31 Luglio 2022

Guido Morselli e la rivolta dei cacciaviti. Un testo ritrovato

Appunti dal diario di domani. Così infatti recita il sommario:

“dal diario di domani: l’acciaio rifiuta la trasformazione in cacciavite, per influsso radio attivo – Troppe macchine usurpano l’opera dell’uomo – Gli apriscatole soccombono all’energia atomica e gli Americani arrischiano la fame”.

Una nuova pestilenza travolge gli oggetti. Tutti i cacciaviti del mondo improvvisamente cessano di funzionare. Lo stesso destino travolge gli apriscatole. La rivolta delle macchine contro l’uomo. È una rivoluzione a catena, che parte dall’Inghilterra, da Liverpool. Leggendo l’articolo Una rivolta, pubblicato da Guido Morselli sulle colonne di «La Prealpina», un remoto 3 febbraio 1950, sembra che lo scrittore lucido, razionale e visionario ci voglia mettere in guardia. Due decenni prima della stesura del capolavoro di Dissipatio H.G., scritto nel 1973, pubblicato nel 1977 da Adelphi, Morselli ci gettava in una graffiante visione antimacchinista, che merita di essere riletta. Alla vigilia dei cinquant’anni dalla sua morte, dal suo suicidio nella torrida notte varesina tra il 31 luglio e il primo agosto 1973.

Molto sappiamo dell’amore e della coscienza ecologista del Morselli. Nel novembre 1943, scriveva sul suo Diario un aforisma che oggi potrebbe essere uno slogan, il grido di guerra per salvare il pianeta: “La natura è una musica alla quale gli uomini sono quasi sempre sordi”. Guido Morselli era disposto a sborsare milioni di lire per impedire l’abbattimento di alberi maestosi. Lui che andava in giro con stringhe di spago e allacciava l’impermeabile con piccoli strappi di nastro adesivo. Sappiamo anche che, sulla carta d’identità, alla voce professione aveva scritto: agricoltore. Ma l’agricoltura per lo scrittore gaviratese (nato a Bologna il 15 agosto 1912 e morto a Varese), stando alla testimonianza dei coloni e soprattutto del fratello Mario, era un vezzo, un’idealizzazione a tratti nostalgica, un sogno bucolico da cullare senza fare troppa fatica. Scrivere era la vera fatica, ancorché “fatica inutile”.

Scriveva seduto sulla panca di legno, sotto il gelsomino che correva con le sue dita affusolate e odorose sulla casina rosa ai margini del bosco prealpino. Sulle sue gambe il “macchinone”, la pesante Olivetti M20, in livrea nera, su cui batteva, un tasto alla volta, i suoi capolavori. La questione dell’anima è focale: le macchine hanno un’anima? Anche in Roma senza papa si tratta la questione dell’anima delle donne: “habet mulier animam”. Ma che diavolo è successo a Liverpool, nella città cresciuta proprio grazie alla Rivoluzione industriale?

“Il primo degli incredibili annunci comparve nei giornali, il 3 di febbraio, senza speciale rilievo. A Liverpool era accaduto questo: i cacciaviti in uso in un’officina, unicamente i cacciaviti, erano divenuti d’un tratto inservibili, ridottosi il metallo alla mollezza sorda del piombo. Lo stesso giorno, a Sheffield, in un opificio dove si fabbricavano fra l’altro cacciaviti, una partita di questi arnesi appena fabbricati aveva subito la medesima inopinata trasformazione”.

La pestilenza non conosce confini, è globale.

“Il 5 febbraio, l’identico caso si verificava in quattro diversi stabilimenti, nel distretto russo di Nishni Novgorod – già Gorki – e nel Belgio: analoghe segnalazioni giungevano il giorno seguente da Essen, da Lilla, da Napoli, dalla Nuova Zelanda, dall’America del Sud. La «peste dei cacciaviti» si propagava con fulminea rapidità ai continenti più lontani. Verso la metà di febbraio, il mondo non disponeva più di un cacciavite, né era in grado di fabbricarne”.

Le macchine assomigliano all’uomo. Non si tratta di una rivolta dal sapore luddista, non c’è accanimento, ma è la macchina che si ribella al suo creatore, passivamente, ma ostinatamente.

“Con proterva ostinazione, quasi umana, l’acciaio si rifiutava a quel modesto ma indispensabile ufficio. L’officina di Liverpool faceva parte di un impianto mosso da energia atomica. Disfacimento molecolare, degradazione di elementi provocata da influssi radioattivi? Ma perché tutti gli innumerevoli altri utensili e oggetti metallici ne sarebbero stati immuni? Scienziati e tecnici brancolavano nel buio”.

La situazione di smarrimento porta molti stranieri in Italia, paese abituato a trascurare la manutenzione. Lo sguardo morselliano sa essere sornione e beffardo, implacabile.

