15 Giugno 2020

La profanazione, presto o tardi, è il destino di tutti gli idoli. Indro Montanelli e i paradossi della storia

La questione delle statue erette a Montanelli (e imbrattate a più riprese dalle femministe) è complessa ed emblematica. Il suo tardivo antiberlusconismo ne fece una specie di sacra icona gradita anche alla Sinistra; cosicché le recenti e meno recenti polemiche (e profanazioni) dettate soprattutto dai suoi trascorsi africani sono parse a molti un crimen laesae maiestatis.

Il primo atto dell’amministrazione italiana in Etiopia fu proprio l’abolizione della schiavitù. Una delle famigerate «cose buone del Fascismo», e forse la meno nota e la meno citata: uno dei tanti paradossi di cui la storia è irta, e su cui la storiografia dovrebbe interrogarsi, anziché eluderli. «Col gladio di Roma è la civiltà che trionfa sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull’arbitrio crudele, la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria».

Il colonialista si poneva come portatore di una civiltà superiore (oltre che di una retorica marmorea e dispotica). Le stesse gerarchie militari fasciste contrastavano il madamato. Fin dal 1932 il Generale Graziani scriveva: «Anche a prescindere da ogni considerazione politica (per la speculazione che il mondo indigeno ama fare su queste nostre relazioni con le sue donne) il solo lato disciplinare e morale del fenomeno è sufficiente per condannarlo e deprecarlo». Il che significa che né il Fascismo, né tanto meno le popolazioni locali, vedevano con favore, né giustificavano per via del contesto, l’acquisto di una dodicenne (“animaletto docile”, così la ricordò in vecchiaia) insieme a un cavallo e un fucile.

Del resto il Codice Rocco vietava i rapporti sessuali con i minori di quattordici anni. «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà», scriveva Montanelli nel 1936. Era proprio la moderna civiltà giuridica europea che poteva e doveva dissuaderlo dal comprare una schiava. (Allo stesso modo, come faceva notare Manzoni, le leggi non imponevano affatto ai giudici di torturare i presunti untori, cosicché ogni scelta ricadeva sulle loro coscienze).

Questa non è retorica terzomondista o antioccidentale. L’ideologia stessa del «fardello dell’uomo bianco» abbracciava la consapevolezza che i posteri avrebbero giudicato l’operato dei conquistatori. «The silent, sullen peoples / Shall weigh your gods and you», ammoniva il suo cantore più celebre. «Astiosi, silenziosi i popoli / soppeseranno te e i tuoi dei».

Chi, anche da vecchio, parlava della bambina infibulata che poté essere violata solo dopo il «brutale intervento della madre», senza un minimo di rammarico, senza una parola per le sue sofferenze, che si immaginano atroci, non può non lasciare turbati. La sua indifferenza, il suo gelo dovevano essere ancora quelli di chi aveva salutato (facendo eco del resto a tutto un clima sociale e ideologico di attesa, fermento, rivalsa) la stessa guerra d’Etiopia come «una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola».

Certo, di un Genio (un Pound, un Céline, un Hamsun, forse addirittura un Evola) si possono lasciare da parte gli abbagli ideologici o le incertezze etiche. Ma io non so se la statura intellettuale di Montanelli sia paragonabile. Da immenso giornalista, portò all’estremo e ingigantì, del giornalismo (il quale, diceva Wilde, è di per sé illeggibile, mentre la letteratura non è letta), anche i difetti: la tendenza, tipicamente medioborghese, alla schematizzazione, al semplicismo, allo stereotipo; la disinvolta mescolanza di testimonianza diretta e fonti di seconda e terza mano (i suoi decantati reportage dalla Finlandia – ai quali risale proprio la famosa foto poi trasposta nel bronzo delle statue – citano incontri impossibili, battaglie mai avvenute, addirittura luoghi inesistenti; la sua altrettanto celebrata Storia d’Italia non è, in fondo, che una scucita, per quanto agile, galleria di aneddoti che poco ha a che vedere con la storiografia, intesa come esame critico e comparativo delle fonti).

Io non so dire se meriti parchi e monumenti. In ogni caso, di lui è stata imbrattata, dopo la morte, l’effigie. Della povera Destà (di cui non resta che un nome, e che, per ulteriore, atroce beffa, poté testimoniare – muta, si direbbe, come il cavallo e il fucile insieme a cui fu venduta – solo nelle parole del suo padrone) furono profanati per sempre il corpo e l’anima.

Ben vengano, in fondo, anche i vandalismi, se invitano, anzi forzano a ripensare il passato, a sollecitarlo e a smuoverlo, scuotendone l’apparente immobilità, la costante, inviolabile e aprioristica, giustificazione. La profanazione, presto o tardi, è il destino di tutti gli idoli.

Matteo Veronesi

Gruppo MAGOG