Onestamente ho tanto apprezzato Montanelli, quanto schifato certi suoi ex collaboratori, discepoli, e ammiratori postumi. Anche Paolo Di Paolo, il curatore di Cialtroni, l’ultima raccolta tematica di articoli uscita per Rizzoli, lo trovavo francamente insopportabile. Quel suo visino pulito, a metà tra il secchione capoclasse e il fidanzato perfetto, ha il magico potere di farmi vorticare i coglioni. Se a tutto ciò ci aggiungete che scrive sui vari giornali della galassia sinistrorsala Repubblica in primis – il quadro è completo e il disgusto assoluto. Infatti, non lo nascondo, varie volte mi sono simpaticamente divertito a bullizzarlo con qualche frasetta sparsa nei miei pezzi – era diventato il mio esempio preferito di cattiva scrittura.

Poi ho visto che era uscita questa raccolta di Montanelli da lui curata e che i suoi sinistri compagnetti lo stavano pesantemente attaccando, complice il fatto che da qualche tempo il Maestro è tornato come un incubo ricorrente nella mente di femministe e svalvolati vari. Com’è giusto che sia, sono corso lancia in resta in sua difesa. Nessuno può toccarmi i miei avversari e meno che mai i loro stessi sodali. L’avversario è mio e lo posso insultare solo io.

In verità, a ogni modo, mi ero sbagliato. Paolo Di Paolo è un uomo ragionevole, o per lo meno non spara tutte le stronzate di certi fanatici della sua fazione. A malincuore lo devo ammettere, non si tratta di un talebano. Bisogna anche riconoscergli il merito di aver accettato di dialogare, di essersi astenuto dal darmi del fascio-leghista, nazista, femminicida e chi più ne ha più ne metta. Insomma, adesso mi sta simpatico e, se me lo toccate, vi spezzo i denti.

Caro Paolo, benvenuto nel girone dei reietti. Ti sei avventurato in questa impresa di… non saprei se definirla una riabilitazione di Montanelli da sinistra, attirando così il rancore di tanti tuoi “compagni”. Diciamo che l’attuale posizione di “condannato a prescindere” mi porta istintivamente a prendere le tue difese. Peraltro, questo tuo libro esce in un momento in cui c’è una recrudescenza dell’odio verso il Maestro – recrudescenza preparata con mesi di anticipo, grazie anche ad alcuni articoli sulla vicenda, come quello comparso su “The Vision”, e poi culminata nello sfregio alla statua dedicata al giornalista. A proposito, perché i tuoi sinistri compagni lo odiano tanto? Tu che idea ti sei fatto.

Correggerei l’idea che io sia interessato a una sua riabilitazione, di cui non mi sembra avere per niente bisogno. Mi sono occupato più volte, per vie editoriali, di Montanelli e solo di recente ho percepito che ci fosse una pregiudiziale inscalfibile nei suoi confronti. Negli anni scorsi, mi ero giusto sentito muovere delle obiezioni sulla fisionomia complessiva del personaggio. Per il resto, non mi pare che il decalogo dei motivi per cui odiare Montanelli sia tanto diverso da quello che avrebbero sottoscritto i suoi detrattori già quarant’anni fa. Molti di quelli che manifestano in modo tronfio e compiaciuto questo livore non sanno nulla, nello specifico, della sua storia. Adesso poi c’è qualcuno che alza il dito e si indigna, rispetto a un singolo episodio, che anche io trovo pesante e ingiustificabile, ma mi sorprende che l’estensore dell’articolo di “The Vision”, della complessa e turbolenta vita di Montanelli, consideri solo quel passaggio. E ciò non significa che io mi appelli al solito “contesto”, per carità; direi però che è poco interessante la conoscenza che produce un unico fatto rispetto a uno sguardo più ampio su una vita di quasi cento anni. Certo è molto forte, ma intorno a esso manca tutta la storia di una generazione, quella dei bisnonni. Se molti di questi giovanissimi scavassero un po’ nelle carte di famiglia non troverebbero solo gli scheletri che ciascuno di noi in quanto parte della famiglia umana ha, ma anche carte che potrebbero attestare la non specchiatissima parabola esistenziale dei loro trisavoli. Può succedere di trovarsi dentro un albero genealogico i cui rami vanno anche dalla parte sbagliata della storia e bisogna essere un po’ imbecilli per non ammetterlo. Lo sa bene uno scrittore come Javier Cercas che, in Spagna, con Il sovrano delle ombre, racconta di aver avuto uno zio falangista. Eppure, lui semplicemente ne prende atto, provando a fare i conti con la cosa in modo intelligente, vitale, passionale, invece che ingaggiare una battaglia contro i morti. Non per mettere tutti sullo stesso piano, lungi da me. Ma, come sanno i veri scrittori, ogni storia è una storia personale, una questione privata.

