20 Marzo 2024

“Le Indie sono il forziere del mondo. Bisogna che l’Italia le possieda”. Mussolini e l’Oriente (parte seconda)

Prosegue il dialogo con Enrica Garzilli, storica e specialista in studi asiatici, che ha di recente pubblicato con le edizioni Utet “Mussolini e Oriente”, libro mastodontico sui rapporti tra il Fascismo e l’Est del pianeta. La prima parte della lunga intervista concessaci è stata pubblicata qui; questa è l’ultima parte, su Giappone, Afghanistan, India e… Ezra Pound.

Qual è la peculiarità dei rapporti intrattenuti dal governo fascista con il Giappone?

I rapporti politici furono preceduti dall’Accordo culturale speciale del 1935 e dall’intensa attività di propaganda e avvicinamento fra le due culture svolta da Tucci. ll Giappone era già noto in Italia grazie al Regio Istituto Orientale di Napoli, all’amore per quella terra di Gabriele D’Annunzio, anche se non ci mise mai piede, e alla mediazione culturale di un “samurai napoletano”, Shimoi Harukichi, amico sia di D’Annunzio sia di Mussolini. Dalla metà degli anni Trenta nacquero istituti preposti allo studio e gli scambi culturali fra Roma e Tokyo ma la cultura dell’Oriente, specie del Giappone, non era una novità. I circoli letterari di Napoli erano attivissimi e producevano periodici quali l’Eco della Cultura (1915-17) e La Diana, che prestavano particolare attenzione al mondo orientale. E poi c’era l’opera del R. Istituto Orientale. Questo è il più antico centro di sinologia e orientalistica d’Europa, fondato nel primo quarto del 1700 dal missionario Matteo Ripa che, di ritorno dalla Cina, fondò un centro di formazione religiosa per giovani cinesi destinati a evangelizzare il proprio Paese di origine. Nel 1732 Papa Clemente XII riconobbe ufficialmente il centro, che pian piano si aprì alla formazione a pagamento di laici e di interpreti per la fiorente Compagnia di Ostenda, una compagnia privata olandese istituita per commerciare con il Sudest asiatico, incluso l’India. Dopo l’unificazione d’Italia l’istituto fu rinominato Real Collegio Asiatico e introdusse progressivamente lo studio dell’arabo, dell’hindi, del russo e dell’urdu, per poi diventare Regio Istituto Orientale, legislativamente equiparato all’università. Tucci infatti, che fu titolare della cattedra di cinese, pur senza mai averci messo piede – come ammise lui stesso – chiese nelle clausole di contratto che lui fosse equiparato in tutto e per tutto a un ordinario di un’università statale, oltre all’impiego di un madrelingua che di fatto insegnava al posto suo.

I rapporti fra il Paese del Sol Levante e l’Italia erano sempre stati ottimi. Nel 1921 il principe ereditario Hirohito, allora ventenne, fece un tour di sei mesi in Europa. Uno dei cinque paesi visitati fu l’Italia. L’evento fu ampiamente coperto dalla stampa sia nazionale sia locale e due anni dopo la felice conclusione del suo viaggio all’estero, il principe ritenne che fosse suo dovere informare i cittadini, che non avevano gradito il tour. Quelli che l’avevano accompagnato in Europa tennero conferenze nelle varie regioni del Giappone, mentre il segretario dell’agenzia imperiale compilò il diario di viaggio affinché potesse essere diffuso negli uffici pubblici e nelle scuole delle province. “Il magnifico spettacolo dell’arrivo in Italia”: questo il titolo del primo capitolo del diario. Le tappe di Hirohito comprendevano la Gran Bretagna, il Belgio, l’Olanda e infine l’Italia. Arrivò in visita ufficiale a Roma, dove incontrò Vittorio Emanuele III, e poi volle visitare Napoli e Pompei. Il diario racconta che lunedì 11 luglio 1921, sotto un cielo sereno, Hirohito e il suo seguito arrivarono a 20 miglia dal porto di Napoli alle 6 di mattino e due incrociatori italiani «pavesati a festa» li ricevettero affiancandosi uno a destra e uno a sinistra per proteggere la nave di Sua Altezza. La sua imbarcazione, la Katori, sparò una serie di salve di cannone per salutare il forte a terra e la bandiera italiana mentre dalle navi italiane furono sparate ventuno salve di cannone per salutare la bandiera del principe ereditario. Il rombo dei cannoni risuonava e il fumo nascondeva il cielo. «La banda della flotta italiana suonò il Kimigayo e il fragore degli applausi si propagò sulle onde del mare». Tre ore e mezzo di festeggiamenti ufficiali, al cospetto del comitato di accoglienza con tutte le autorità civili e militari e all’ambasciatore – e a Shimoi, che fungeva da traduttore. Per prima cosa il principe volle visitare la Grotta azzurra di Capri, dove rimase «incantato» dal colore «di un profondo blu trasparente che non ha paragoni». La mattina seguente, sempre salutato formalmente dalla salve di cannoni delle navi da guerra in porto, arrivò in treno alla Stazione Termini di Roma. Per tutto il viaggio, lungo la ferrovia a ogni 50 passi circa, erano stati schierati i militari e in un paio di stazioni persino le guardie d’onore. A ricevere Hirohito alla stazione c’erano il re d’Italia con il cugino duca d’Aosta, il Primo ministro Ivanoe Bonomi, il ministro degli Esteri Pietro Paolo Tomasi, marchese della Torretta, il ministro della Real Casa e l’aiutante di campo. L’accoglienza fu ovunque sontuosa ma al tempo stesso calorosa.

«Durante il soggiorno a Roma il Re ha deciso di riservare a S.A. un trattamento speciale solitamente in uso per i capi di Stato con un servizio di scorta molto severo e dalla stazione fino al Quirinale vi era uno schieramento ininterrotto di soldati di vari corpi».

