“La morte non ci fu mai nemica”. Wilfred Owen, poeta di guerra
Poesia
Paola Tonussi
L’occasione avrebbe ingolosito qualsiasi scrittore. Non lui.
*
In Francia era uscito Ada o ardore, uno dei romanzi più complessi di Vladimir Nabokov, edito cinquant’anni fa, nel 1969. Il mitico Bernard Pivot invitò l’autore nella sua trasmissione culturale, “Apostrophes”, che sarebbe diventata, come si dice, ‘di culto’. Si trovò a domare una alchemica belva, uno scrittore cristallizzato nella sua devota impenetrabilità.
*
Così, nel 1987, Bernard Pivot ricorda Nabokov. “Era anti-televisione. Sono andato a trovarlo a Montraux, nell’albergo dove abitava. Eravamo in una grande sala, con un pianoforte. Poi passammo in un’altra, con un altro pianoforte. Ma arrivò l’accordatore e dunque ci spostammo in un’altra sala ancora, dove c’era un altro pianoforte: era una scena assai nabokoviana. Passai il tempo a compiacere lui e la moglie. Per vincere la sua timidezza, in diretta televisiva, mi chiese di poter bere del whisky. Non voleva, però, dare una cattiva impressione al pubblico francese, perciò versammo una bottiglia di whisky in una teiera. Ogni quarto d’ora gli chiedevo: ‘Ancora un po’ di tè, monsieur Nabokov?’. Era un genio ironico, era astuto, impudente, di clamorosa intelligenza. Nella mia memoria, Nabokov è una icona. Verso quella puntata del programma provo un sentimento quasi religioso”.
*
La puntata televisiva andò in onda il 30 maggio 1975. Nabokov avrebbe dovuto rispondere ad alcune domande del presentatore e di alcuni critici, come era prassi. Si rifiutò. Secondo le sue consuetudini, Nabokov si fece inviare con un certo anticipo le domande, di modo da predisporre le risposte in forma scritta. Le leggeva, debitamente nascoste sotto una pila di libri. Ciò avrebbe corrotto la spontaneità del programma, ma a Nabokov di risultare ‘spontaneo’ agli occhi altrui non importava: per lui l’autenticità è riposta nella finzione. Ora quella intervista è raccolta nel volume, appena pubblicato per Penguin, Think. Write. Speak, che assembla, appunto, “Uncollected Essays, Reviews, Interviews” di Nabokov, per la cura del suo biografo, Brian Boyd. Qui si traducono alcuni brandelli di quella fatale intervista. (d.b.)
**
Sono le 21.47 e 47 secondi. Cosa fa Vladimir Nabokov, di solito, a quest’ora?
A quest’ora sono sotto le coperte, con tre cuscini dietro la testa, il berretto da notte, nella modesta camera da letto che mi serve anche da studio. Ho una luce sul comodino, il faro che illumina le mie insonnie, brucia ancora, tra poco la spegnerò. Ho in bocca una caramella a forma di losanga, tra le mani un settimanale di New York o di Londra. Lo metto da parte. Spengo la luce. Riaccendo la lampada per mettere un fazzoletto nella tasca del mio pigiama, e proprio ora comincia l’aspro dibattito interiore: prendere o non prendere il sonnifero? La soluzione positiva è una delizia.
Immagino che da ragazzo avrà avuto una vita piena di passioni, di ardori che hanno alterato le sue notti…
Beh, certo, a 25 o 30 anni era tutto energia, capriccio, ispirazione: potevo scrivere fino alle 4 del mattino. Raramente mi alzavo prima di mezzogiorno, scrivevo per tutta la giornata, steso sul divano. La penna e la posizione orizzontale hanno lasciato il posto alla matita e a una austera verticalità. Quel tempo è terminato. Eppure, come rimpiango il risveglio degli uccelli, la canzone sonora dei merli, che pareva applaudire le ultime frasi di un capitolo che avevo appena terminato di comporre.
Riesce a immaginare una vita diversa da quella dello scrittore?
Ma certo: una vita in cui non sono romanziere, ma il tronfio affittuario di una torre d’avorio di Babele. Sarei altrettanto felice in un altro modo – che, per altro, ho praticato – cioè nelle vesti di un oscuro entomologo che passa l’estate a caccia di farfalle, in regioni magnifiche, e l’inverno classificando le sue scoperte nel laboratorio di un museo.
Si sente più russo, americano, o, dal momento che vive in Svizzera, svizzero?