“Smarrimento e disordine nelle popolazioni. Aumento improvviso della criminalità. La disoccupazione triplicata in poche settimane. Denunciata da ogni parte una ripresa del comunismo, ossia di quella stessa tendenza politica in cui da un decennio la grande rivoluzione socialista in Russia aveva segnato la fine. Migliaia di forestieri affluivano in Italia, paese anche in questo frangente considerato il meno infelice, come quello in cui, la manutenzione essendovi stata sempre piuttosto trascurata, le macchine e in genere i mezzi di produzione e di trasporto avevano più probabilità di resistere allo «sciopero» dei cacciaviti. Anche in Italia, nondimeno, le locomotive principiavano a non voler sapere di far servizio; i telefoni non rispondevano più del tutto alle chiamate, e le candele, divenute oggetto di prudenti accaparramenti, toccavano prezzi ingentissimi”.

Tra le altissime personalità, Morselli ricorda Einstein interpellato per l’occasione.

“Einstein, quasi centenario, dichiarava che a causa dell’arresto delle calcolatrici elettroniche la sua ultima e definitiva scoperta sarebbe morta con lui. Tale prospettiva d’altronde non preoccupava nessuno, nel generale ristagno delle sue attività intellettuali. Qualche maggior emozione produsse, riferisce il mio diario, il suicidio di un giovane Evans, canadese, dopo che la fidanzata, ammalata di cuore e sottoposta al «polmone» meccanico, era entrata in coma, in seguito a un guasto, lieve ma ormai irreversibile, dell’apparecchio. Il motto di un matematico spagnolo: «concedetemi… un giro di vite e vi solleverò il mondo», non faceva più sorridere alcuno, e in Italia era schivato come jettatore chi si attentava a ripeterlo. Rinunciando all’allestimento della spedizione astrale gli ingegneri del politecnico intercontinentale del Massachusetts lavoravano accanitamente e senza risultato a studiare leghe capaci di sostituire il ferro e l’acciaio ribelli”.

Come tutte le pestilenze, anche questa conosce la sua fine, incomprensibile, nell’esultanza di tutti: segna la fine di un incubo.

“Una mattina, i popoli seppero che le leggi della materia avevano ripreso il loro vigore, cui i cacciaviti non facevano più eccezione. Riti di ringraziamento e feste popolari manifestarono ovunque il sollievo dell’umanità salva da un’oscura minaccia: un sollievo al quale rimasero estranei solo i cultori delle scienze fisiche e chimiche, tuttora assorbiti nel compito di spiegare l’inspiegabile”.

I cacciaviti, gli apriscatole sono solo alcuni degli attrezzi del mestiere dello scrittore Morselli. L’inventario degli utensili, delle “piccole cose care” dell’opera morselliana potrebbe riservare delle sorprese. Non c’è solo la Browning 7,65, la celebre ragazza dall’occhio nero, ma c’è un bagaglio ricco di oggetti che ci insidiano, ci seducono, che infine ci richiamano in vita.

Le cose, i relitti, le macchine sono il fulcro dell’interesse filosofico- politico-letterario di Morselli – il padre di Mimmina, la protagonista di Un dramma borghese, la sua terza opera narrativa, lo ammette senza pudori –, da oggetti, il registratore (anche del sonno), il nastro per la macchina da scrivere diventano soggetti cari, piccole cose animate di vita, come la stessa pistola, la “ragazza dall’occhio nero”, enti non “iificati”, ma “felicemente compiuti e autonomi”, appendici fidate e rassicuranti della personalità, garanti di libertà. Fino al momento in cui tutte queste cose care si ribellano e la macchina soffoca l’umanità, la distrugge e crolla l’illusione umana nei confronti di questi oggetti.

Ogni oggetto fa il suo appello, ci interpella, ci chiede di volergli un po’ di bene. Ne parla in Dissipatio H.G.:

“Piccole cose familiari e vischiose, gli oggetti che ti riagguantano, e ognuno ha il suo modesto fascino prensile, tenace, è la foto fatta da te, della neve d’aprile sul tetto, il tappetino finto – buchara che ti sei regalato per Natale, la macchina da scrivere col foglio infilato nel rullo, il fanale da caccia a carburo che non ti serve ma sta così a posto in anticamera col suo rosso vivo, il long-playing con la sonata per piano di Albinoni”.

L’appello delle cose diventa totalizzante e vitale in Dissipatio H.G. quando l’umanità è dissipata, non c’è traccia dell’uomo. C’è l’impronta di una testa sul cuscino e il mondo disumanizzato, senza uomini, non è mai stato così pulito, luccicante, allegro. Forse sono proprio queste cose che ci sopravvivono ad ancorarci alla vita, a garantirci la sopravvivenza. Fosse anche solo una sigaretta, o un “pacchetto di Gauloises”.

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