Cittadini assiepati lungo il percorso e affacciati dai piani delle case salutavano con i fazzoletti in segno di benvenuto. Poi Hirohito si affacciò al balcone su Piazza del Quirinale per ricevere una entusiastica ovazione. Da quel momento il principe reggente, il fratello e una parte del loro seguito furono ospiti della famiglia reale. Durante il breve, formale discorso che il re fece durante il ricevimento ufficiale in onore di Hirohito disse:

«l’arrivo a Roma di Vostra Altezza è per noi motivo di grande compiacimento. […] siamo particolarmente felici di constatare l’immutabile sentimento di amicizia che unisce i nostri popoli e le nostre case regnanti. L’Italia ha sempre apprezzato la grande creatività del vostro popolo, la sua sorprendente capacità di adottare la civiltà moderna e la prontezza di capire i fatti. Ricordiamo sempre con gratitudine il prezioso aiuto dato nella guerra dal tradizionale coraggio della marina e dell’esercito giapponesi per la comune vittoria per il diritto e la libertà. Come il Giappone, l’Italia è uscita vittoriosa dalla grande guerra e ora desidera solo il pacifico sviluppo industriale. L’Italia si augura di poter contare sulla collaborazione del Vostro Paese durante questo processo di ricostruzione».

A sua volta Hirohito ringraziò per «il cordiale benvenuto» di tutto il popolo italiano e disse che per lui era «motivo di grande gioia aver avuto la possibilità di visitare questo Paese tanto famoso per la sua storia, la sua arte e le sue imprese militari». Ammirava l’interesse del re e dei suoi antenati per il benessere del popolo italiano.

«Sono lieto di poterLa assicurare che la simpatia, il rispetto e l’amicizia che legano le nostre due famiglie reali e i nostri popoli non potranno che rafforzarsi nel tempo. […] Il Giappone e l’Italia, unendo le loro forze, hanno ottenuto la vittoria finale nella Grande guerra e io sono fiducioso che lavoreranno insieme per promuovere il benessere dell’umanità e credo fermamente che saranno uniti nel perseguire lo scopo comune verso la vittoria della pace».

Il tema militare, il coraggio e l’abnegazione dimostrati in guerra erano la base identitaria comune sottolineata dal Re e dal Principe. In questo modo si rafforzava la simpatia reciproca dei due Paesi e si preparava l’alleanza futura. Fra ricevimenti, balli ufficiali, visite a mostre e musei, in un vorticoso tour per la città proseguì con la visita delle Catacombe, dove si nascondevano i primi cristiani che «dedicarono il loro spirito fino al martirio», altro tema familiare alla cultura giapponese dove i samurai, alla morte del loro padrone, si tolgono la vita. Il discorso sul Campidoglio del sindaco di Roma terminava così: «Mi auguro che l’amicizia tra i nostri due paesi durerà per sempre e credo fermamente che questo colle, che è il cuore di Roma e il cuore del mondo, farà risuonare la gloria dell’Italia sotto tutti i cieli illimitati».

Andò anche in visita dal Papa, che lo accolse andandogli incontro appena fuori dalla porta. Nello studio papale Hirohito riportò il cordiale messaggio dell’imperatore suo padre, a cui si riconosceva natura divina. Quando Hirohito ripartì fu salutato da ali di folla che applaudiva e accolto alla Stazione Termini di Roma dalla banda militare. Giunto alla Stazione Centrale di Napoli disse al sindaco venuto ad accoglierlo che avrebbe portato con sé a casa «un alto grado di gentilezza e un bel ricordo», essendo rimasto ammirato dal senso di amore, di umanità, di civiltà e di poesia del popolo napoletano. A Napoli, come a Pompei, era sempre circondato da una folla festante e le strade addobbate erano sempre a festa. Si concluse felicemente il viaggio del principe in Italia. Rimangono molte foto che ritraggono il corteo di Hirohito per le strade di Napoli. Pare che nel 1984, accogliendo un gruppo di imprenditori napoletani che gliene aveva fatto dono, l’allora imperatore rivedendole esclamò felice: «Che dolci ricordi!». I giornali sottolinearono che Roma e Tokyo si avviavano insieme verso un luminoso avvenire di civiltà e progresso.

L’Oriente da quasi duecento anni faceva parte della vita culturale dell’Italia e Napoli costituiva l’humus ideale per l’opera di diffusione della cultura nipponica di Shimoi che, partito volontario per la Prima guerra mondiale e poi per l’impresa di Fiume, divenne un vero e proprio mediatore di cultura. Ma chi cambiò radicalmente i rapporti fra Italia e Giappone, dandogli un’impronta decisamente politica, fu Tucci, che fu scelto come uomo di collegamento fra i due Governi in vista dell’adesione dell’Italia al Patto Anticomintern. A metà maggio del 1936, dopo che l’esercito imperiale nipponico aveva chiesto all’Italia di fornire dei veicoli militari, i rapporti con il Giappone erano nettamente migliorati. Se Roma avesse potuto stringere un patto militare con Tokyo, questo avrebbe potuto risolvere il problema della disparità militare che avevano le potenze dell’Asse Roma-Berlino con la Gran Bretagna, specie a livello di armamenti navali. Un altro passo verso il patto con il Giappone fu quello di interrompere l’invio di materiale militare all’esercito nazionalista cinese di Chiang Kai-shek, che dal luglio 1937 era impegnato nella seconda guerra con l’esercito imperiale, con l’aiuto degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il tentativo di rendere davvero popolare il Fascismo in Giappone però si scontrava con l’anglofilia latente di parte del Paese. Ci voleva un personaggio culturalmente “forte”, un nome noto, potente in patria e rispettato all’estero. Per questo per il tramite dell’IsMEO era stato scelto Tucci, che fu il vero personaggio chiave, quello che di fatto rinsaldò i rapporti fra i due paesi e che aprì il Giappone della gente comune e degli intellettuali, non solo quello dei diplomatici, all’Italia fascista, come aveva già fatto con l’India e il Tibet e come farà con il Nepal.

