
“Il cuore umano in conflitto con se stesso”. Difendiamo Faulkner!
Politica culturale
Nella stroncatura, se praticata come disciplina, c’è un’attesa suicidale.
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Uno scrittore scrive in sostanza contro se stesso – la sua scrittura lo cancella. Così, stroncare un altro è, prima di tutto, voltare il falcetto contro il proprio corpo – squartarsi. Ciò che si rimprovera alla scrittura dell’altro, fino al dileggio, è una spietata analisi dei propri difetti: l’altro è lo specchio delle proprie mancanze.
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Senza questa tensione – volgere la spada contro se stessi – la stroncatura è un esercizio rococò, da snob con le piume di pavone al posto del coltello, o peggio, la difesa pregiudiziale del proprio clan contro un altro club – mafia, insomma.
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Ecco: la stroncatura, per essere autentica, deve provenire da chi non ha nessuno intorno, dietro e davanti a sé, non ha padrini né padri nobili né supporti editoriali. Bisogna essere poveri, soli, perfino miserabili per avere l’intelligenza adatta, l’audacia atta alla stroncatura. Come ombre che dal deserto vengono, con parole meridiane e lampanti, a sbriciolare il palazzo.
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Intendo dire: la stroncatura, se è autentica, non è un rapporto di potere. Non può esserlo. La sfida è perduta in partenza, il potere è subordinato al salto. Chi stronca sa che cadrà sempre di faccia, sfracellandosi – ma sa che la propria povertà è un privilegio, è così piccolo che nessuno può afferrarlo, è il virus che appesta il titano, la tenia che corrode il sistema – è inatteso, per questo inesauribile e pericoloso.
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Ogni stroncatura è sempre l’ultima – quella che può stroncarti la carriera. Altrimenti, è un gioco. E l’arte di stroncare non è un gioco – è teatro. Cioè, il luogo dove si muore per davvero, pubblicamente.
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Chi semina vento raccoglie tempesta, dicono i maligni, gli avidi d’ignavia. In realtà, chi semina il vero raccoglie invidia.
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La letteratura non è un diletto, è un duello: chi scrive ha la pretesa di essere l’unico, di forgiare la parola ultima, su cui si regge l’uomo, la natura del creato. Chi scrive vuole smobilitare Babele in Eden. Il resto, è chiacchiera, elogio del fugace. La stroncatura, per questo, è la formula con cui parlano gli scrittori, se non sono codardi – non si critica un’opera, la si supera, con una suggestione narrativa, con l’eroina letteraria. Non si entra in ‘dialogo’ con l’opera, la si disintegra. Chi legge una stroncatura non si attenda la posa del critico, il posizionamento nell’ambito della storia letteraria, l’esegesi sulle sorti progressive dell’arte: avrà una dote di schiaffi, uno scintillio.
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L’autentico gesto culturale è inginocchiarsi di fronte al maestro – per superarlo. Lo stroncatore non intende mandare al patibolo gli stroncati, volta il patibolo in inginocchiatoio. Ha confidenza con i valori, si ritiene, tra tutti, il più piccolo – per questo non ha timore a sfidare.
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Naturalmente, la stroncatura rompe i codici costituiti dell’etica giornalistica. La stroncatura non ha un linguaggio sobrio – al contrario, è esasperata, grottesca, inaudita –, non è oggettiva, non è l’algido referto di un ‘fatto’. Piuttosto, è rabbia congelata in forma, artificio in forma di camera delle torture, sublime tracotanza. Lo stroncatore non gode della benevolenza di nessuno: i paladini dell’ordine giornalistico faranno di tutto per cacciarlo; egli, d’altronde, da sempre ingaggia una battaglia – persa, perciò degna – contro gli ordini professionali. Soprattutto, contro quello giornalistico, perché la libertà si difende da sé, senza norme, legacci, bavagli.
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La stroncatura è un genere nobile, connesso alle origini del giornalismo culturale. Non lo pratica più nessuno. Perché? Perché in Italia puoi essere (anzi, devi essere) politicamente scorretto, ma non puoi fare il culturalmente anarchico. Insomma: sfottere il politico va bene, è redditizio, perfino – per te che lo sfotti e per lui che se ne fotte –, ma non toccate libri, scrittori, i potentati dell’editoria, la cristalleria della cultura. Come mai? Relazioni. L’Italia, di facciata, è un popolo di santi, poeti, navigatori; in realtà, è un paese di mafiosi, di pavidi e di leccaculo.
