assolutamente sì. Ho sempre pensato che la drammaturgia, la letteratura, il cinema più che afferrare debbano innamorarsi dell’oggetto del loro interesse. Corteggiarlo. Correre il rischio del ridicolo per pizzicarne il sublime. Consumare l’atto. Faustianamente fermare l’attimo. Magari morire per l’oggetto del loro interesse. Ma poi devono lasciarlo andare. Quello che “afferri”, finisce in genere sotto una teca. E lì resta. Su un cuscinetto di velluto.
Domanda rapinosa: per ‘fare la Storia’ ci vuole, infine, la letteratura? O meglio: per diventare davvero una ‘personalità’ una persona non ha forse bisogno di diventare un ‘personaggio da romanzo’ (o un volto da grande schermo, da grande scherno)?
Concordo. È solo quando entri nel personaggio da romanzo che “diventi” storia. E non “fai”, scienza storica. Un esempio è meglio della perifrasi. Propongo due incipit, sufficienti a indicare la differenza. Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano:
“Nel secondo secolo dell’era cristiana l’Impero di Roma comprendeva la parte più bella della Terra e la porzione più civile del genere umano”.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano:
“Mio caro Marco, sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa dopo un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno…”
Vengo al dunque, cercando di sfidarti sul tuo piano. Napoleone è anche un prodotto dell’immaginario francese. Chi, oggi, a tuo avviso – e come – produce l’immaginario dominante? Qual è questo ‘immaginario’?
Anche qui un esempio su chi oggi produce immaginario e come. È una storiella che circola da tempo: “Ho diecimila amici su Facebook. Ne avessi trovato uno ad aiutarmi a cambiare la gomma buca della macchina”. Se l’immaginario non ti dà le chiavi per la vita, rimane solo un qualcosa privo di fondamento. Oggi questo domina. L’immaginario napoleonico ti parla della Francia. L’ultimo vero immaginario italiano, per collegarci alla tua domanda che qui segue è quello di Rossi Paolo che batte l’Argentina, il Brasile, la Polonia e la Germania. Ti parla dell’Italia.
E poi: qual è l’immaginario – televisivo, cinematografico – che esporta l’Italia? Qual è quello che a te preme appaia, quello su cui lavori o vorresti lavorare
Al netto di Paolo Rossi e dei diecimila “amici” su Facebook, il problema dell’esportare, stringendo in ambito audiovisivo, deve fare i conti con una ormai stratificata nei decenni cifra di colonizzazione da parte del prodotto statunitense. Due cops di Los Angeles che leggono i diritti all’arrestato, si rivolgono al giudice con ‘vostro onore’ e mangiano tacos in una città dove si chiama il 911 in caso di emergenza e si beve alcol in strada da un sacchetto di carta, vengono a tutt’oggi riconosciuti da tutti. Ma al di là dell’immaginario di cifra americana, in Italia inciampiamo mediamente sui luoghi comuni. Un poliziotto tedesco in genere è vestito malissimo, a prescindere dal budget. Una ragazza inglese sembra sempre una testimonial di Erasmus. Quelli dei noir scandinavi sembrano tutte facce slavate e poi, è sempre buio da loro. E les personnages francesi? Non si è mai capito cosa si vantino di avere più di noi…
Ma l’Italia mafia/pizza/alta moda, l’Italia dove chi parla gesticola, è ormai avviata alla sociologia da blog. La serie Gomorra è venduta in tutto il mondo non perché napoletana. Non perché richiamabile allo scenario criminogeno del meridione d’Italia che va dai Beati Paoli alla terra dei fuochi. Ma perché è una storia di banditi che funziona a orologeria. Il suo specchio è Gangs of London, serie inglese. L’immaginario è il medesimo. Il fuorilegge, il cattivo funziona sempre. Senza Sauron, Il signore degli Anelli sarebbe una tortuosa saga di piccoletti bucolici, di gente con le orecchie a punta e dal portamento elegante e di omoni seriosi con la barba da latitante. Ecco perché, più che esportare e lavorare su storie italiane, vorrei lavorare su buone storie. L’immaginario non ha passaporto. Che Tarantino ami e citi Lucio Fulci o Sergio Corbucci lo realizzano solo i cinefili. I film di Quentin sono so cool ! E tanto basta.
