Un mondo di grilli e di dèi. Il provincialismo di chi odia la cultura popolare. Ovvero: l’auto-razzismo degli italiani
Cultura generale
Bruno Giurato
Molti lo vorrebbero in pensione o addirittura rinchiuso da qualche parte, magari in un luogo da cui non gli sia permesso parlare; altri vorrebbero sentirlo cantare di amori non corrisposti o romantici incontri alle porte del cimitero, come quarant’anni fa. Ma Morrissey resiste, e le sue liriche si fanno sempre più affilate, la sua voce migliora concerto dopo concerto, e la schiera dei suoi fans, che lo amano e lo odiano, col passare degli anni lo amano e lo odiano di più. Molti non si rassegnano allo scorrere del tempo, paragonano il Morrissey di oggi a quello di ieri, quello sessantenne a quello ventenne, come se questa fosse una cosa sensata, come se parlassero di due persone diverse. Non si rendono conto che gli artisti evolvono, si rinnovano, crescono. E se Morrissey non canta più di amori adolescenziali è perché qualcosa è più urgente, più importante; c’è qualcosa che ostacola proprio l’amore, la vita.
Mentre in Italia infuria il solito festival della banalità musicale, dei luoghi comuni, degli insostenibili moralismi, spegniamo la tv, lasciamo fuori quella grottesca tribuna e ascoltiamo la voce di un artista vero, che mette la poesia in musica.
Insegnate ai vostri bambini
A riconoscere e disprezzare tutta la propaganda
Diffusa
Dai media mainstream di un élite morta
Hey, hey, hey, hey, tu mi conosci bene
Amore mio, farei di tutto per te
La società è un inferno
Tu hai bisogno di me tanto quanto io di te(My Love, I’d Do Anything for You – Morrissey)
Così si apre l’album Low in High School, forse il più polemico e politico dei suoi album, con un affondo alla propaganda di cui è impregnata la nostra società, una propaganda spietata e sottile, a volte spudorata, a volte nascosta dentro certi silenzi.
Smettete di guardare i notiziari!
Perché i notiziari ti spingono ad avere paura
a farti sentire piccolo e solo
a farti sentire come se la tua mente non ti appartenesse(Spent the day in bed – Morrissey)
È l’unico artista a non avere paura di aprire la sua boccaccia (quella “Bigmouth” di smithsiana memoria) e sparare ad alzo zero, colpendo la società, i politici, i mass media, i critici musicali e tutto quel sistema che ha prodotto una nuova forma di schiavitù lavorativa e fenomeni come la cancel culture, dove le persone vengono quotidianamente crocifisse per quello che pensano. “Diversity means conformity”, ha recentemente affermato in una intervista: diversità “è soltanto un’altra parola per dire conformismo. […] Quando le persone parlano di diversità non pensano alle grandi cose che non abbiamo in comune. Quelle cose vengono ignorate […] vogliono soltanto che tutto sia uniforme”.
Gli hanno dato del razzista, dello xenofobo, del fascista, nel tentativo di screditarlo, ma resta un fatto: la sua voce non è mai stato più bella, pungente e libera. E non è affatto vero che le sue canzoni non parlano più d’amore, anzi. Parlano dell’amore proprio in questi tempi mediatici (o mediati), di un amore che sta sparendo, soffocato dai miasmi del perbenismo e dalla falsità, con sarcasmo e ironia, ma con quell’onestà che da sempre lo contraddistingue e che a molti risulta insostenibile.
Ascoltare Morrissey, forse l’ultimo vero poeta inglese, significa mantenere un contatto con la libertà senza lasciarsi piegare dal ‘mainstream’; ascoltare la sua musica significa ascoltare Musica, e non polpettoni tritati e rimescolati; liberarsi le orecchie da quella musica politicizzata; ascoltare la poesia nella sua forma più contemporanea e più antica allo stesso tempo.