Le narro alcuni dettagli della mia vita cosmopolita. Sono nato a San Pietroburgo, in una vecchia famiglia russa. La nonna paterna era di origine tedesca, ma non ho mai imparato così bene quella lingua da poterla dominare senza dizionario. Ho trascorso le prime diciotto estati della mia vita in campagna, nella nostra tenuta, non lontana da Pietroburgo. In autunno andavamo a Sud, a Nizza, a Pau, a Biarritz. In inverno, sempre a Pietroburgo, che ora si dice Leningrado: la nostra bella casa in granito rosa esiste ancora, almeno all’esterno: anche l’architettura del passato è una sorta di tirannia. La nostra tenuta, nelle foreste, a settentrione, è in luoghi che ricordano l’America nord-occidentale: boschi di pioppi luminosi e di pini oscuri, molte betulle, splendide paludi con una moltitudine di fiori e di farfalle, a volte artiche. Questa fase totalmente felice della mia vita durò fino al colpo di stato bolscevico: la tenuta fu nazionalizzata. Nell’aprile del 1919 tre famiglie Nabokov, quella di mio padre e quelle dei suoi due fratelli, furono costrette a lasciare la Russia, attraverso Sebastopoli, un’antica fortezza sfortunata. L’esercito rosso proveniente da nord stava invadendo la Crimea, dove mio padre era stato ministro della giustizia nella breve fase del governo liberale, prima del terrore bolscevico. Lo stesso anno, nell’ottobre del ’19, ho iniziato i miei studi a Cambridge.
Qual è la sua lingua prediletta: il russo, l’inglese o il francese?
La lingua dei miei antenati è ancora quella in cui mi sento perfettamente a mio agio, ma non mi pentirò mai della mia metamorfosi americana. Il francese – o meglio, il mio francese – non cede facilmente ai colpi di scena della mia immaginazione; la sua sintassi mi impedisce certe libertà che prendo e pretendo dalle altre due lingue. Inutile ribadire che adoro il russo, ma l’inglese è più efficace come strumento di lavoro, è superiore per la ricchezza di sfumature, nella prosa frenetica, nella precisione poetica… d’altronde, a tre anni parlavo inglese meglio del russo, l’ho letto e l’ho scritto prima del russo. C’è stato un periodo, nella mia Russia personale, che leggevo una prodigiosa folla di autori inglesi – Wells e Kipling, soprattutto – pur parlando inglese di rado, tanto più che a scuola non c’erano lezioni di inglese (ma avevamo ore di francese). Ho imparato il francese a sei anni, dalla mia governante, Mademoiselle Cécile Miauton, che restò nella nostra famiglia fino al 1915. Iniziai con I miserabili, ma i veri tesori mi attendevano nella biblioteca di mio padre: a 12 anni conoscevo tutti i beati poeti di Francia. Questo è il regesto delle mie tre lingue.
L’esilio non è forse, per quanto desolante, uno stimolo per l’artista, una condizione che arricchisce la sensibilità?
Può darsi, ma non tutti preferiscono diventare bastardi o fantasmi. Si può passare da Mentone a Sanremo con molta calma, attraverso stretti sentieri di montagna, noti soltanto ai cacciatori di farfalle o ai poeti vagabondi.
Perché vive in Svizzera, perché in un albergo?
La Svizzera è affascinante, la vita in un albergo semplifica un mucchio di cose. Mi manca molto l’America e spero di tornarci per un altro soggiorno di vent’anni. Una vita tranquilla in una città universitaria americana non presenterebbe alcuna differenza sostanziale dalla vita a Montreux, dove, inoltre, le strade sono più rumorose di quelle americane, in provincia. D’altronde, poiché non sono abbastanza ricco – di una ricchezza di cui nessuno gode – per rivivere la mia infanzia, non vale la pena vivere ovunque. Voglio dire, è impossibile percepire il gusto del cioccolato svizzero del 1910: dovrei costruire una fabbrica. Mia moglie e io abbiamo pensato di abitare in una villa in Francia o in Italia, ma lo spettro degli scioperi postali ci è apparso in tutto il suo orrore. Le persone dalla professione stabile, ostriche quiete avvinghiate allo scoglio natio, non si rendono conto di come la posta regolare e affidabile, come è quella Svizzera, sia necessaria per la vita di uno scrittore, anche se di prassi si tratta quasi sempre di vaghe lettere commerciali e di due o tre richieste di autografi. Poi c’è la vista del lago – questo lago che vale tutto l’argento liquido a cui somiglia.
Pensa che le storie inventate da un romanziere siano più interessanti della vita vera?
Cerco di essere chiaro: la vera storia di una vita veramente eccitante scritta dalla penna prudente di un uomo privo di talento risulta assai insipida accanto a una meravigliosa invenzione come l’Ulisse di Joyce.
Nabokov è Lolita. Non è infastidito dal successo clamoroso di Lolita, tale che la gente ha l’impressione che sia lei il padre di questa figlia unica, piuttosto perversa?