Il Giappone, con le sue mire panasiatiche e i suoi rapporti privilegiati con il Terzo Reich, era l’unica potenza asiatica che Mussolini davvero temesse. Nel novembre 1936 Tokyo aveva già firmato il Patto Anticomintern con Berlino e premeva per stringere accordi con l’Italia. E neanche in questo il Duce poteva farsi sorpassare dalla Germania. Con gli accordi della metà degli anni Trenta nella pubblicistica italiana nacque una narrazione del Giappone come simile nei valori, negli ideali e nei tratti distintivi all’Italia fascista. Il Giappone, che si era sviluppato grazie alle conquiste occidentali ma aveva conservato le nobili tradizioni del suo Volksgeist, in Oriente era un baluardo contro le degenerazioni della modernità allo stesso modo in cui Roma era il baluardo a difesa dei sacri valori occidentali. Dalla rappresentazione intrisa di esotismo del Paese del Sol Levante si passò a quella di un Paese moderno ma basato su valori tradizionali e universali simili a quelli della civiltà romana, primo fra tutti i valori del guerriero. Si enfatizzò la comunanza spirituale di Roma con Tokyo e Berlino e il legame di fratellanza e solidarietà che le univa, che non poteva che sfociare nell’adesione dell’Italia all’alleanza contro i bolscevichi e le loro attività sovversive in un patto per «cooperare nella difesa comune contro l’opera disgregatrice comunista». Il patto riconosceva che l’obiettivo dell’Internazionale Comunista, nota come Comintern, era quello di «scompaginare e opprimere gli Stati esistenti con tutti i mezzi possibili» e metteva in pericolo non solo la loro «pace interiore» e il loro benessere, ma anche la pace del mondo.

Puntuale, l’Agenzia Stefani il 6 novembre 1937 – XVI annunciò che alle ore 11 Mussolini aveva firmato a Palazzo Chigi il Protocollo di adesione dell’Italia all’accordo fra Germania e Giappone contro l’Internazionale comunista.

Il Patto costituì la base per il trattato tripartito che, però, avrebbe tagliato definitivamente le gambe ai sogni di gloria del Duce in Asia: il Giappone riconosceva gli interessi tedeschi e italiani in Europa ma a sua volta riceveva un analogo riconoscimento per l’Asia. L’Europa agli europei e l’Asia agli asiatici, in due blocchi separati ma non contrapposti, proprio come si figurava Gentile nel discorso del febbraio 1937 in occasione dell’inaugurazione del Comitato lombardo per il Medio ed Estremo Oriente. Tucci arrivò nel Paese del Sol levante il 24 novembre del 1936, vi svolse un’attività politica, diplomatica e culturale intensissima. Fu anche ricevuto dall’imperatore Hirohito e portò una lettera di Ciano al ministro degli Esteri. Si lamentò con Gentile che questa attività troppo frenetica fra lezioni, inviti e visite non gli lasciò tempo di vedere nulla del Paese, ma nel dicembre 1936 gli scrisse che era sulla buona strada per «concludere qualche cosa di positivo nei riguardi degli accordi culturali fra Giappone e Italia. Il momento del resto è propizio e c’è molta buona volontà di venire incontro ai nostri desideri». Tucci parlò anche alla radio, recando in giapponese il saluto del Duce al popolo nipponico. Il discorso fu trasmesso «fino nel Manciukuò», lo stato istituito in Cina nel 1932 dall’Impero giapponese. Questo, oltre agli articoli su Asiatica, che però era una rivista di nicchia a cura dell’IsMEO, è il primo accenno pubblico allo stato fantoccio creato nel Manciukuò, di cui il Giappone aveva riconosciuto l’indipendenza nel 1932, garantendosi allo stesso tempo particolari privilegi e, di fatto, mettendolo sotto il proprio controllo. Il Governo italiano avrebbe riconosciuto lo Stato indipendente del Manciukuò nel novembre del 1937, primo fra i Paesi occidentali, mentre il Giappone riconosceva l’Africa Orientale Italiana. 

A Tokyo Tucci fondò l’Istituto di cultura italo-nipponico, alla cui presidenza fu messo il barone Okura, che amava molto l’Italia e a Roma aveva organizzato una mostra d’arte giapponese che era stata molto ammirata. Scopo dell’istituto sarebbe stato quello di condurre un’attiva propaganda della cultura italiana e accentrare su di sé gli scambi culturali che erano stati gestiti fino ad allora dalla Kokusai Bunka Shinkôkai, fondata da Tucci a Roma nel 1934. Prese accordi perché fosse creato un corso ufficiale d’italiano con relativa borsa di studio nell’Università imperiale del commercio di Tokyo e perché la nostra lingua fosse riconosciuta materia di laurea come l’inglese, assumesse una posizione privilegiata rispetto al francese e al tedesco e fosse affiancata da corsi di Diritto corporativo, Storia del commercio italiano e altre materie “tipicamente” fasciste. Allo studente più meritevole a giudizio della commissione esaminatrice, a cui avrebbe partecipato un rappresentante dell’ambasciata italiana, sarebbe stata concessa una borsa di studio e di perfezionamento in Italia. Per gli scienziati e gli studiosi nipponici che lavoravano su argomento italiano venne istituito il premio «Leonardo da Vinci», che ammontava a 1000 yen, circa 6000 lire, equivalenti a ben 10.427.055 lire del 2004.

L’attività di Tucci non si esaurì nel campo della politica culturale ma fu di vera e propria organizzazione propagandistica. Infatti prese contatto con gruppi di simpatizzanti dell’Italia nelle città di Sendai, Kyoto, Fukuoka, Sapporo e Osaka, sedi delle università imperiali, e costituì altrettanti nuclei italo-giapponesi, che avrebbero dovuto formare cellule di più vasti organismi di propaganda per l’Italia e il suo Governo. Prese accordi perché nella libreria più grande di Tokyo venisse aperta una vetrina unicamente dedicata al libro italiano. Tenne inoltre venti conferenze non solo su argomenti tecnici, cioè di cultura orientalistica, «ma specialmente italiani, illustrando lo sviluppo della cultura e della scienza sotto il Regime fascista», come scrisse a Gentile. Fu, insomma, un vero e proprio ambasciatore della cultura di Regime e si adoperò, se non con maggior zelo, di certo con maggior spirito d’iniziativa del suo maestro Formichi, che andò in Giappone subito dopo di lui, affinché l’Italia di Mussolini fosse conosciuta e apprezzata.