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Non esistono maestri. La stroncatura è la formula attraverso cui gli scrittori dialogano, da sempre. Da quando alla perfezione formale si è sostituito il rendimento economico, al talento individuale il successo pubblico, al libro impeccabile quello vendibile e l’unica ragione di grandezza è la classifica delle vendite – idiozia: che modestia lo scrittore che cerca il riconoscimento e la riconoscibilità al posto della riconoscenza – la stroncatura è bandita. Rovina gli affari agli editori. In ogni caso, non esistono maestri. Ciascuno forgia la spada con cui scalfirà il prossimo, scannerà se stesso.
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D’altronde, ammetto tre maestri. Nel 1927 Wyndham Lewis, scrittore eccelso per eccesso, fondò “The Enemy”, il nemico. Faceva tutto lui: articoli, illustrazioni, impaginato, stampa. La rivista durò tre numeri, fino al 1929, fino al delirio. L’antico amico – e ritrattista – di Thomas S. Eliot, di Ezra Pound, di James Joyce, il furibondo fondatore di avanguardie, si mise, aristocraticamente, a decapitare tutti. La stroncatura, spesso, ha il mordente della satira alla Swift, la leggerezza di una chiacchiera. Lewis, soprattutto, capì che uno scrittore torna, ossessivamente, nella propria opera, deturpandola, derubandola agli esegeti, sconfiggendola da dentro, con redenzioni che sono condanne, ripuliture che sono massacri – pensate a Pasolini, che nella Nuova gioventù rientra nell’infanzia friulana scombinandola, massacrandosi. Julien Gracq, invece, disciplina all’ascesi, una sorta di sparizione: essere nel mucchio “elettorale” della letteratura contemporanea, gettarsi nella gang bang dell’attenzione mediatica, dell’attrazione scenica, disintegra. “La richiesta assillante di grandi scrittori fa in modo che quasi ogni nuovo venuto dia l’impressione di uscire da una serra di coltivazioni forzate: si stimola, s’impegna, si pungola: vuole essere all’altezza di quel che ci si aspetta da lui, all’altezza della propria epoca”, scrive Gracq in La letteratura senza vergogna (uscì nel 1950, qualche esistenza fa). In effetti: scrittori allevati in batteria, dopati, galvanizzati da recensioni narcotiche. Il maschio tentativo di sostituire il culto dell’autore alla potenza dell’opera, ormai un accessorio. Eppure, la grande opera non risponde alle attese, le surclassa, crea l’inatteso; non è all’altezza della propria epoca, vive al di là, nel sottosuolo, o in un regime azzurro, scrive le epoche a venire. Non si legge per conoscere lo scrittore – un poveraccio, come tutti – ma per offrirsi al libro, il carnefice.
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Infine Mowgli, la creatura di Rudyard Kipling. Ognuno ha l’infanzia che si merita: io andavo per boschi sognando le giungle indiane e il Seeonee, pensavo di poter afferrare i fiumi come la coda di un gatto. Mowgli è la creatura di mezzo, non è bestia ma non è neanche degli uomini. Dopo aver ucciso la tigre, Shere Khan, regina in ferocia, dice “Il Branco degli Uomini e il Branco dei Lupi mi hanno scacciato… Ora caccerò da solo nella Giungla”. Gli scrittori, di solito, fanno branco – chi stronca, agisce da solo, tra le fiere. Da Mowgli impari il coraggio, la spavalda ingenuità, la solitudine, violenta. Un giorno scriverò un ritratto dello scrittore da cucciolo d’uomo, da Mowgli.
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L’unica cosa che raccogli scrivendo stroncature è livore altrui e un buon carico di nemici – la stroncatura ha valore, d’altronde, se, devoti alla forma, all’entità letteraria, si colpiscono anche gli amici. Ti fanno il vuoto. Se scrivi una stroncatura – ne ho le prove – se la legano al cuore per anni. Ti tagliano fuori da tutto, i valvassini e i vassalli del potere culturale. Ma ho sempre creduto che alcune cose, impagabili, andassero fatte.
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La stroncatura, se praticata con rigore, ha dei limiti. Dopo aver disintegrato i falsi idoli è bene tornare al deserto e cercare Dio.
Davide Brullo
*Si riproduce qui parte dell’introduzione a “Stroncature” (Gog, 2020)