
“Non tollero le sue domande!”. Intervista-rissa con Pierre Lemaitre
Dialoghi
Luca Bistolfi
Su alcuni siti e giornali di un paio di settimane fa, sono apparse due notizie, che nel bailamme di questo periodo non hanno suscitato, né lo faranno, alcun commento. Tuttavia esse meritano alcune riflessioni.
La prima notizia viene da Como. Marinella Beretta, una donna di settant’anni, è trovata morta in casa sua, sulla sedia della cucina. Era lì da due anni. Il ritrovamento è stato del tutto fortuito: il padrone di casa, dopo il forte vento che aveva investito parte della Lombardia, si era rivolto ai pompieri per mettere in sicurezza alcuni alberi pencolanti e dalla scala dell’autopompa i vigili del fuoco si sono accorti che qualcosa non andava.
La seconda notizia proviene da Roma. È l’ottobre 2021 quando, a novant’anni, muore Denise Lussagnet, un’ex insegnante di francese ma soprattutto moglie di Antonio, sessantaquattro anni. Antonio, dopo il decesso, invece di avviare le consuete procedure post mortem, decide niente meno che di mummuficare il corpo di Denise e tenerselo in casa. Subito tutti hanno pensato che Antonio avesse agito così per motivi economici, ossia per usufruire della pensione della defunta. Le cronache sono piene di fatti simili. Lo hanno pensato, anzi: lo stanno pensando anche gli inquirenti, che hanno indagato Antonio, sebbene a piede libero, per occultamento di cadavere, reato punito con il carcere fino a tre anni.
Ma i motivi che hanno spinto Antonio a conservare la moglie come un sacerdote egizio sono tutt’altri. O meglio: uno solo. Ecco che cosa ha dichiarato l’uomo a un giornalista: «L’ho sistemata come una mummia tutta fasciata con cura», cosa peraltro vera se addirittura un investigatore si è complimentato per lo stato di conservazione del corpo. «Mi ripetevo», ha proseguito Antonio, «che la tenevo ancora un po’ con me prima che finisse sotto terra. Lo so che la legge non lo consente, ma non mi volevo staccare da lei». Ecco dunque spiegato il motivo della mummificazione. Ma Antonio è stato ancora più esplicito: «L’ho fatto per amore».
Adesso che, giusta la legge, Denise è stata portata via e seppellita regolarmente in un cimitero, quello del Verano, il marito confessa: «Torno nei posti in cui sono stato con lei. Poi rientro a casa ma sono solo». E conclude domandandosi nel suo italiano approssimativo e tenero: «Non era meglio se Denise restava qui?».
Sono due storie parallele ed eloquenti.
Quella di Marinella è una storia che oso definire sordida, degna di un romanzo di Giorgio Scerbanenco. Com’è possibile che una persona possa rimanere per due anni, ripeto: due anni morta stecchita in un appartamento se non per colpa dell’agghiacciante indifferenza che la circonda? Questa donna non aveva né parenti, né amici, può capitare, e magari, invento, aveva anche un pessimo carattere. Ma è tollerabile, è cristiano, è umano che nessun condomino si sia chiesto perché non la si vedesse più in giro? Nessuno, in questi due stramaledetti anni, è andato a suonarle il campanello per dire «Ehi, vecchia, sei ancora viva?».
Mi vien da bestemmiare e sputare in terra davanti a questo spettacolo più orrorifico del più sconcio film dell’orrore! Anzi, l’orrore raccontato in una pellicola di Cronenberg o in un romanzo di Stephen King non raggiungerà mai simili vette di ignominia per il genere umano e per questa società putrefatta e pervertita.
Se gli dèi non avessero agitato i loro venti su Como e se non fosse stato per l’occhio vigile di un pompiere capitato lì per caso, Marinella Beretta sarebbe rimasta su quella sedia per chissà ancora quanto tempo. C’è davvero della crudeltà in questa storia, una crudeltà che temo nessuna epoca ha mostrato quanto la nostra, sempre chiusa in se stessa, timorosa, diffidente, menefreghista, individualistica, egoistica, solipsistica, autistica. In breve: una società malata, e forse irredimibile.
A maggior infamia per essa, leggo che i funerali di Marinella saranno pagati dal comune, essendo lei povera o non avendo alcuno che vi provveda. Sarebbe però doveroso che fosse il vicinato a fare una colletta per pagare il viatico alla donna: almeno così si riscatterebbe dalla sua vergogna, anche se solo un poco. Anzi, sarei felice se esistesse addirittura una legge che, in simili circostanze, toccasse questa gentucola nell’unica parte sensibile che hanno: il portafoglio.
La storia di Antonio da Roma, invece, ha il sapore di una fiaba di Tim Burton.