Con l’engagement nella questione giapponese l’IsMEO divenne improvvisamente molto importante dal punto di vista politico perché era, in realtà, l’unico canale sicuro per portare avanti, dandogli un aspetto culturale, la fame d’Asia del Regime. All’istituto fu data, oltre al finanziamento maggiorato, anche una sede prestigiosa, quella di Palazzo Brancaccio, nel cuore di Roma. L’IsMEO vi si stabilì il 10 ottobre 1936 e vi rimase fino al 2002, quando la sede venne trasferita in via Aldovrandi. La piccola biblioteca dell’IsMEO fu ampliata e vennero concesse altre borse di studio, cominciarono a essere inviati bollettini informativi basati su rassegne della stampa asiatica alla Presidenza del Consiglio, al Ministero degli affari esteri e all’EIAR, la radio nazionale; fu bandito un concorso a premi su temi d’attualità riguardanti i paesi dell’Asia; i corsi, che comprendevano il cinese, il giapponese e l’iranico, vennero ampliati con il bangla. Infine, grazie a Tucci l’accordo culturale di reciprocità con il Giappone era diventato una specie di best practice e si cercò di estenderlo anche alla Cina. Tucci fece di tutto per assecondare i sogni di gloria di Mussolini e, allo stesso tempo, ingrandire e potenziare l’istituto. Si trovò da subito, di fatto, a guidarlo e a esserne, soprattutto dopo la missione giapponese, il personaggio chiave. L’amicizia culturale con il Giappone si consolidò tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 quando l’IsMEO mandò a Tokyo come conferenziere Formichi. Con la conquista dell’Etiopia e gli accordi fra Italia e India e Italia e Giappone il sogno africano e quello asiatico cominciavano ad avverarsi. L’IsMEO divenne a tutti gli effetti un organo di governo e così importante a livello diplomatico che, quando Roma aderì al Patto Anticomintern, il Ministero degli affari esteri mandò all’istituto per primo una copia della trattativa «riservata e segreta». E con lui Tucci che, benché inviso al Duce, era comunque un personaggio chiave nella sua politica orientale.

Quali sono le figure decisive, nello ‘scacchiere orientale’, riscoperte dai suoi studi, poco analizzate, degne di essere messe in luce (o degne di ulteriori approfondimenti)?

Credo che il personaggio poco studiato, certamente di cui si ignorava la fascinazione verso Mussolini, sia Sir Muhammad Iqbal detto Allama, «studioso». Questi era una stella del firmamento della letteratura persiana e urdu, un fiero nazionalista e dal 1930 presidente della All-India Muslim League, sessione di Allahabad. In realtà è del 1924 il primo incontro di Iqbal con l’Italia, mentre traversava il Mediterraneo. Alla vista delle coste della Sicilia compose Siqilliya, inclusa nella raccolta Bang-i Dara, «il richiamo della carovana». L’isola, «onore e vanto del mare», un tempo era la culla della civiltà araba e ora la sua tomba. Allama era critico con il Partito del Congresso perché era troppo pieno di induisti e non di musulmani e credeva anche che l’unico destino per i musulmani indiani fosse la creazione di uno Stato a sé, come disse nel discorso di insediamento come presidente della All-India Muslim League del 29 dicembre 1930 ad Allahabad e in quella di Lahore del 1932. Nel 1931 Iqbal fu mandato a Londra come membro della delegazione musulmana indiana nella Seconda conferenza della Tavola Rotonda, quella a cui partecipò anche Gandhi. Il Mahatma alla conferenza disse di rappresentare tutta l’India ma questo punto di vista non fu condiviso dagli altri delegati. Il 1° novembre fu discusso il Patto delle minoranze ma nonostante questo a metà mese Iqbal si dissociò e il 20 informò il segretario di Stato la sua decisione di lasciare la Conferenza. Partì il giorno dopo per l’Italia e dal 22 al 29 si fermò a Roma, ospite della Reale Accademia d’Italia e non del Governo, che non voleva apparire troppo vicino ai nazionalisti indiani, Il 26 novembre dette una conferenza alla Reale Accademia d’Italia. Ligio alle richieste dell’Accademia, non fece come Tagore un discorso universalistico ma ambiguo, che di certo non suonava bene alle orecchie dei fascisti, ma pronunciò un discorso di argomento religioso che verteva sull’Islam, sulle tre forze del mondo – cioè la civiltà occidentale, il comunismo e l’Islam – l’apertura del mondo musulmano verso l’Occidente e il valore di questa amicizia. Il giorno dopo alle 17:45 fu ricevuto dal Duce a Palazzo Venezia. In seguito compose due poesie, una in cui mostrava la sua ammirazione per Mussolini e l’altra in cui ne prendeva le distanze. È lecito pensare però, che dopo avere esaltato Mussolini, deluso dal Duce per l’invasione dell’Abissinia, avesse aggiunto la frase in cui lo accusava di aver commesso le stesse uccisioni e ruberie che rimproverava ai britannici. La prima poesia terminava con «Di chi è l’occhio benevolo che ti ha concesso questo miracolo? Lui di cui la visione è come la luce del sole!», nella seconda, intitolata Mussolini, scritta dopo l’invasione dell’Etiopia, fingeva di difenderlo dai suoi rivali a est e a ovest, dicendo che in fondo i suoi crimini erano quelli delle altre potenze coloniali «Cosa, i crimini come quelli di Mussolini sono così inauditi in questa epoca? Perché dovrebbero provocare questa sciocca collera alle chicche dell’Europa?». Sempre nel 1935, Iqbal parla dei crimini del colonialismo, di quanto il saccheggio e l’incendio siano il sostentamento delle nazioni e dell’Abissinia, un cadavere che presto sarà fatto a pezzi per nutrire «gli avvoltoi dell’Europa», e di come la civiltà di Roma con l’invasione sia andata a pezzi sulla piazza del mercato, per meri interessi economici, con la complicità della Chiesa Cattolica.

Giuseppe Tucci in Tibet, nel 1933

Allama Iqbal è considerato uno dei padri del Pakistan ed è uno di quei personaggi asiatici di cui si ignorava la fascinazione per Mussolini e, anzi, in Asia si nega, al pari di Gandhi. È un personaggio quasi sconosciuto in Italia ma è un gigante intellettuale e un poeta famoso nell’Asia centrale e meridionale. Il suo amore per Mussolini, di cui nel 1933 consigliava a uno studente di economia che voleva approfondire l’argomento «un attento studio delle idee (di Mussolini)», rientra a pieno diritto nella fenomenologia della cancel culture. La sua intera vicenda italiana e il suo amore e disamore per il Duce sono raccontati e documentati nel mio libro.