Senti, qual è la ratio di questa raccolta da te curata? Si tratta di un’operazione fondata sul culto di Montanelli, oppure i ritratti di politici e personalità dell’universo italico hanno ancora una loro valenza come chiave interpretativa dell’attualità.

Più che come chiave interpretativa dell’attualità, direi della commedia umana. Non per niente, nella prefazione, evoco Balzac. Se anche ci si dimenticasse i nomi dei vari personaggi rappresentati, da D’Alema a Fanfani, quei ritratti continuerebbero ad avere una loro valenza. Anche chi detesta Montanelli, in tal senso, non può non riconoscergli la capacità, pur nella semplificazione a volte anche rozza, di far scintillare la verità di un carattere. Fanfani e Spadolini non sono solo quegli uomini politici, ma sono i caratteri in qualche modo reinventati dal giornalista in una funzione che è più narrativa che espressamente analitica. Quando dice di Spadolini che lascia un vuoto più grande del posto che occupava, oppure attribuisce a Craxi una certa dose di coraggio perché, per ben due volte, Andreotti gli porse un bicchiere e lui si fidò e lo bevve, oltre a far ridere, ci mette al cospetto dei tipi di un’eterna commedia umana. È vero che Cialtroni è un titolo un po’ calcato, anche perché di cialtroni proprio patentati ce ne sono meno di quelli che uno si aspetterebbe. Io, infatti, avevo proposto all’editore un titolo come Cialtroni e no. Avrei così inteso spiegare che, oltre questi, il lettore trova anche Luigi Einaudi, Enrico De Nicola, o Berlinguer, a cui Montanelli riconosceva di essere stato il miglior nemico che uno potesse desiderare. Da questo punto di vista si vede come Montanelli non si sottraesse alla possibilità di ammirare anche un proprio avversario. Cosa, in Italia, rarissima. Ammirare qualcuno, anche e soprattutto se è lontano da te, può solo essere fecondo. Al di là della questione politica, comunque, il libro potrebbe tornare molto utile a chi vuole scrivere, per capire come si impastano i colori fino a far venir fuori quella cosa particolarissima che è un ritratto umano. E alcuni pezzi di Montanelli – dirò una cosa impegnativa – non hanno nulla da invidiare, per esempio, a un Truman Capote. Provate a leggere la Marilyn di Capote e la Magnani di Montanelli: bellissimi ritratti di due talenti della penna. Quando avevo sedici anni, gli scrissi chiedendo di formulare un giudizio su Giulio Cesare, chiarendomi se fosse stato un grande statista o una grande canaglia. Entrambe le cose, mi rispose. Gli uomini, continuava, e te ne accorgerai crescendo, sono un coacervo di contraddizioni. Ecco, a me interessano queste contraddizioni.

Questo non è il primo libro da te curato su Montanelli. Cosa ti lega tanto alla sua figura?

