“Ricordo il giorno in cui sono nato” sentenziava Ray Bradbury. Ray Douglas Bradbury è arrivato nel mondo, a Waukegan, Illinois, alle 16:50, del 22 agosto 1920, con il dottor Charles Pierce, al Maternity Hospital, a pochi isolati a ovest della piccola casa della famiglia Bradbury. Ray Bradbury era rimasto, fuori tempo massimo, nel grembo della madre. Un mese di più dei nove naturali: è sua la teoria secondo cui il tempo di incubazione aggiuntivo possa avere acuito i suoi sensi. “Quando rimani nel grembo materno per dieci mesi, sviluppi la tua vista e il tuo udito. Così quando sono nato, me lo ricordo”.
Attingo queste interessantissime informazioni da un vecchio articolo (24 luglio 2005) del New York Times, firma Sam Weller. Così, considerando la sua produzione, suona strano che un tipo come lui (che è stato cullato a lungo dalle onde del liquido amniotico) non riuscisse a leggere Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville. Chiamato a realizzare la sceneggiatura, per il film del 1956 Moby Dick la balena bianca, dal regista John Huston, pare che abbia detto di non riuscire a leggere quella “dannata cosa”. Gli attriti tra i due passano alla storia. Il film del ’56 – con un monumentale Gregory Peck nel ruolo del capitano Achab (il regista avrebbe scelto suo padre Walter per il ruolo ma la morte era arrivata poco prima) –, nonostante gli anni (all’epoca riscosse un grande successo di pubblico), è degna trasposizione cinematografica del romanzo di Melville. Dove più che nascere, si muore.
Moby Dick, la balena, è l’incarnazione del male e dell’ossessione umana di vendicarsi. Una sorta di biblico, accecante, cupio dissolvi. “C’era dunque ben poco da dubitare che dopo quello scontro quasi mortale Achab avesse nutrito un continuo desiderio selvaggio di vendicarsi della balena. Un desiderio tanto più accanito perché nella sua smania morbosa egli era arrivato al punto da identificare con la bestia non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La balena bianca gli nuotava davanti agli occhi come l’incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono azzannare nel proprio intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone”. Il male resta più interessante del bene, così come i tormenti custodiscono in sé un fascino misterioso che le nostre gioie, noiosamente, non possono vantare. Il dolore torreggia, si erge maestoso e divino, sulla felicità. “Difatti, pensava Achab, anche le più sublimi felicità terrene portano in sé una certa meschinità insignificante, mentre in fondo tutti i dolori veri hanno un significato misterioso, e in alcuni uomini una grandezza da arcangeli: e quindi studiarne con cura le origini non può smentire la nostra ovvia deduzione”.
Moby Dick lascia contemplare, per tutte le sue pagine, il significato contraddittorio dell’esistenza umana sia individuale che collettiva: un prodigio straordinario e una sciagura. Ecco cosa è l’uomo. “Siedi come un sultano fra le lune di Saturno, e prendi l’uomo da solo, con molta attenzione: ti sembrerà un prodigio, una magnificenza, una sciagura. Ma sempre da lassù, prendi l’umanità in massa, e ti sembrerà per lo più una marmaglia di duplicati superflui, sia contemporanei che ereditari”. Un uomo solo è sopravvissuto, l’eletto o il dannato (per dirla con Guido Morselli). Dalla morte, ci si salva con la morte stessa. E con la sua metafora, una cassa da morto. Sostenuto da una “cassa da morto – salvagente” un uomo solo si salva, galleggiando, “su un mare morbido e funereo”. Un’altra evocazione della morte. In cui siamo immersi, da cui siamo circondati. “Senza toccarmi, i pescecani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano”. A caccia di figli perduti, nel mare oscuro della vita, si trovano soltanto orfani.
Linda Terziroli
*In copertina: Gregory Peck è il capitano Achab nel “Moby Dick” di John Huston, 1956, adattato da Ray Bradbury