Che cosa ci fa nel 1929 Amānullāh Khān, re dell’Afghanistan, a Roma?

Durante il Ventennio l’unico Stato libero da dominazioni straniere insieme al Nepal, se pure da pochi anni, con un re che governava con sistemi sin troppo liberali per un Paese rigidamente musulmano, era l’Afghanistan di Amanullah Khan. La classe sacerdotale però impediva ogni ammodernamento e avanzamento sociale, tanto che nel 1929 il re fu costretto a lasciare Kabul. Inoltre, lo Scorpione afghano era dilaniato dalle lotte fra le varie etnie locali. Da secoli prima di Cristo era al centro delle mire degli Imperi, confinanti e non, e per tutto il secolo diciannovesimo e gli inizi del ventesimo fu il terreno della sempiterna disputa fra le due superpotenze del tempo, l’Orso russo e il Leone britannico. Solo nel 1919, con l’ultima guerra vinta sulla Corona britannica, l’Afghanistan divenne indipendente e l’emiro Amanullah, autoproclamatosi re, dette inizio a un programma di riforme e svecchiamento. Nel 1928 Mussolini disse che per la sua agenda asiatica «uno Stato che suscita particolare attenzione per la sua posizione geografica, per la sua costituzione, la sua forza, è l’Afghanistan». Da questo suo interesse non nacque una collaborazione economica, politica o commerciale importante, per questioni logistiche e per l’interesse degli altri Stati già presenti, inclusi la Germania, il Belgio e la Francia, ma più che altro una reciproca simpatia che portò il re afghano, dopo l’abdicazione e il volontario esilio, a vivere in Italia. E Roma, da allora, continua ad avere rapporti diplomatici privilegiati con Kabul.

L’ultimo capitolo del libro, “Afghanistan crocevia dell’Asia”, tratta questi rapporti di reciproca stima da quando nel 1919 l’Italia riconobbe per prima l’indipendenza del Paese e un paio d’anni più tardi strinse accordi economici e di collaborazione. Dall’Afghanistan era facile scendere in India, con cui fino al 1947 confinava direttamente. Scalzare i britannici e far camminare i legionari fascisti sulle sue coste era un’idea troppo allettante. Se la Corona Britannica si fosse ritirata prima della disfatta di Mussolini avremmo visto le colonie italiane sulle coste del Malabar o del Tamil; Delhi, Calcutta o Bombay con larghe vie d’accesso sormontate da archi trionfali in bianco marmo di Carrara; le città di periferia ornate di monumenti al Duce in marmo variegato del Rajasthan; ampie piazze, case sormontate da aquile e fasci littori e palazzi futuristi dai disegni geometrici, come all’EUR, troneggianti sulle colline terrazzate del Kerala o nel centro di Bangalore. I legionari avrebbero fatto le ronde in fez e stivaloni lucidi, incuranti dell’afa, e forse il palazzo coloniale del viceré a Simla sarebbe diventato un bianco palazzo del podestà.

Il sogno del Duce di impadronirsi realmente del gioiello della Corona si rivela anche in una frase segnata dal lui stesso con tre punti esclamativi a margine di un libro del 1931 che appartiene alla Collezione Mussolini:

«Le Indie sono proprio il forziere del mondo. Bisogna che l’Italia le possieda. Poco importa cosa diranno gli Inglesi. I legionari fascisti s’incaricheranno di farli tacere».

L’Afghanistan trampolino di lancio per l’Oriente, l’Afghanistan porta dell’India. L’Afghanistan era di grande interesse strategico.

Amanullah era grato per l’immediato riconoscimento dell’indipendenza del suo paese da parte dell’Italia. Alla fine del 1927 Amanullah e sua moglie Soraya Tarzi fecero un grand tour asiatico ed europeo con lo scopo di rompere l’isolamento del Paese e di aprirlo al confronto con altri Paesi più moderni. Ovvio che un re dalle aspirazioni riformatrici e occidentalizzanti come lui volesse conoscere da vicino quella modernità che voleva introdurre nel suo regno; inoltre, intendeva stabilire estese relazioni diplomatiche. Mai prima di allora un emiro di Kabul si era sentito abbastanza sicuro sul trono da allontanarsi, neanche spingendosi fino all’India. Le casse dello Stato inoltre non erano troppo piene e le legazioni in Paesi europei, anche di poca o nessuna rilevanza per l’Afghanistan, avevano già messo a dura prova l’erario.

In ogni caso il re partì, delegando la reggenza dello Stato a Wali Khan, che cominciò subito ad arricchirsi illecitamente e a incoraggiare Habibullah Kalakani, chiamato in modo dispregiativo

Bacha-i-Sakao o Bacha, il «figlio del portatore d’acqua» – un brigante per alcuni storici afghani, per altri un Robin Hood – a cercare di indebolire il potere centrale. Era il dicembre 1927. Il re e la regina partirono dal porto pakistano di Karachi, sostarono per incontrare al Cairo il re Fawad. Suscitarono subito scandalo nel mondo musulmano sbarcando sul suolo egiziano vestiti con abiti europei. La regina, poi, era a volto scoperto. I popoli islamici invece si sarebbero aspettati di vedere un patriota afghano, un vero seguace della Legge del Profeta. Dall’Egitto i reali partirono per l’Italia, dove sbarcarono l’8 gennaio 1928. A Roma furono ricevuti da Vittorio Emanuele III, da Mussolini e da Pio XI, sempre accolto con tutto gli onori. Continuarono il tour ma Amanullah riportò un’ottima impressione dell’Italia. Fu per questo che nel 1929 il re Amanullah, che aveva abbandonato il trono, trovò rifugio a Roma. Da parte sua, ospitandolo, Mussolini faceva sì un favore alla Gran Bretagna, togliendolo dal teatro asiatico, ma anche un dispetto, serbando in petto la serpe fiera nemica del Raj; se poi il re fosse riuscito a ritornare sul trono di Kabul, Roma sarebbe saltata sul carro del vincitore e avrebbe avuto con l’Afghanistan rapporti del tutto privilegiati. Amanullah rimase a Roma fino alla sua dipartita, nel 1960.