Leggendolo, da giovane, sognavo di fare il giornalista. Questa è una ragione privata che mi aveva avvicinato al personaggio. Non era Montanelli in sé, ma ciò che rappresentava. Il vegliardo, con la macchina da scrivere color verde militare, era praticamente una rockstar ai miei occhi di ragazzino. A quella scuola involontaria avevo imparato a leggere e capire qualcosa del presente, grazie alla sua chiarezza. Parallelamente ho cominciato a diffidare di alcune oscurità fini a sé stesse, di certi barocchismi, o dell’enfasi retorica di certa prosa giornalistica. Successivamente, non tanto per fedeltà di giovinezza, ma per un interesse che si sviluppava nel tempo e che diventava man mano meno incondizionato e idealizzante, ho continuato a studiare la sua biografia. Una volta mi è capitato di dire che si potrebbe rileggere il ’900 italiano usando la storia di Montanelli come una specie di sussidiario impazzito. Infatti, se prendi questa vita e la attraversi, dal 1909 al 2001, hai un secolo davanti con tutte le sue tempeste, speranze, contraddizioni. Al contempo definisco la sua storia come “impazzita” per i tanti rivolgimenti. Da fascista della prima ora, si mette nei guai con il regime già nel ’35. A ciò segue la stagione opacissima degli anni ’40, che tanti sospetti ha destato, in cui cerca la sua via verso l’antifascismo. Successivamente diviene un campione del liberalismo italiano, uno dei giornalisti più clamorosamente noti degli anni ’50-60. Affiora a quel punto la sua vena, se non reazionaria, conservatrice e insofferente rispetto alle evoluzioni della sinistra italiana, politica e intellettuale. Ciò lo portò a essere identificato come uno dei bersagli del lungo ’68. In ultimo, fu applaudito come il sommo antiberlusconiano alle feste dell’Unità. Se fosse un’invenzione romanzesca, non potrebbe essere altrettanto perfetta. Chi è scrittore e appassionato alla storia culturale del paese non può non riconoscerlo, pur mantenendo una certa distanza da quelle pagine della sua vita che non risultano esattamente edificanti. Mi piacerebbe in tal senso chiedere ai suoi detrattori se esistano biografie prive di ombre e se siano eventualmente interessanti. Neanche quelle dei santi lo sono, come sappiamo bene. Sarebbe bello se si riuscisse ogni tanto a fare un esercizio di umiltà rispetto alle storie degli altri. E ciò non vale solo per Montanelli. Che oggi il mio lavoro su Montanelli sia considerato da alcuni “inopportuno” sinceramente mi fa sorridere, oltre a sconfortarmi, perché domani potrei occuparmi di un personaggio ben più sgradevole e urticante di lui, ma ciò non muterebbe le mie posizioni, manifesterebbe unicamente il mio interesse per una certa storia umana.

Ho apprezzato molto i passi in cui Montanelli parla del mondo della cultura italiana definendola “parassitaria e servile”. Non potrei, peraltro, non sottoscrivere tutta quella parte in cui si dice che tale realtà, o forse sarebbe meglio definirla come conventicola di potere, “non è mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo, a compiervi quell’opera missionaria di cui le è sempre mancato non solo la vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente”. Mi chiedevo, però, l’intellettuale descritto da Montanelli, “sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento”, non è forse quello organico – lui stesso lo chiama così – della sinistra?

Forse lui avrebbe risposto sì, dati i suoi parametri ideologici. Io posso solo dirti che probabilmente c’è stata, nella storia italiana del secondo ’900, la prevalenza di una certa linea culturale politica, per motivi che adesso sarebbe troppo lungo e perfino ingenuo affrontare. Parallelamente il riconoscimento di una cultura altra, alternativa, ha tardato e forse non è ancora avvenuto pienamente. Spesso è stata negata, invece che darle udienza e farla entrare in un processo di dialettica democratica. Ciò è indubbio. Prendi il caso di Curzio Malaparte, uno dei massimi scrittori del secolo passato. Altrove, lo trattano per il grande autore che è. Da noi, invece, se ne parli, devi sempre fare delle specifiche. Quanto al fatto che, nella vita culturale italiana, si vada spesso in cerca di un clan di appartenenza, questo è indubbio. Io stesso le avrò sfiorate queste “conventicole” (ricordi l’urlo di Castellitto nel geniale film di Virzì Caterina va in città?) di cui tu parli, o avrò preso la patente senza saperlo. Bisognerebbe evitarlo. Disfarsi delle patenti. Cercare un dialogo con tutti, restando battitori liberi. Le appartenenze non mi piacciono. Venendo infine all’università, esiste effettivamente un fossato enorme tra mondo accademico e società civile. Nessuno si pone fino in fondo il tema di come ridurlo. Faccio una domanda: c’è davvero un dialogo fra università italiana e resto del mondo? Quali esempi abbiamo? Torniamo a Montanelli. Per quanto alcuni la disprezzino e la ritengano approssimativa, non così solida nelle ricostruzioni, la sua Storia d’Italia ha portato in casa di gente come mio nonno, che ha la quinta elementare, una percezione della storia italiana, un’idea. Partendo da quel primo livello, si dovrebbe naturalmente costruire qualcosa di più sofisticato, solido e articolato. Non discuto. Ma quel “primo livello” di divulgazione è fondamentale (pensa al gran lavoro di Alberto Angela in televisione), checché ne pensino gli accademici. Se oggi gli storici sanno scrivere un po’ meglio è anche dovuto a chi si è levato un attimo la parrucca e ha provato a fare un discorso col famoso lattaio dell’Ohio, tendendogli la mano.

