
Rifondare i cuori. Piccolo discorso su “Film rosso”
Cinema
Massimo Triolo e Giusy Capone
Che a Nanni Moretti non andassero a genio molte cose dell’epoca in cui vive, l’avevamo intuito da tempo. La critica alla contemporaneità (e l’autocritica) che partendo da Ecce bombo passa per Palombella rossa, Caro diario e Aprile, trova forse una piena maturità nel suo ultimo film intitolato Il sol dell’avvenire. Una critica all’etica politica, artistica, sociale; una critica all’estetica cinematografica, morale, sentimentale. Nanni Moretti, ancora una volta, parla di se stesso, usa se stesso e la sua esperienza privata e professionale per evidenziare, non senza un’immancabile dose di ironia, le parti indigeste dell’esistenza e dei difficili rapporti interpersonali, gli elementi insopportabili delle scelte altrui, le sfumature su cui molti non si soffermano per pigrizia mentale e morale. Al di là delle “larussate” sul 25 aprile, su via Rasella e sulla presunta assenza del termine “antifascismo” (o meglio, del suo significato ideologico) nella Costituzione Italiana, questo film del regista romano rimette in moto la voglia non dico di “fare politica” ma almeno di interessarsi a essa dopo un’epoca di governi multicolori e quindi amorfi, appiattiti dal punto di vista partitico, e trasformati in un “circo” mediatico senza sostanza. Ma il Nulla che tutto semplifica, persiste ancora nelle cose amate dal protagonista Giovanni: persino la violenza, nelle scene di un certo cinema contemporaneo, è stata semplificata, predigerita, de-estetizzata dalle esigenze del marketing “netflixiano”.
Nelle trame dei film (anche in quelli concepiti per illustrare la storia politica), l’amore, ovvero l’individualismo, vuole a tutti i costi prevalere sulla politica, scavalcando i copioni e le rigide direttive del regista; c’è bisogno di stupire e non di far pensare: persino gli oggetti del nostro presente invadono prepotentemente la scena storica riprodotta sul set; il ricordo politico di un’epoca è costantemente minacciato dalla modernità. Moretti è diventato (o forse lo è sempre stato) un vecchio trombone brontolone che non accetta i cambiamenti? Niente affatto: Giovanni strappa senza esitazione un poster di Stalin dalla scena del suo film perché convintamente aderente a quel “comunismo europeo” che con lentezza ma inesorabilmente prese le distanze dal totalitarismo sovietico (e ci chiediamo: quand’è che il nostro Presidente del Consiglio strapperà la fiamma tricolore – simbolo del neofascismo missino – dallo stemma del suo partito? Essere “post-fascisti” può significare tutto o niente!).
Nonostante le evoluzioni inevitabili, il primo comandamento resta inalterato: “difendere la complessità”, nell’arte come nella politica. Il processo delicato di destalinizzazione del Partito Comunista Italiano all’indomani della rivolta ungherese del ’56 è una lezione di etica politica ignorata da chi nel XXI secolo si stupisce – a causa di una grave ignoranza storica – dell’esistenza, in passato, dei comunisti in Italia. La parola “comunista” da aggettivo/sostantivo è diventata esclusivamente un sostantivo con carattere offensivo (Berlusconi docet!). Le scelte estetiche delle moderne (e nevrotiche) produzioni cinematografiche, deprimono Giovanni che crede ancora fermamente nella bellezza articolata di certi processi interiori descritti dalla pellicola: rappresentare la violenza in maniera complessa e non semplificata, allontana lo spettatore dalla violenza stessa, lo educa a un’igiene “artistica” dell’atto che predispone a una selezione etica in favore della non violenza. Viviamo in un’epoca in cui semplificando il significato delle cose, ne banalizziamo l’impatto etico: la verità cruda è altamente formativa solo quando non diventa mera pornografia.
Come già accaduto in altri suoi film, Moretti – stonato come sempre! – utilizza la canzone per raccontare, per integrare il non detto: commuovente nel finale il brano Voglio vederti danzare di Franco Battiato, cantautore più volte intervenuto con le sue canzoni nella narrativa cinematografica di Nanni Moretti. Al di là di ogni nostalgismo, Il sol dell’avvenire è un film che invece induce a una feroce riflessione sul presente, a una rivalutazione della partecipazione politica ma non attraverso i social (anche riuscire a vedere un film insieme, in famiglia, è diventata un’impresa perché tutti distratti dagli smartphone e presi da altro), a una presa di distanza dai dogmi di quel marketing (che di fatto ha invaso anche il cinema) che tutto livella, pianifica, predigerisce per rendere appetibile il prodotto a un pubblico conosciuto nei suoi più intimi desideri: significativo quando Giovanni afferma candidamente che mentre gira un film non pensa mai al suo pubblico e a cosa penserà. Così come Battiato dichiarava di non assecondare mai i desideri dei suoi estimatori ma di seguire esclusivamente gli obiettivi della propria ricerca musicale.
Eversivo diventa ciò che si fa con ingenua naturalezza in un mondo dove domina, oggi più di ieri, la sconfortante legge del denaro. Come direbbe forse Vincenzo Mollica con il suo solito stile apparentemente accomodante: “Il sol dell’avvenire è proprio un bel film!”, anche se l’espediente del film nel film non è originalissimo ma è efficace per creare un confronto, un utile distanziamento temporale per ripensarsi nel presente. È un film che ridona speranza agli estimatori di Moretti, che, come il Giovanni della storia, fa un film ogni 5 anni (o quasi), mentre il mercato richiederebbe una più produttiva presenza cinematografica, e al cinema italiano in generale che grazie a registi come Nanni Moretti si salva dal marasma dell’animazione e degli effetti speciali, e per una volta stimola riflessione e presa di coscienza sociale e politica. Credere in un avvenire è difficile ma non impossibile.
Michele Nigro