In un Paese culturalmente di nani è ovvio che si dimentichino i giganti. Il gigante, in questo caso, è Anthony Burgess (lo dice anche la Cassandra dei gonzi, Wikipedia: “è considerato uno dei più grandi autori inglesi del Novecento”), scrittore metamorfico, polimorfico, nato 100 anni, nel 1917, insieme alla Rivoluzione di febbraio, e oggi bestemmiato nell’oblio. La sua bibliografia sterminata – una trentina i romanzi – è ridotta in Italia pressoché ad Arancia meccanica, dimenticando altri libri, forse più belli, Il seme inquieto, Abba Abba, Un cadavere a Deptford e soprattutto Gli strumenti delle tenebre, un sontuoso capolavoro dell’eccesso narrativo. Burgess, in Italia, dove vanno di moda i romanzi-sottiletta, non va più di moda, basta guardare su un portale qualsiasi (ibs.it, ad esempio): libri disponibili, Arancia meccanica, la Trilogia malese (stampa Einaudi) e un saggio su Hemingway (minimum fax). Nuove pubblicazioni per il centenario, zero. Della vicenda ho scritto, con le pantofole del critico, un po’ di tempo fa su il Giornale ed è proprio il Giornale a recare, vivaddio, il dono bibliografico più inatteso per l’anniversario. Per la collana editoriale “Firme fuori dal coro”, il quotidiano milanese manda in edicola – allegato al giornale – A lettere maiuscole, che è una raccolta dei ‘pezzi’ più belli scritti da Burgess per il Giornale. Già. Burgess, che aveva un certo amore per il Belpaese – oltre ad aver impalmato la traduttrice italiana Liliana Macellari, ha collaborato con Franco Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth e ha vinto, nel 1983, la prima edizione del Premio Malaparte – fu arruolato quarant’anni fa da quella volpe di Montanelli. “Il risultato furono una serie di pezzi, scritti fra il 1978 e il 1981, per le pagine della gloriosa Terza del Giornale. Burgess, che era autore prolifico e ‘plurimologo’, firmò – tra tanti altri – articoli su Edgar Allan Poe, su Dumas, su Hemingway, Conrad, Rabelais, Beethoven, Shakespeare… La sua cultura era prodigiosa, la sua velocità di scrittura leggendaria. Burgess poteva scrivere ciò che voleva, e Montanelli gli pubblicava ogni cosa che gli mandava”, racconta Luigi Mascheroni in un intro piuttosto partecipe. Dove ci spiega, tra l’altro, perché il rapporto idilliaco tra il grande scrittore e il grande giornalista (caratteracci entrambi) si ruppe. Burgess andò a scrivere al Corriere della Sera. Pagavano meglio. E Montanelli non gliela mandò a dire. “Montanelli spiega che Burgess se n’è andato ‘perché il Corriere lo paga tre volte più di me: un milione ad articolo, mi dicono. Il Corriere può farlo, visto che ha alle spalle delle banche che gli hanno concesso crediti per tre-quattrocento miliardi. Io, per ottenerne uno di trenta-quaranta milioni, devo fare salti mortali’. E poi, la staffilata: ‘Aver perso lo scrittore Burgess mi dispiace molto, aver perso l’uomo Burgess non mi dispiace affatto. In una pattuglia come la nostra, per i mercenari non c’è posto’”. Mirabile. Il succo è un florilegio di articoli che stendono sul lettino anatomico di Burgess i grandi della letteratura, da Hemingway – ancora lui – a Edgar Allan Poe, da Joseph Conrad a Chesterton. Se volete altre ‘chicche’ per fare la festa a Burgess, dovete trasbordare oltremanica. Il Times Literary Supplement, ad esempio, pubblica un inedito ‘italiano’ di Burgess, il quale, poco prima di essere arruolato al Giornale, nel 1976, scrive all’editor della Faber, “non penso di averti mai detto che a mio avviso il Belli è il più grande poeta del XIX secolo”. Si riferisce a Giuseppe Gioacchino Belli, il grande poeta romanesco. Burgess si mette a tradurlo, va matto per lui – detto da un inglese che gorgheggia Keats e Shelley… Pubblicati nel 1977 in calce al romanzo Abba Abba (che ha per protagonisti Keats e Belli), i sonetti del Belli sono lo spunto per una riflessione, Belli into English, finora inedita. Incipit: “Belli è uno di quei poeti che ci fanno rivedere le nostre nozioni di grandezza in campo letterario. Troppo spesso si presume che l’importanza di un grande scrittore sia la sua universalità – cioè la capacità di parlare direttamente, senza note o senza glosse, alla maggior parte degli uomini. Insegnando letteratura occidentale in Malesia, a malesi, cinesi, indiani, mi sono accorto che Dante e Shakespeare erano molto meno universali di quanto supponessi. I miei studenti non capivano il cattolicesimo di Dante e avevano difficoltà a capire i costumi dell’Inghilterra di Shakespeare… Ora. La prospettiva di Belli è davvero stretta. Scrive di romani ai romani, in romanesco. Il suo pubblico è un pubblico da osteria. Gogol’ fu impressionato da lui, Sainte-Beauve scrisse di lui, ma egli non era destinato a superare le frontiere letterarie come Tolstoj o Dickens. Usava un linguaggio misero, inesportabile dalle strade romane… eppure, un certo numero di stranieri – americani, soprattutto – affermano increduli che Belli è uno dei più grandi poeti del XIX secolo; l’altro è John Keats, il quale, sepolto a Roma, è una sorta di romano onorario”. Bizzarro. L’ennesimo omaggio di Burgess all’Italia, lo dobbiamo leggere in Inghilterra. Ma le sorprese sono innumerevoli. Basta fare una gita nel sito della International Anthony Burgess Foundation (nel cui comitato d’onore figurano personaggi come Harold Bloom, William Boyd, A.S. Byatt, Martin Scorsese e Max Saunders) per entrare nel burgessiano mondo delle meraviglie. Esempio. Cosa pensava Burgess di 1984 di George Orwell? “Una delle rare visioni distopiche o cacotopiche che abbiano cambiato il nostro modo di pensare. Possiamo dire che il terribile futuro profetizzato da Orwell non è accaduto perché lo ha predetto lui”. E di Shakespere, cosa pensava Burgess di Shakespeare? “Posso presentarmi soltanto come un uomo che ha letto Shakespeare, che ha idolatrato Shakespeare, che ha tentato di essere influenzato da lui nell’arte della scrittura. Credo che lui sia ancora il migliore modello: l’uomo che ha saputo meglio di chiunque altro come gestire quella bestia intrattabile che è la lingua inglese”. Micidiale. Tra le tante belle cose, sono pubblici alcuni spartiti musicali costruiti da Burgess, instancabile compositore, tra l’altro. Ne segnaliamo due. Quello che mette in musica La terra desolata di Thomas S. Eliot e quello che fa suonare La pioggia nel pineto, la più nota tra le poesie di D’Annunzio. Composta nel 1988, è bello vedere il testo del Vate (“Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane…”), Molto moderato, chiosato dalle note di Burgess. Un dialogo tra giganti.
Per gentile concessione, pubblichiamo un brano tratto da “A lettere maiuscole” ed edito dal quotidiano il Giornale nella collana “Firme fuori dal coro”.
Il mondo di Hemingway tra vigore e dolore
Il giorno della morte di Hemingway ero in Russia. La Pravda pubblicò un titolo di testa, Smert Gemingvaya, mi sembra che fosse. Molti giovani russi con i quali mi trovavo a bere mi chiesero, come se io fossi in grado di saperlo meglio di loro, se si trattava di assassinio o suicidio. Le loro anime russe leggevano «in trasparenza» la dichiarazione, molto sensata, di Mary Hemingway che lo scrittore era morto pulendo uno dei suoi fucili. Una giovane, piangendo lacrime nel suo bicchiere di vodka, disse: «Yerniest Gemingway, lo amavamo tutti quanti». Era un ottimo elogio funebre. «Assomigliava molto a Jack London» proseguì. Verissimo. Aveva la barca, era un buon marinaio, andava a caccia di bestie feroci, prendeva pesci enormi, combatteva per le cause giuste, faceva della composizione letteraria un aspetto della vita fisica. Ma la morte di Jack London a 40 anni era stata prematura; il suicidio di Hemingway a 62 si compiva quando il suo cervello era in sfacelo, quando il piacere fisico che comprendeva anche lo scrivere, si era esaurito. Lo scrittore di un tempo, chiuso nella custodia senile di un corpo venerato come un E.M. Forster per intendersi, andrà bene per l’Europa: l’America lo ricusa, Hemingway era americano al cento per cento. Ho ripensato ai suoi ultimi anni quando, l’autunno scorso, camminavo lentamente sull’erba impietrita dal gelo e mi accostava alle macchine da presa che erano state piazzate nel cimitero di Ketchum, vicino alla sua tomba. Giravamo un filmato televisivo su Hemingway, e non tanto per onorare i suoi successi letterari. Non propriamente. Era anche per solleticare il palato del pubblico televisivo presentando l’immagine di un uomo riuscito come scrittore (cioè aveva fatto molti soldi) ma in ultima analisi un essere umano mancato. Il vasto pubblico che non è ricco, non ha talento né gloria, ama sempre sentirsi raccontare le storie del fallimento dei grandi. Così giustifica in un certo modo la nullità della propria esistenza seguendo in televisione lo sfacelo e la caduta di grandi uomini e donne. Hemingway era stato un uomo grande e stupendo, alto, vigoroso, robusto, un bel fisico di atleta, un buon boxeur, bevitore «solenne», aficionado della plaza de toros, scrittore di genio. Improvvisamente, nell’età di mezzo, divenne difficile e scontento, uno che si arrovellava sui soldi e sul peso eccessivo dei bagagli nelle sale d’imbarco degli aeroporti. Gli venne la mania di persecuzione: quei due laggiù in fondo al bar erano dell’Fbi, lo spiavano; non far guidare la macchina a Bill, vuole farmi ammazzare; quest’anno non ho guadagnato abbastanza, siamo a corto di quattrini (nonostante le centinaia di migliaia di dollari annui di diritti d’autore, gli investimenti immobiliari, i titoli). Ma anche nel decennio che precedette il suo suicidio, mentre nuotava, andava a pesca d’altura e a caccia grossa, seguiva le corride da un capo all’altro della Spagna, già si manifestava un vago sentore del sopraggiungere della nemesi.
Anthony Burgess