“Scrivo solo per la mia anima”. Sulla nuova traduzione del “Dottor Živago”
Politica culturale
Quando pubblica il suo primo romanzo – I superflui (Rizzoli, 1949) – Dante Arfelli ha ventotto anni e le spalle da nuotatore adriatico. Tira a campare, a Cesenatico, districandosi fra tre mestieri – l’insegnamento precario, la collaborazione con i giornali, la scrittura. Insignito, da insigne sconosciuto, del premio Venezia – antesignano del Campiello –, con l’assegno intascato provvede a rimodernarsi il guardaroba. Ventimila lire di abiti, trentamila di paletot, camicie, pullover. Corredo arbasiniano, degno d’un incipiente debutto nel tumulto dei bureaux d’esprit dell’epoca. Da cui, invece, manterrà sempre una siderale distanza.
Il suo luogo d’elezione è la provincia, «dove la città e la letteratura sono un mondo lontano, un mito forse per chi non è uscito dalle sue strade; io ormai conosco questo mito. […] Se non fosse un vizio o una malattia, smetterei anche di scrivere. Si starebbe così bene a fare altre cose. Chi ci inchioda al tavolino?», così, in una lettera all’amico Mario Picchi, nel 1951 – anno di uscita del suo secondo libro, La quinta generazione (entrambi i romanzi, recuperati da Ernesto Valerio, sono ripubblicati da readerforblind).
Scrive per sé, Dante Arfelli, il suo pubblico non esiste. La narrativa del tempo segue la scia di uno stereotipato neorealismo, lui dà alle stampe un testo lacerato da turbe esistenzialiste. Gli danno del Moravia, ma scrive come Camus. Contro i temi ideologicamente trionfalistici del dopoguerra o il bieco cronachismo, nei suoi scritti, l’uomo volutamente ignora di dover ricostruire tutto partendo dalla propria coscienza. È puro antistoricismo. La nemesi dello scrittore “di Stato”.
Il suo pubblico dimora all’estero, ma lui ne è del tutto ignaro. Incensato dalla critica francese, negli Stati Uniti, pubblicato da Scribner – editore di Hemingway – The unwanted (I superflui) vende un milione di copie, è un insperato caso letterario. In Italia, appena centomila. Sullo sfondo, si intravede già l’oblio.
Trascorrono settant’anni e sul proscenio letterario nostrano si staglia un altro marcantonio dalle spalle larghe e il pedigree romagnolo. Marco Missiroli. Li confezionano così, a quelle latitudini.
Ha appena dato alle stampe il suo nuovo romanzo, Avere tutto, per casa Einaudi. E se esistesse un premio per il miglior scrittore di Stato lo vincerebbe a mani basse. Lo aspergeranno con la prossima bottiglia di Strega? Probabile. E poi un film o una serie tv. Protocollo da Miss Italia.
Perché Missiroli, al contrario di Arfelli, un pubblico ce l’ha eccome. E ne ha preso le misure, sa come gratificarlo. La sua scrittura è bespoke, i suoi romanzi sono prodotti tailor made, rigidamente cuciti addosso al lettore – sventurate virtù dell’editor! I temi decisivi, i soggetti vitali, reali, il lieto fine e il riscatto sociale. Un certo feticismo per la verità. Che in qualche modo è sempre di cattivo gusto. Plebea. E il popolo, critico e giudice – censura non ufficiale dello scrittore –, mente collettiva che si tramuta in coscienza propria. Infine, in romanzo da vetrina, intrattenimento da parrucchiere. L’autore si fa manicure della novella all’italiana.
Un ultimo tratto di strada percorso da padre e figlio, abbigliati come cowboy della riviera romagnola – che fa tanto wannabe Cormac McCarthy; Milano e Rimini – immancabile cliché dell’autore; il provinciale trapiantato in città che resta intimamente un déraciné – gli “spatriati” sembrano riscuotere un certo successo; i luoghi d’infanzia familiari – il posto delle fragole sostituito da una cassetta di pesche cardinale; e poi la ludopatia del protagonista e la sua palingenesi morale, raccontata con seccante bonomia; la tenerezza del disfacimento dell’anziano genitore – così a stroncarlo si fa peccato; e il sesso, sempre chiericale, con rari sprazzi di difettosa tensione erotica – «La scopo forte, le stringo il collo. – Ehi, – mi dice quando abbiamo finito. – Devo tornare a casa».
Due romanzi “generazionali” accomunati dal medesimo percorso, invertito – il provinciale verso la città di Arfelli, il trapiantato che fa ritorno in provincia di Missiroli –, due approcci alla scrittura di suprema differenza. Scrive coi guanti, Marco Missiroli, disseziona le emozioni, si fa anatomopatologo dei sentimenti. Sutura ferite e non lascia cicatrici. E non sanguina mai. Più che letteratura, è un’operazione di chirurgia letteraria.
