09 Giugno 2020

“Meravigliosamente”. Ingresso a capofitto nella mistica cristiana

Svelare un segreto non lo annulla – infuoca il fraintendimento. Quando Elémire Zolla, nel 1963, per Garzanti, pubblicò I mistici – poi, per Rizzoli, diventati I mistici dell’Occidente e in questa forma trapassati in Adelphi – sapeva di compiere un’impresa necessaria. E sacrilega. Specie di psicopompo libresco, di indiavolato divulgatore, esperto in bibliomantica, rese la mistica un fatto culturale, perfino pop. Si vagava, per gioco, liberandosi dal giogo della consuetudine, tra i palazzi romani citando Robert Fludd e John Donne, Pitagora e Zosimo. La ‘mistica’, in fondo, diventò moda (e non cibo), sortilegio intellettuale (e non pura obbedienza), nobiltà del pensare (e non trogolo del dio). Sia lode a Zolla, sia chiaro: l’ambivalenza è appropriata al fatto. Denudare il dio significa esserne inceneriti – o scambiarlo per altro. Complice di Zolla, come si sa, fu Cristina Campo – I mistici dell’Occidente, per dire della vertigine pop, sono diventati un disco, di qualche successo, dieci anni fa, firmato Baustelle. Zolla, piuttosto, funge da “re da burla”, da buffone, cioè – parole sue – da “mediatore fra vecchio e nuovo”, dacché “soltanto la pazzia pagliaccesca consente di passare attraverso l’orrore e il desiderio del nuovo”. Inaugurò il nuovo, Zolla – ma la mistica non è affatto cultura, anzi, semmai, è anti.

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Per mistica s’intende ciò che afferisce ai misteri, in particolare, in area cristiana, ai “misteri di Dio” (Paolo, 1 Cor 4, 1), al “mistero di Cristo” (Ef 3, 4). Compito del cristiano, perciò, è “annunciare il mistero di Cristo”, ragione per cui Paolo è “in prigione, affinché possa farlo conoscere” (Col 4, 3-4). C’è come una sintonia tra clausura e mistero, una prigionia che riguarda la bocca, la carcerazione delle labbra: “Il termine mystêrion… si riferisce in senso lato a tutto ciò che è o deve rimanere segreto o nascosto, che deve essere taciuto” (Francesco Zambon). Che paradosso: come annunciare l’incomprensibile? Il cristianesimo nasce dalla perplessità, dal dubbio, dall’incomprensione, ha per stigma l’ignoranza: “Non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo” (Lc 9, 45). In effetti: non occorre “cogliere il senso”, ma precipitare, intimoriti, nell’interrogativo.

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La mistica non ha a che fare con lo studio dei testi di mistica – i quali, in effetti, agli occhi dello studioso, si ripiegano in sabbia, dicono senza dire, suggeriscono a pugni chiusi, occorre transitare nell’al di là del linguaggio, nel lato ambivalente dell’ombra, dove la pietra è acqua. “Il necessario, divenuto improbabile, è di fatto l’impossibile”; “Il fondamentale è indissociabile dall’insignificante”: dentro questa gimkana verbale – questo è Michel de Certeau, Fabula mistica – forse si approssima un’idea di mistica – ma non il tatto, il gusto.

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Il rischio del primo volume – di tre previsti – dedicato a La mistica cristiana (nei ‘Meridiani’ Mondadori), a cura di Francesco Zambon – ma l’idea “è nata per decisivo impulso di Pietro Citati, che ha anche collaborato direttamente con me alla stesura del piano generale dell’opera” – è, appunto, fare della mistica accademia, incorporando testi d’istinto diverso, contraddittorio (ci sono sermoni, regole, brandelli di teologia, visioni, racconti di visioni). D’altronde, è norma, dal groviglio non si esce, la mistica è un’esperienza; scriverne è interpretarla, tra Dio e Accademia lo scisma è inevitabile. Ancora di più, mistica dovrebbe essere l’esperienza – nei meandri del mistero di Cristo – di ogni cristiano. Studiamo ciò che non siamo più in grado di rincorrere.