Temo che qualche psicologo o psichiatra catodico o cartaceo, se avrà prestato attenzione all’episodio, si diffonderà a scovare motivazioni freudiane al gesto disperato e grandissimo (sono convinto di definirlo così) di quell’uomo. Magari già qualche lettore invocherà il complesso di Edipo, vista anche la differenza di età con Denise, oppure qualche bizzarra teoria sul rapporto tra amore e morte, tra amore e cadaveri. Sono anche pronto a scommettere che ad Antonio toccherà una visita da uno strizzarcervelli di Stato.
Ma se anche Antonio fosse stato un uomo dal carattere debole o qualcosa del genere, beh, chissenefrega. Il suo gesto è stato un gesto di vero amore, un tentativo di offrirsi un simulacro di affetto, la volontà di non gettare al primo netturbino di cadaveri la donna che gli era stata accanto per chissà quanti anni. Antonio non ha fatto come molti e troppi di noi, che non vedono l’ora di sbarazzarsi dei morti, consegnandolo ad asettici professionisti della morte, a cominciare dai medici, nuovi sacerdoti, amministratori e duci dei nostri corpi prima durante e dopo la dipartita.
Il gesto di Antonio grava sulle nostre coscienze.
Nel 1978 la Mondadori pubblicò un libro di Jean Ziegler, sociologo, parlamentare socialdemocratico svizzero e funzionario dell’Onu. Un uomo che ha viaggiato in mezzo mondo denunciando poi gli inarrendevoli stupri di questa nostra meravigliosa società capitalistica. Il libro si intitola I vivi e la morte. Sottotitolo: Saggio sulla morte nei paesi capitalisti. Basato su solida documentazione tratta da studi e dall’esperienza personale dell’autore, il testo svolge un raffronto tra le civiltà cosiddette barbare e quelle cosiddette avanzate occidentali, rilevando come mentre nelle prime la morte e i morti sono parte della comunità fin oltre l’ultima manciata di terra depositata sul sudario, nella società capitalistica essi sono diventati merce come qualsiasi altra. Ma non solo. La morte è di fatto negata con volgari stratagemmi, i soliti e che sempre si rinnovano.
Ziegler non ripropone le tesi, piuttosto classiche, del conservatore Philippe Ariès nella sua Storia della morte in Occidente: va invece molto più a fondo e lo spettro delle sue osservazioni è assai più ampio, ed è un peccato che il breve spazio di un articolo non consenta di renderne conto meglio. Ma è una lettura che andrebbe fatta e ripassata, soprattutto oggi, e meditata in tutta serietà.
La società capitalistica ha disumanizzato tutto, persino la morte, che non a caso viene vista come qualcosa di estraneo, bizzarro, respingente. E ovviamente lucrativa.
Immagino che molti lettori leggendo la storia di Antonio siano inorriditi. La moglie mummificata in casa, oddio, che brividi! Macché brividi! Antonio, senza neppure rendersene conto ma con quella spontaneità estranea agli intellettuali complici dell’attuale sfacelo, ha cercato nel suo piccolo se non di raddrizzare le nostre magagne almeno di testimoniare gesti antichi e nobili: la cura del defunto e la sua devota custodia. Ho poc’anzi detto che l’essere umano contemporaneo è pervertito: lo ribadisco! Si è allontanato da quelle pratiche e da quelle delicatezze corrompendole. Nessun animale, della cui salvaguardia oggi si blatera tanto ma dai quali non impariamo nulla, si comporta in questo modo. Le bestie, anzi, dimostrano spesso una nobiltà e una sensibilità a noi ormai estranee. Per dimostrarvelo voglio raccontarvi ancora una storia, anch’essa autentica.
In un branco di elefanti africani nasce un cucciolo. Esso è debole e il clima torrido, impietoso. L’acqua scarseggia ovunque siano stati gli animali percorrendo decine e decine di chilometri. Il cucciolo cade a terra, morto di stenti. Il gruppo dovrebbe però proseguire alla ricerca di una polla d’acqua. Eppure si ferma, e per prima la madre del piccolo, che sosta a lungo accanto a lui. Solo dopo aver levato al cielo azzurro e sordo i suoi barriti di dolore, lo raccoglie misericordiosa con la proboscide e, renitente a quella morte straziante, lo porta con sé per un lungo tratto. Occorre del tempo prima che, rassegnata a quella fine prematura, depositi il figlio con delicatezza sul suolo arso dal sole sotto una lama d’ombra, e con gli altri membri del branco se ne parta alla ricerca dell’acqua, che riuscirà finalmente a trovare molto distante. Ma adesso che almeno il suo corpo si è rinfrancato, c’è ancora qualcosa da fare: tornare presso le spoglie della creatura. La sua memoria è infallibile. Qui, assistita dagli altri compagni, allestisce ciò che ha tutta l’aria di una cerimonia funebre. Altro non potrebbe essere. Ed è solo a questo punto che l’elefantessa saluta per l’ultima volta il figlio con un ultimo barrito, più eloquente di mille poemi e che, insieme agli altri gesti perfetti e pietosi, al figlio degenerato dell’uomo insegna più di mille parole.
Luca Bistolfi