Nel 1922 fu aperta la prima ambasciata d’Italia a Kabul. L’Italia sostenne a livello tecnico e finanziario l’ardito piano di modernizzazione di Amanullah inviando subito nel nord del Paese una missione mineraria. Nell’ottobre 1923 inviò anche cinquanta tecnici specializzati, medici e ingegneri, guidati da Giuseppe Mazzoli, Dario Piperno e Gastone Tanzi per costruire scuole, ospedali, ponti, dighe e strade. Contribuì anche alla costruzione di una moderna flotta aerea con la spedizione di due aeromobili costruite dalla Società italiana Caproni, che nel 1911 aveva realizzato il primo aereo italiano e durante la Prima guerra mondiale una serie di aerei bombardieri pesanti usati sia dalle forze italiane, sia da quelle francesi, americane e britanniche. La costruzione della nuova capitale tuttavia, nonostante quello che l’emiro aveva assicurato a Tanzi, fu affidata ad architetti e ingegneri tedeschi e francesi. L’Afghanistan tornò di nuovo al centro delle mire dell’Occidente. La Germania voleva riprendere la leadership delle esportazioni in Medio Oriente e affiancò al progetto una politica estera che mirava alla penetrazione economica in Persia, Sinkiang, Mongolia e Afghanistan. Nell’aprile 1922 vi fu la rivolta delle popolazioni dei due protettorati russi di Bukhara e Khiva sostenuta da Amanullah, che fu repressa dalle truppe sovietiche. A questo seguì l’immediata reazione dei britannici, che offrirono aiuti economici per rafforzare la frontiera settentrionale afghana al confine con l’URSS e spinsero per la partnership economica di Kabul con la Repubblica di Weimar per rafforzare il fronte occidentale. Mussolini mandò industriali che andarono per il commercio di budelli di pecora e della seta e nel 1922 una missione mineraria presieduta dall’ingegnere Ferrari esplorò l’Afghanistan settentrionale.

Segno dell’amicizia fra Italia e Afghanistan fu l’apertura di una cappella cattolica all’interno della Legazione d’Italia. Dai tempi della conquista araba della Persia e dell’Asia centrale, iniziata nel VII secolo d.C., quella era la prima volta che un Governo musulmano autorizzava l’insediamento ufficiale di una presenza cristiana, anche se con il divieto di proselitismo. Gli accordi del 1921 con Roma la prevedevano ma solo nel 1932 si diede seguito alla richiesta. Nessuno dei vari regimi o sconvolgimenti politico-militari che hanno caratterizzato la storia afghana – la monarchia nelle sue molteplici declinazioni, la repubblica instaurata da Daoud, l’invasione sovietica, la riconquista dei mujaheddin, la guerra civile, l’Emirato Islamico dei talebani, la Repubblica Islamica dell’Afghanistan – ha mai portato all’espulsione della missione cattolica iniziata nel Ventennio, che anzi nel 1989 ha ricevuto il plauso del Ministero degli esteri afghano per la sua costante e tenace presenza nel corso dei difficili decenni. L’Italia su desiderio del governo afghano mandò a Kabul prevalentemente ingegneri e sanitari, in seguito anche capi-officina e istruttori militari per artiglieria, avendo fornito delle batterie all’esercito afghano. Nel 1928 l’Afghanistan mandò in Italia alcune decine di giovani destinati all’arma aerea, per esservi istruiti alla R. Accademia di Aeronautica di Caserta ed alla Scuola Specialisti di Capua.

Fra l’Italia e l’Afghanistan prima della crisi etiopica però ci fu un’altra e ben più profonda crisi, che portò quasi alla rottura delle relazioni diplomatiche, il cosiddetto “caso Piperno”. Nonostante gli italiani si fossero ben ambientati a Kabul e nonostante il favore che godevano presso l’emiro, nel 1924 le autorità afghane arrestarono l’ingegner Piperno con l’accusa di avere ucciso con un colpo di rivoltella un gendarme, che voleva obbligarlo a presentarsi al posto di polizia. Pare che l’ingegnere avesse tentato di sedurre una donna afghana. Il cappellano italiano racconta che Piperno, che era stato assunto dal Governo afghano, lo aveva ucciso «preterintenzionalmente, in un accesso di nevropatia». In ottobre i parenti dell’ucciso firmarono una petizione all’emiro affinché Piperno fosse loro consegnato per la cerimonia del perdono. Nel gennaio 1925 con molta difficoltà la Legazione italiana pattuì con la famiglia il “prezzo del sangue”, contemplato nel diritto consuetudinario musulmano, secondo il quale spetta alla famiglia della vittima perdonare l’assassino in cambio del pagamento di un’indennità. Ottenuto il perdono dalla famiglia, l’emiro poteva concedere la grazia all’omicida. Ottenuto l’assenso dall’emiro, l’apposita cerimonia ebbe luogo, assieme al pagamento di 130.000 lire da parte della Legazione d’Italia. Piperno però rimase in carcere perché il tribunale afghano doveva prima emettere la sentenza e pronunciarsi sulla pena da infliggere. Mentre il Governo italiano trattava con le autorità afghane per il suo rilascio e rimpatrio immediato, Piperno, che era ebreo, fuggì dalla prigione dirigendosi a nord verso il Turkmenistan, una regione con una forte comunità ebraica, sperando così di uscire più facilmente dal Paese, aiutato dai correligionari, piuttosto che dal territorio delle tribù islamiche. A Mazar-i-Sharif però si costituì e venne condotto a Kabul. Ora la sua posizione si era aggravata. Tuttavia il Governo afghano dette alla Legazione d’Italia formali assicurazioni di un’amichevole composizione della cosa. Invece, senza pubblica discussione né alcun preavviso alla Legazione, Piperno fu sentenziato a morte e giustiziato in carcere. Da quel momento lo “scandalo Piperno” si aggravò, rendendo tesissime le relazioni diplomatiche fra i due Paesi. Alcuni membri italiani del PNF reagirono piuttosto male alla detenzione e all’esecuzione di Piperno e Mussolini minacciò di rompere le relazioni diplomatiche con Kabul. La crisi fu superata grazie allo spirito conciliativo del Governo italiano e all’intervento personale di Amanullah. Roma concordò per la destituzione del comandante della polizia locale, le scuse ufficiali e una congrua somma in oro. Mussolini telegrafò all’emiro manifestandogli la sua soddisfazione e il desiderio di riprendere i rapporti di buona amicizia. Dato che in Afghanistan non c’era quasi niente che non potesse essere risolto da una compensazione in denaro, il Governo italiano ne aveva approfittato e aveva chiesto 7000 sterline d’oro. Nell’aprile 1926 giunse in porto il piroscafo Cracovia proveniente “dalle Indie” che recava a bordo seimila sterline in oro, rappresentanti l’indennità richiesta dal Governo italiano all’Afghanistan per l’uccisione di Piperno. La somma andò metà alla famiglia di Piperno e metà alle casse dello Stato. Con le scuse ufficiali del Governo afghano l’onore dell’Italia era salvo, lo Stato italiano aveva incassato una somma cospicua e anche Amanullah era soddisfatto perché aveva salvato la faccia giustiziando Piperno e, in più, aveva risparmiato 1000 sterline sulla somma pattuita.

