Il difficile è scrivere di Antonio Moresco facendo a meno della sbrigativa vigliaccheria di fargli il verso, come m’è già capitato di farglielo. Uno scrittore ha un suo linguaggio, usa la lingua di tutti ma in un modo specifico che è la sua cifra e che non deve essere però la sua maniera, il suo metterla in posa. Moresco ha un dizionario, un immaginario consolidato, stilemi che gli sono propri. A chi tocca l’altolà, puntare il dito contro uno scrittore è dirgli: attento a te, stai plagiando te stesso? Modiano, con i suoi libri che sono tutti lo stesso libro e che non sono mai un libro specifico, proprio quel libro lì e non allo stesso tempo quelli prima e quelli dopo, ci ha vinto un Nobel. Nel mondo di Moresco è corrente la lingua di Moresco. Più lo leggo più mi disoriento (sono già stato qui o è la prima volta che sono qui, in queste sue pagine, o sono sempre stato qui?). In me si salda la convinzione che Moresco sia il creatore di una dimensione del linguaggio dunque che sia uno scrittore in piena regola ovvero che se ne è date da sé delle sue. È come Herta Müller, ho pensato leggendo in Stelle in gola, pubblicato con Sem, il passaggio (giovanile) “Nel cielo capovolto un uomo si divide dalla sua ombra e la dà in pasto a un monotono verso di rane notturne”. Non perché sia importante assomigliare a qualcuno. Uno scrittore, quando lo è, assomiglia solo a sé stesso.
Mi avvicino e mi allontano a e da Stelle in gola di Moresco: cosa si può dire di “un libro rifiutato da uno scrittore rifiutato”? Il rischio refrain c’è, di chi si è troppo affezionato al ruolo cui è stato costretto in passato: Moresco lo scrittore rimandato, ricacciato, come si definisce lui: sotterraneo, in combattimento per venire alla luce. La luce editoriale su Moresco ormai brilla del tutto. Solo agli scrittori affermati, di riconosciuto prestigio, pubblicano le opere incomplete, i brandelli di opere incompiute, le pagine postume in vita. Alla domanda busiana “Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?” Moresco risponde: Tutto!, facendo tabula rasa di qualsivoglia implicita intesa di retorica ironica della domanda, e della risposta. Del dolore non ne va perduta neppure una briciola. Il dolore non si sposta andando a capo come a fine di frase. Il dolore è un gioco dell’eternità.
“Il pessimista, perciò, non è semplicemente, come spesso si crede, colui che si addolora – d’altronde, non tutti gli addolorati sono pessimisti e non tutti i pessimisti sono degli addolorati – ma colui che muore sub specie aeternitatis (sotto l’aspetto dell’eternità)” scrive Claudio Kulesko nel capitolo I, “Le Radici della Notte. Una ricognizione nel cuore del pessimismo”, in Blackened, a firma Cassini/Kulesko, pubblicato per Aguaplano. È stato attraverso queste parole che sono entrato per un’altra porta nella dimensione letteraria di Moresco, che è pessimista secondo il senso atemporale assunto dal pessimismo inteso come “un fuoco che non scorre”. Il mondo di Moresco è in penombra, è sofferente, sarà pure in tracimazione, slitterà pure verso un nuovo piano, ma l’estinzione della specie è più vicina del suo salto, le forze contrarie in netto vantaggio su chi gli resiste e chi gli resiste è un eroe non perché può ribaltare la sua sorte, la sua sorte è segnata: è un eroe perché resiste, perché a ciò che lo dilania offre la fronte e il petto non la schiena, non i talloni della fuga.
L’esperienza di Moresco è stata, e dunque è sempre e sempre sarà, disperata e disperante. In Moresco c’è l’avvicendarsi dei fallimenti: la strada religiosa, ovvero l’esperienza in seminario (“La solitudine della chiesa. La sera, tornando dal refettorio, le stelle. Spalancavo la bocca, erano gelate e mi entravano in gola. Richiudevo la bocca per non lasciarle scappare. Correvo nel dormitorio e quando spegnevano la luce mi addormentavo con la bocca piena di stelle”); la strada politica, ovvero l’esperienza clandestina nella sinistra extraparlamentare (“E pensavo sempre che dovevo sconvolgere l’universo”); la strada estetica: i libri-rifiutati-di-uno-scrittore-rifiutato (“Sono certo che quando morirò troveranno la più grande opera poetica del Novecento sul buco del mio sedere”).
Il Moresco delle pagine di Stelle in gola è più slapsticamente kafkiano che mai: “Il gatto si aggirava nei pressi della pattumiera, dove affiorava la testa mozza del pesce. Con un salto l’addentava, cominciava a divorarne l’interno, la spostava per la casa, entrava e usciva dalla stanza con il muso affondato in quella testa cruda, e a guardarlo pareva un incredibile animale col corpo di gatto e la testa di pesce.”
In Stelle in gola c’è il Moresco che si è potuto poi conoscere in altre sue opere, gli esordi del suo Gli esordi del 1998, ma c’è pure un Moresco per me del tutto inedito ed è il Moresco del Diario Giallo (pagine da 235 a 257). Moresco stesso prepara alla sua lettura: “Chiedo al lettore di leggerle con discrezione e pietà.” Non ho letto altrove un Moresco col cuore così messo a nudo, più disposto all’autosputtamento, il Moresco che dice del mostro che è stato e che dunque è e sarà per sempre, perché niente si avvicenda a niente e tutto è contemporaneamente come un-fuoco-che-non-scorre. Il Diario sarà stato giallo con ogni probabilità perché gialla ne era la copertina ma di sicuro è giallo come la bile che Moresco ci travasa: “Iniziare un diario? Ancora? Adesso?” Con Moresco non si sa mai dove siamo e quando siamo, perciò possiamo essere sempre e ovunque, per la stessa ragione può essere il diario di chiunque, chiunque si perda la bambina sulla spiaggia, chiunque scappi via perché nessuno vedesse cosa stava facendo di sera, a Recanati, qualsiasi trentatreenne al di fuori di una traiettoria esistenziale ordinata a cui la madre abbia ficcato in bocca nei tempi remoti un succhiotto di gomma dopo averlo ripassato nella merda, come si fa coi gatti.
Moresco incendia il dolore e con le ceneri inesauribili del dolore incendiato scrive libri in cui la luminosità e l’oscurità sono la stessa cosa.
Antonio Coda