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Il libro, sia chiaro, arroccati sull’Athos del divano di casa – cioè, impediti all’autentico – è meraviglioso. Dei ‘mistici’ – cioè, di questa flotta di uomini autentici – imparo la vaga rettitudine, l’obbedienza nell’eccesso, l’eccezionalità, il rigore che valica il crudele. Uomini che hanno sconfitto il proprio nome, hanno sconfinato, privi di biografia e di clan, si sono gettati in luoghi remoti, come Giovanni di Dalyata, nato in Iraq: “Chi potrà darmi una gioia grande come questa: che falsi testimoni mi dichiarino al mondo impuro e spregevole?”. E Giovanni Cassiano, viaggiatore instancabile, fondatore di monasteri, nato non si sa dove, che impara l’ascesi in Egitto e in Palestina, poi si trasferisce a Marsiglia, dissoda incolto e incauto in favore di Cristo, insegna la “preghiera incessante… che non è distratta neppure dal succedersi di qualche voce e d’alcuna parola… si eleva fino a Dio con gemiti e sospiri inesprimibili”. Che privilegio entrare dentro l’opera di Giovanni Scoto, scalfita d’eresia (“Infine tutta la creazione sarà riunita al Creatore e sarà una sola cosa in Lui e con Lui”), in quella di Ubertino da Casale, che specula sul “silenzio di Gesù”, nella vita di Aelredo di Rievaulx, paggio alla corte di re Davide I di Scozia, che, in Francia, deliziato dalla vita di alcuni cistercensi, capì tutto e mollò le aule del palazzo regale per la cella; nel parapendio mentale di Gregorio Palamas, esteta dell’Athos (“Dio, inoltre, concesse soltanto agli uomini… l’opportunità di rendere l’invisibile parola dell’intelletto percepibile a livello uditivo, una volta unita all’aria, facendo anche in modo che fosse consegnata alla scrittura e che fosse vista con e attraverso il corpo”). Nella mistica il corpo non è né esule né estasiato: è tramite, tratto, cetra.

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Certo, il ‘Meridiano’ costa troppo, è troppo importante. Bisognerebbe estrapolare una antologia, con virtù economica: i mistici confortano le nostre contraddizioni, esplicitano la rottura, non inteneriscono la tenebra, ci gettano tra le sue fauci. Fanno paura, forse. I mistici, in effetti, mostrano che tutto, nella sua nudità, è noto e inaccettabile. Il potere terreno è troppo poco, la fama è una sciocchezza, i posteri sono polvere. Non c’è altra vita che darsi interamente a Dio, alla giungla dei suoi morsi. Non è neanche questione di fede – ciò implicherebbe l’incidente di un ‘ragionamento’. Bisogna darsi Dio, impuniti, mitragliati in Lui, perché il resto è insapore, una gloria sciupata.

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Doucelina di Digne, nata da ricchi mercanti nel 1214, fu beghina, corrosa dalle estasi. Durante i rapimenti, non parlava: dava in gesti ingestibili. “Tutti compresero che durante quel rapimento le venivano rivelate e mostrate grandi cose, riguardanti la sublimità e la maestà divina. Ne dava infatti segni evidenti, mostrando con il braccio destro, in modo mirabile, la immensa potenza che vedeva in Dio. Perché quando si fermava, alzava le braccia quanto più poteva e tracciava un cerchio sopra la sua testa, con grande solennità, meravigliosamente, intendendo raffigurare il diadema della sublime magnificenza di Dio: per farlo usava tutta la lunghezza delle sue braccia”. Doucelina, presa da Dio, danzava: dava bocca alle braccia, fino a deformarle. La parola è – letteralmente – insignificante; la si spezza nel gesto, nel falò dell’atto. Se la lingua è mutilata, le mani sono ali e lupi, nella sparizione della danza. (d.b.)

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