A un certo punto, nella premessa introduttiva, scrivi, riferendoti a Napoleone: “se il marketing lo valuterà ancora vendibile al pubblico”. Perché, è possibile che pure Napoleone ‘non venda’?
È possibile eccome. Finché continuerà a rimanere nei musei negli orari di apertura al pubblico senza nessuna proiezione dinamica, a essere oggetto di dotti incroci tra storici o degli ammiccamenti dei divulgatori in caccia di consenso, non “venderà” più di tanto, anzi venderà sempre meno. Lo dovranno liberare, e già lo stanno in parte facendo, i registi dotati del terzo occhio, i videogame, i graphic novel, gli artisti d’ogni sorta che lo rileggono, appunto artisticamente. Ma non tanto per spiritualizzarlo. Quanto per condividerlo. O se preferisci, per venderlo. Il mio obbiettivo ideale è il cosplayer di Bonaparte che, attenti bene, è tutt’altra cosa dal megalomane con lo scolapasta in testa affidato al reparto di igiene mentale.
Se non si procede in questa direzione, uno scervellato che si auto-riprende mentre si rompe un uovo sulla fronte o un Candide (ou l’Optimisme) che dal suo tinello mostra all’obbiettivo come si apre correttamente la linguetta di una lattina oppure una eterea mamma bionda, sempre glamour anche in pigiamone di Bugs Bunny, intenta a imboccare paziente la vispa bimba sul seggiolone, consolideranno sempre di più un modello destinato a vendere molto di più di qualunque Napoleone.
In particolare. Mi hai parlato, nel nostro incontro a tu-per-tu di ‘algocrazia’, il governo dell’algoritmo, in ambito di produzione ‘culturale’ di massa. Ciò significa che dobbiamo rassegnarci all’omologazione più spietata? Voglio dire: è impossibile il sorgere del genuino, l’insorgenza del bello puro e semplice, del buono in sé?
Credo ci sia solo un modo per non stramazzare nel carrello di Amazon, smemorandosi nel black friday. E così difendere il bello puro e semplice. Sta tutto nel “come”. Torno all’aneddoto di quei prigionieri che per passare il tempo, avevano numerato le ormai note barzellette e se le ri-raccontavano sganasciandosi, citando solo un numero da uno a cento. Il neoarrivato, capìta l’antifona, chiede di dirne una lui. Cita un numero dei cento e nessuno ride. Alla costernata richiesta di spiegazioni in merito, si sente dire “tu non le sai raccontare”. Il “buono in sé” è un numero finito. Per non omologarlo – e quindi non far ridere nessuno – devi appunto saperlo raccontare.
In sostanza, il tuo Napoleone finirà soppiantato da un commissario di provincia, da un serial killer cannibale, da uno smaliziato influencer? In particolare: il mito passa ancora per il mezzo televisivo?
No, se invece di venire soppiantato, riuscirà a convivere con i commissari, i serial killer e gli influencer. Facendo capire a chi guarda, le differenze. Siamo ormai oltre il mezzo televisivo. Zuckerberg con il suo Meta sta già comprando intere pagine di quotidiani, tra cui La Gazzetta dello Sport. È qui che dobbiamo chiederci come passerà il mito. Ed è una narrazione ancora tutta da scriver… volevo dire, da digitare.
Cosa significa essere, esistenzialmente, ‘napoleonici’?
Significa alzarsi tutte le mattine e riuscire a essere all’altezza del proprio personaggio. Ognuno di noi è un romanzo. Nel libro dichiaro e argomento su quali registi a mio avviso abbiano tenuto al meglio Bonaparte all’altezza del personaggio. Due su tutti, pur per motivi e contesti diversi, separati da un secolo: Abel Gance e Paolo Virzì.
Insomma: hai ‘ridotto’ l’epopea napoleonica in una fiction?
Non volevo ridurre l’epopea napoleonica alla fiction ma accrescere la fiction alla epopea napoleonica. Che poi ci sia riuscito o meno, spero sia piacere e virtù dei lettori, il deciderlo.