Crudo e aspro come una radice di provincia, Dante Arfelli fa dell’esistenza un’attesa – è la notte di una prostituta, un ventre rigonfio, un salone privo di orologi. La scrittura de I superflui è scandita dal ticchettio dell’atemporalità, moto ondoso e indistinto senza passato né futuro. L’unico momento disancorato dal presente, l’imprevisto della paternità. In Avere tutto, ogni istante è invece minuziosamente cadenzato, ciascun salto temporale è modulato con misurata precisione. Il lettore non corre rischi; Missiroli è Arianna, all’ingresso del labirinto lo equipaggia di mitologico filo. Non può smarrirsi. Con Arfelli, invece, si sanguina, la sua lucidità è un nido di rovi. Fra le libertà professate – di parola, religione, bisogno –, anche la libertà di paura, che è come un azzardo.
E in quell’azzardo si cela invece il moralismo sempre in agguato fra le pagine di Missiroli. La vita come una partita a carte, un tavolo verde, la febbre del gioco. L’autore che si fa metteur en scene di un’anabasi dovuta, trita pagina di letteratura stagliata all’altezza delle masse, scritta secondo il metro della ragione sociale. Quindi, la paura della patologia, l’atteggiamento persecutorio nei confronti del “vizio”. Il vizio come paura. Qualcosa di marcio, da abolire.
«Perché mai il gioco dovrebbe essere qualcosa di peggio di qualsiasi altro modo di guadagnare del denaro, per esempio del commercio? È vero che c’è soltanto uno su cento che vince, ma che me ne importava?».
Se Dostoevskij si fosse lasciato intimorire dal vizio, Il giocatore sarebbe rimasto confinato nel sottosuolo.
E poi il “foglio fresco” e la scrittura “da spezzare, perché così si rigenera” – si esprime in tal modo, Missiroli, in un breve video del suo editore, con un linguaggio da tecnocrate della narrativa. Da personal trainer per smidollati da scuole di scrittura.
«Devi scrivere tre o quattro ore al giorno, possibilmente la mattina, perché il pomeriggio vai in scia di quello che hai fatto la mattina e non devi fare niente, tranne quello che è fisico oppure ti piace fare. Così risolvi per il giorno dopo».
Risolvere. La scrittura quindi come qualcosa da solvere, compressa da sciogliere in bocca, una al giorno prima dei pasti. Dosaggio corretto per intraprendere il mestiere di scrivere.
«Cerco solo di poter dire proprio la mia parola e di trovare una mia soluzione, una mia visione e basta. Ora solo capisco come sia facile scrivere anche trenta romanzi, se si vuole accontentare il pubblico, e come lo scrittore si trovi al punto di prima. No, queste mezze cose no. […] Quando hai l’ispirazione devi seguirla, finché non ne puoi più, finché non cadi esausto ai suoi piedi. Così è stato per I superflui, li ho scritti in dieci giorni, d’estate, non riuscivo nemmeno a dormire».
Così Dante Arfelli – che mestierante non era, abituato a scrivere ovunque, a non avere uno studio tutto suo – prima dell’oblio, di quel che l’amico Berto avrebbe chiamato “male oscuro”. La fragilità psicologica, le crisi depressive, nevrosi, psicosi, fobie, ombre e voci. Cadde, in un’oscurità forse già vaticinata dalla sua stessa scrittura. Incompreso dalla civiltà letteraria dell’epoca, scelse il confino, l’isolamento fisico e mentale, una sorta di autopunizione. Si amputò la penna, non scrisse più.
Le ultime parole, un tempo moltitudine di farfalle, si fanno corvi, si fanno nervi. «I nervi, i nervi, i nervi» ripete ossessivo, nelle note scritte su foglietti sparsi, fittissimi (pubblicati nel 1993 in Ahimè povero me), durante il suo “ultimo approdo” – come Odisseo nella terra del loto. Itaca romagnola, la casa di riposo in cui vive gli ultimi anni a Marina di Ravenna. Qui, le ore, come nei suoi romanzi, trascorrono indistinte. A scandire il tempo, solo la giornata del barbiere. In esilio anche da sé, a chi gli chiedeva perché non uscisse mai, se non per i pasti, rispondeva placido: «Sto lavorando a un nuovo romanzo…».
Ovviamente Arfelli di libri non ne scriverà più e abdicherà alla vita nel 1995, eternando la sua esistenza nei soli due romanzi pubblicati, oltre a qualche racconto sparso.
E mentre il mondo letterario – premi compresi – continua a compiere il suo moto di rotazione, vien da chiedersi se proprio Arfelli – che grazie all’amicizia con Maria Bellonci figurò da diciottesimo nella lista degli “amici della domenica” – voterebbe, per il prossimo Strega, a favore del conterraneo Missiroli. O bollerebbe Avere tutto come l’ennesimo romanzo inutile, superfluo.
*In copertina: Marco Missiroli, photo Mattia Zoppellaro