Dopo questo incidente e la riparazione gli ottimi rapporti fra Roma e Kabul ripresero. L’Italia però era solo uno dei partner dell’Afghanistan e non il più importante. Per tutto il decennio 1920-30 vi fu una gara fra Berlino e Mosca per guadagnarsi più influenza sul suolo afghano, non solo economica ma anche politica, nonostante l’instabilità del Paese dovuta ai tradizionali conflitti etnici.

Alla fine del 1933 Zahir Shah divenne Re. Dopo che l’Afghanistan votò per l’abolizione delle sanzioni economiche all’Italia, deliberate dalla Società delle Nazioni in risposta all’attacco contro l’Etiopia, a metà del 1936, le relazioni fra Roma e Kabul ripresero con rinnovato vigore. Il cugino del re e governatore di Kandahar, Mohammed Daoud Khan, chiese di assistere alle nostre manovre militari estive; in autunno venne a Roma il ministro degli Esteri, in carica dal 1929 al ’38, che chiese e ottenne dei prestiti per acquistare degli armamenti prodotti dalle nostre industrie. Per l’Italia si apriva un nuovo spiraglio in Asia centrale.

L’Afghanistan fu amico dell’Italia per tutto il periodo fascista. L’India si liberò dal giogo britannico nel 1947 e fu divisa in due Stati, la Repubblica Indiana induista e il Pakistan islamico, da allora nemici. L’Afghanistan durante la guerra mantenne la neutralità, anche se in un secondo tempo dichiarò guerra alla Germania, ma non si schierò con gli Alleati anche per la secolare inimicizia con la Gran Bretagna. Grazie agli ottimi rapporti fra Roma e Kabul anche l’ultimo re dell’Afghanistan, Zahir Shah, dal 1973 risiedette da esule a Roma per ventinove anni.

Con la fondazione di Ismeo e Ispi si consolida un impegno strategico e ‘scientifico’ da parte dell’Italia verso il Medio ed Estremo Oriente. Cosa resta ora di ciò che fu allora e quale insegnamento (se poi esiste) possiamo trarre dall’epopea ‘orientale’ del Ventennio?

L’insegnamento non è tanto quello che abbiamo imparato dai rapporti dell’Italia in Asia e con l’Asia, ma come la figura di Mussolini sia, a mio parere, molto cambiata e diciamo “ampliata” rispetto a quello che gli storici precedenti hanno sempre detto: che in pratica non aveva una politica estera vera e propria o, se l’aveva, era la continuazione di quella prima di lui, con qualche variazione. Oppure che la sua politica estera fu pensata da Grandi, che quando fu agli Esteri ebbe certamente un peso determinante nelle relazioni con la Gran Bretagna ma aveva una visione affatto diversa da quella di Mussolini, o da Ciano in Cina e così via. Mussolini insomma sarebbe stato una specie di arruffone, con in testa poche idee e confuse, se non quelle dettate dalle sue manie di grandezza, e senza un piano preciso.

Sin dal discorso del Moplah, nel 1921, Mussolini aveva le idee ben chiare su dove voleva portare l’Italia nel suo sogno imperiale: l’India. Perché? Perché era ricca, perché costituiva un ottimo sbocco per coloni e merci; inoltre, l’idea di sostituirsi alla Corona britannica, nonostante le dichiarazioni di amicizia, lo seduceva. Pian piano, da una posizione di interesse per la spiritualità orientale dei suoi vent’anni passò a un interesse culturale, economico e sociale a largo spettro, e poi a uno strategico. E la cultura aveva un posto dominante per conoscere quelle terre. Lo espresse a chiare lettere però solo alla fine del Ventennio, a guerra iniziata:

«L’Italia, con la sua posizione dominante in Balcania, nel Mediterraneo e nell’Africa Settentrionale e Orientale, dovrà vivere in contatto con le popolazioni dell’Asia Minore, dell’Egitto, della penisola Arabica, dell’India. Per evitare errori sarà necessario approfondire gli studi di queste popolazioni. Conoscendo queste popolazioni, gli italiani potranno imparare a trattarle, secondo i principi della dignità razziale. Attraverso il Canale di Suez liberato e l’Oceano Indiano, l’Italia potrà stringere rapporti sempre più stretti con le civili popolazioni della Grande Asia Orientale, riprendendo così quella missione che le fu propizia fino alla scoperta dell’America. […] L’italiano dovrà sostituirsi in alcune zone ad un popolo, che ha conosciuto molto bene l’importanza del fattore razziale, qual è stato il popolo inglese, e avrà ai limiti della sua zona d’azione popoli fortemente razzisti, quali sono il tedesco e il giapponese […]».

I limiti all’espansione verso est erano solo quelli posti dagli altri due popoli alleati «fortemente razzisti», il tedesco e il giapponese. L’Italia in molte zone dell’Asia avrebbe dovuto sostituirsi agli inglesi. Dal Mare Nostrum alla Grande Asia Orientale passando per «il Canale di Suez liberato» e l’Oceano Indiano. Questa era la mira di Mussolini da vent’anni, quando profeticamente disse che «l’Asia – misteriosa e potente nel volto e nell’anima – darà assai probabilmente il suo nome al nostro secolo».