Lolita non è perversa. È una povera bambina resa dissoluta, i cui sensi non si eccitano sotto le carezze di quel folle di Humbert Humbert: soltanto una volta lei si chiede, “per quanto tempo avremmo vissuto in luoghi soffocanti a fare cose sporche?”. Per rispondere alla sua domanda: no, il successo non mi infastidisce, non sono come Conan Doyle, che per snobismo o semplice stupidità preferiva essere ricordato come l’autore di The Great Boer War, ritenendolo superiore a Sherlock Holmes. Piuttosto, è interessante soffermarsi su come, così affermano i giornalisti, il degrado della ‘ninfetta’ Lolita, che ho inventato nel 1955, sia evoluto nella mente del grande pubblico. Non solo la perversità di questa povera bambina è stata esagerata in forme grottesche, ma anche la sua età e il suo aspetto fisico: tutto è stato trasformato dalle illustrazioni delle edizioni straniere. Ragazze di diciotto anni o giù di lì, modelle a buon mercato, semplici criminali con le gambe lunghe sono stati battezzati ‘ninfetta’ o ‘Lolita’ nelle cronache dei giornali italiani, francesi, tedeschi; senza parlare delle copertine delle traduzioni turche o arabe che raggiungono l’apice dell’inettitudine quando mostrano una giovane donna dalle forme opulente, la criniera bionda e un seno pazzesco, immaginato solo da chi non ha letto il libro. In realtà, Lolita è una bimba di dodici anni, mentre Humbert Humbert è un uomo maturo, ed è l’abisso tra la sua età e quella della bambina che scava la vertigine, il vuoto, la seduzione del pericolo mortale. In secondo luogo, è solo l’immaginazione di quel triste satiro a rendere magica una scolaretta americana, normale, perfino banale, come lo è per altro Humbert. Al di là dello sguardo maniaco di Humbert, non esiste alcuna ‘ninfetta’. Lolita la ‘ninfetta’ esiste solo nell’ossessione distruttiva di Humbert. In questo caso, l’aspetto essenziale di un libro unico è stato tradito da una fama fittizia.
Ada è imparentata a Lolita?
Ada e Lolita non sono imparentate in alcun modo. Nel mondo della mia immaginazione – poiché l’America di Lolita è, in definitiva, tanto immaginaria quanto il luogo in cui vive Ada – queste due ragazze appartengono a classi e livelli intellettuali diversi. Ho parlato del primo dei due, più morbido, più fragile, più bello (quello di Ada non è certo carino). Ho parlato dell’abisso di anni che separano Humbert da Lolita. D’altronde, il lettore non troverà nulla di morboso o di raro in un ragazzo di 14 anni che si innamora della ragazza con cui gioca. Certamente, questi due adolescenti si spingono oltre, e il fatto che siano fratello e sorella creerà dei problemi che il buon moralista non fatica a comprendere. Ciò che non è prevedibile, invece, è che Ada e il suo amato, dopo diversi disastri, si riuniscano, rasserenati, nello splendore di una vecchiaia ideale.
Ciò che colpisce particolarmente, in “Ada”, è la preoccupazione per i dettagli, il fascino per le farfalle…
Ad eccezione di alcune farfalle svizzere, in Ada ho inventato alcune specie. Penso che sia la prima volta, in un romanzo, che uno scrittore abbia inventato farfalle scientificamente plausibili.
È favorevole alla protezione della natura?
La protezione di alcuni animali rari è cosa eccellente; assurda quando l’ignoranza si associa alla pedanteria. È perfettamente giusto riferire a un venditore che la specie di farfalla che ha nel negozio è a rischio di estinzione, perché i mercanti raccolgono i bruchi di questa bellissima creatura su una conifera comune. Ma è assurdo quando un guardiacaccia proibisce a un vecchio naturalista di muoversi con la sua vecchia rete in un’area riservata dove vola una certa farfalla, il cui unico alimento – una pianta che per il guardiacaccia non significa nulla – è un cespuglio dai fiori gialli che cresce spesso intorno alle vigne. Ovunque ci sia questo cespuglio, si trova quel tipo di farfalla: per questo, è il cespuglio che deve essere protetto. Neppure un milione di collezionisti potrebbero portare all’estinzione questa farfalla azzurra se solo i vignaioli smettessero di estirpare, per qualche misteriosa ragione, quel cespuglio lungo i vigneti del Rodano. Gli agricoltori, con i loro pesticidi infernali, i cretini che bruciano pneumatici e materassi in zone di nessuno: questi sono i veri colpevoli, non certo lo scienziato senza il quale il guardiacaccia non saprebbe distinguere una farfalla da un pipistrello o da un angelo.
Ama il calcio?
Sì, ho sempre amato lo sport. Facevo il portiere, nella squadra della scuola, in Russia, poi all’università, in Inghilterra, e in una squadra di russi ‘bianchi’ a Berlino, negli anni Trenta. Una volta abbiamo giocato contro una squadra di operai tedeschi piuttosto sinistri, infastiditi dal mio maglione del Trinity College. Il mio ultimo ricordo risale al 1936. Dopo uno scontro, nel fango, mi sono svegliato sul lettino di un ospedale. Avevo preso la palla. L’avevo presa bene. La tenevo ancora sul petto mentre mani impazienti cercavano di strapparmela.