Tra i vari ritratti ve ne sono alcuni – penso, per esempio, a quello su Andreotti – che contengono delle cosiddette interviste impossibili, ovvero dei dialoghi non avvenuti, ma che verosimilmente sarebbero potuti accadere, con il personaggio, una volta che questo fosse defunto. Perché il giornalista usava un simile artifizio, a tuo avviso?

Ovviamente è un gioco teatrale. Siano negli anni ’90, sulla “La Voce”, un giornale abbastanza eccentrico, il giornale di un vecchio di 85 anni. Come è noto, il quotidiano durò appena un anno, ma dentro questo Montanelli si divertì come non mai a sperimentare. Questi pezzi mi sono sembrati quelli meglio costruiti nella sua ultima produzione. Quando scrisse l’intervista immaginaria ad Andreotti, che peraltro allora era ancora vivo, riuscì a toccare diversi nervi scoperti della società italiana. Ovvero, come ribadisce in un altro pezzo che ho incluso, la nostra vocazione alla caccia alle streghe, nell’illusione che bruciando la strega incenerisca anche il male. Con queste interviste immaginarie riusciva a dire delle cose che gli stavano a cuore e lo faceva giocando. Usava la tecnica giornalistica in modo molto creativo. E, secondo me, quegli articoli hanno una certa loro felicità narrativa.

Tanto per complicarti la vita, oltre a parlare di uno fra i più odiati giornalisti italiani, ti sei anche associato a Beppe Grillo che chiude il volume con una sua simpatica postfazione. Volevi proprio sfidare la sorte, dì la verità? Capisco Montanelli, ma tu e Grillo insieme siete certo una strana accoppiata. Pensavo, peraltro, che avessi diciamo una certa idiosincrasia nei confronti del fondatore dei Cinque Stelle. Mi sbaglio?

Assolutamente! Infatti, è molto spiazzante anche per me avere quella postfazione. Ti devo confessare, con onestà, che è stata un’idea della Rizzoli. Dopo avere ritrovato questo ritratto di Montanelli dedicato al Grillo ante politica, ci sembrava assurdo non inserirlo perché, pur essendo molto benevolo, toccava due o tre elementi quali il moralismo, il fatto di essere un outsider, un folletto, un grillo parlante, che lo identificano bene anche adesso che non è più solo un comico. Così è venuta fuori, chiacchierando all’interno della casa editrice, l’idea di aggiungere un commento dell’interessato. Non sono stato io però a gestire i contatti con lui, ma loro, e lui ha accettato. L’ho trovata una cosa generosa. So che alcuni detrattori hanno sostenuto che tutto in questo libro è sbagliato, dall’autore, al curatore, al postfatore. Può darsi. Io sento il Movimento 5 Stelle molto distante sia politicamente che civilmente, però da qui a sentirmi in imbarazzo per la postfazione di Grillo ce ne passa. D’altra parte, la storia d’Italia degli ultimi dieci anni è impossibile farla senza Grillo. Il signore che in qualche modo ha inventato in Italia la stand-up comedy ha cambiato il paesaggio politico italiano. In peggio? Temo di sì. Ma questo non toglie che sia un protagonista. E l’idea che uno dei personaggi ritratti da Montanelli esca dal testo e, con un guizzo di vitalità, dica la sua continuo a trovarla divertente. Capisco che possa far storcere il naso, ma mi pare un gesto situazionista, tanto quanto la vernice rosa sulla statua di Montanelli.

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