In realtà la sua attenzione verso l’Asia si manifestò da prima della fondazione del Partito nazionale fascista, nel novembre del 1921. Il nuovo Stato italiano avrebbe dovuto valorizzare le colonie italiane del Mediterraneo e d’oltreoceano con istituzioni economiche, culturali e con rapide comunicazioni. Disse che il Partito Nazionale Fascista si dichiarava favorevole a una politica di «amichevoli rapporti con tutti i popoli dell’Oriente vicino e lontano». Negli stessi giorni pubblicò su Il Popolo d’Italia un articolo sull’India, prendendo spunto dall’estesa rivolta dell’agosto del 1921 dei contadini musulmani Moplah contro i proprietari terrieri induisti, principalmente brahmini, appoggiati dai britannici. Durante una battaglia scoppiata tra i soldati della Corona e i contadini quasi cento di loro furono catturati e trasportati su un vagone ferroviario. Destinazione: le prigioni. Ma scoppiò la tragedia. Quando la porta del vagone fu aperta, sessantasei uomini erano morti soffocati e gli altri erano agonizzanti. Dobbiamo ricordare che sul suolo indiano al tempo stazionavano circa 70.000 soldati britannici e le tensioni fra il Raj e la popolazione erano già state soffocate più volte in modo cruento.

“La tragedia del treno dei Moplah” ebbe risonanza internazionale e Mussolini non si lasciò sfuggire l’occasione di usarla per sottolineare le difficoltà della Corona e la certezza della futura indipendenza dell’India nell’articolo “Verso il suolo asiatico: Malabar”, per parlare con ammirazione della causa del mondo arabo-islamico contro la dominazione inglese e, profeticamente, per sottolineare, con il risveglio «di popoli e di tribù» che parevano rassegnati, il sorgere di una nuova potenza: la potenza asiatica:

«È palese che la posizione dell’Inghilterra nelle Indie è abbastanza difficile. […] lo sbocco dell’agitazione indiana è segnato ed è fatale. I fermenti sono gettati. La razza si è risvegliata. È in piedi. Il raggiungimento della sua indipendenza non è più una questione di possibilità; è una questione di tempo. Dalle rive dell’Adriatico al mare di Bengala, dal Marocco al Malabar, tutto il mondo arabo-islamico si agita. […] Il risultato di questo formidabile travaglio, che mette in movimento trecento milioni di uomini, sarà il tramonto delle egemonie europee; sarà uno spostamento di interessi, e la valorizzazione di immense ricchezze, che non andranno perdute, perché i pionieri della riscossa islamica sono degli europeizzati che intendono di procedere innanzi, mentre, colla liberazione dell’Islam, nuove forze spirituali potranno entrare nella storia del mondo. L’Europa ha evocato l’Asia e l’Asia – misteriosa e potente nel volto e nell’anima – darà assai probabilmente il suo nome al nostro secolo».

Ultima. L’Ezra Pound dei Cantos in epigrafe. Perché?

Vorrei dire che è per il significato della poesia, un po’ in polemica con alcuni storici “compilativi”, che raccontano con belle parole fatti ben noti – “In his day the State was well kept, / And even I can remember / A day when the historians left blanks in their writings, / I mean, for things they didn’t know, / But that time seems to be passing. / A day when the historians left blanks in their writings, / But that time seems to be passing. / And Kung said, “Without character you will / be unable to play on that instrument / Or to execute the music fit for the Odes. / The blossoms of the apricot / blow from the east to the west, / And I have tried to keep them from falling”. O per l’ultimo verso, che dice che petali dei fiori dell’albicocco soffiano da est a ovest. La bellezza viene dall’Oriente. Ma non è questa la ragione.

Posso anche dire che Pound fu ammiratore e sostenitore del Fascismo e di Mussolini stesso e, nonostante la sua grandezza poetica, pagò a caro prezzo l’aver professato le sue idee. Nell’estate del 1945 rimase per 25 giorni nel campo di detenzione dell’esercito americano, a Pisa, rinchiuso in una gabbia di rete metallica, con solo un tetto di lamiera e il pavimento in cemento, esposto alle intemperie e illuminato anche durante la notte. Fu riportato in Usa, dichiarato incapace di intendere e di volere e rinchiuso in un manicomio criminale per dodici anni, fino a quando Vanni Scheiwiller inviò una petizione all’Ambasciata americana a Roma, sottoscritta da 31 firme importanti nel mondo culturale, e il suo divenne un caso internazionale. Il fatto che un poeta e un intellettuale sia punito così duramente e ingiustamente e per così lungo tempo per aver manifestato liberamente le sue idee mi fa ribollire il sangue – lo ammetto, più che se fosse una voce qualunque.

Qui come in copertina: fotografie di Fosco Maraini dalla spedizione tibetana ideata da Giuseppe Tucci nel 1938

Ma niente di questo è vero o è solo in parte vero, una piccola parte. La ragione per cui Ezra apre il libro è che mi piace. Lo sento un po’ mio con la sua voce così netta, limpida, fusa fra Oriente e Occidente. Risuona profondamente in me sin da quando, adolescente, comprai una copia dei Cantos in edizione italiana super economica. La lessi senza capirci niente. La ripresi in mano qualche anno più tardi, in inglese, e fui come San Paolo folgorato sulla via di Damasco, mi si perdoni il paragone un po’ blasfemo. Quello che scrive, come scrive, quello che evoca, gli echi dei suoi versi, le figure retoriche e i rimandi classici e all’Oriente, mi colpiscono, mi incantano. Così, senza pensarci. Le sue parole sono visioni, sono flash che squarciano il buio. Sono come la ricostruzione storica, che lascia un segno e apre delle porte quanto più è evocatrice e fa sognare. Ezra mi ha accompagnato per tutta la stesura del libro e quando ero stanca mi fermavo a rileggere i Cantos, il primo amore, come se ascoltassi la voce di un amante. Ezra mi piace nella testa, nello stile e nel cuore, questa è la ragione dell’epigrafe iniziale. Semplicemente, mi piace. 

(fine)

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