16 Ottobre 2023

“Non posso vivere in luoghi di storie sacre profanate”. Il romanzo impossibile di Milan Nàpravník

La più grande ambizione di uno scrittore è forse quella di testimoniare il suo tempo. Che si tratti di raccontarlo o saccheggiarlo, lodarlo o demolirlo, ha poca importanza. Riuscire a racchiudere il proprio secolo nell’intera opera è già un traguardo altissimo. Figuriamoci metterlo tutto in un libro solo. Un capriccio divino. E questa ambizione è più viva nel Novecento che in qualsiasi altro tempo: saranno gli eventi straordinari, sarà la sofferenza di cui gli scrittori si fanno inevitabilmente portavoce, sarà che la realtà si frantuma in milioni di pezzi, ma nel Novecento è un fiorire di libri-mostro che tentano di racchiudere dentro di sé il mondo intero. Anzi, tentano di racchiudere uno dei tanti mondi possibili.

In quest’ottica, ancora poco conosciuto è Milan Nápravník (1931-2017): autore cecoslovacco che è stato poeta, prosatore, saggista, fotografo, pittore e scultore, incarnando quella rara figura dell’artista totale. In Italia possiamo leggere ancora poco di suo, ma qualche anno fa è arrivato Deserte visioni (Vocifuoriscena, 2021), un tomo-testamento descritto come un romanzo a-narrativo, che cerca di testimoniare la devastazione della civiltà occidentale ripercorrendo la vita del protagonista attraverso ricordi, nostalgie, incontri, pensieri, desideri.

Deserte visioni è un testo difficile, poco leggibile direbbero alcuni, sperimentale. Seguiamo il protagonista, forse lo scrittore stesso, nella sua impossibilità di continuare a vivere in un mondo collassato, dove non esistono più legami, dove gli affetti sono solo ricordi sbiaditi, dove lo stesso “agire” è terribilmente aleatorio. A tratti si presenta come un flusso di coscienza, poi da squarci onirici si piomba nel fango metropolitano, nello squallore desolato della contemporaneità; e poi i ricordi e la nostalgia che si fondono col presente, salti temporali e spaziali surreali, momenti puramente saggistici, ragionamenti, teorie, riflessioni, ecc… insomma, un magma si parole e carta, che si potrebbe leggere a caso, saltando da un paragrafo all’altro; e non è soltanto una pura impressione.

Lo stesso Nápravník confessava al suo traduttore Antonio Parente la natura casuale dell’ordine dei paragrafi; non come una sperimentazione o un gioco, ma come ricerca filosofica:

«La logica causale della letteratura tradizionale crea, infatti, una falsa idea della significatività della vita e dei suoi processi; per secoli, i romanzi e in generale le opere narrative hanno poi a loro volta influenzato, nella civiltà europea, la vita reale delle persone, i loro pensieri e le loro convinzioni, il loro sforzo, per lo più ignorato, di conformare i comportamenti alla logica causale, secondo lo schema dei personaggi delle storie inventate dai romanzieri».

Allora dovremmo seguire il consiglio dell’autore e saltare qua e là lungo questo testo indescrivibile, un testo “umano”, nel senso che dell’uomo rispecchia la complessità e il mistero.

Di seguito, quattro piccoli brani. (Valerio Ragazzini)

«Non gli resta che andar via, poiché non può più vivere in luoghi che hanno perso la capacità di accogliere miracoli, in luoghi di storie sacre del passato ormai profanate. Non sa dove andare. Probabilmente da qualche parte dove non c’è nulla di cui l’avidità possa profittare. Da qualche parte, dove oltre le rocche brulle e gli arbusti aridi, oltre la siccità e al silenzio, al caldo e al freddo non c’è e non cresce nient’altro che il muschio rozzo, il cui raccolto non conviene nemmeno al profumiere più scaltro. È evidente la necessità di allontanarsi da se stessi costantemente e, giorno dopo giorno, dirigersi verso luoghi desolati e sconosciuti, dove, in nessuna circostanza, è possibile costruire vasti, resistenti e praticabili percorsi di monotona avidità».

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«Lo scheletro del platano sulla piazzetta si è impietrito. Il labirinto di cortili e sottopassi, che non è possibile attraversare due volte senza ritrovarsi sempre in un luogo diverso, si estende fino all’orizzonte ambrato, adagiato come una lama nella ragade dell’oscurità. Non ci sono ore capaci di aggirare le soglie. Non ci sono coltelli di tempo capaci di tagliare la vita a fette di attività più o meno utili. Non è tempo di trasformazioni, è tempo di silenzi».

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«Ancora una volta si ritrova sul fondo di una torre circolare, sulle cui pareti si dipana verso l’alto la spirale di una stretta scalinata di pietra senza parapetto. In alto, alla fine di questa cappa, la luce agognata. Se la vuole raggiungere – e quale vedente non aspirerebbe alla luce se fosse costretto a vivere al buio – non gli resta che salire la pericolosa scalinata. Purtroppo soffre di vertigini. Perciò, la fronte schiacciata contro il muro, avanza un gradino dopo l’altro. La scalinata, tuttavia, diventa a mano a mano sempre più angusta, fino a che sul gradino entra soltanto la punta della scarpa. Infine, dopo pochi altri scalini, si perde nella parete. Non può più nemmeno pensare di continuare, ma è anche troppo tardi per discendere. Non può girarsi, non può camminare a ritroso, lo spaventevole orrore delle vertigini gli caccia le dita nel muro e contemporaneamente lo sballotta per trascinarlo nel baratro, che per un istante gli sembra una liberazione. È alla fine. Certo, può rimanere lì ancora un po’. Se i crampi alle gambe glielo permettono, può rimanere lì col volto contro la muratura umida e maleodorante di muffa, con le ginocchia piegate e le gocciole di sudore sulla fronte gelida, ma un tale modo di vivere è peggio che vergognoso, pur non durando a lungo. Potrebbe, però, anche arrendersi e far ritorno volontariamente nel vuoto sottostante. Precipitare per l’eternità e sfracellarsi sul pavimento pietroso della torre senza fondo. Solo questa, però, solo questa è la sua libertà di scelta. Eppure, ha anche una terza possibilità, alla quale non osa pensare per timore che possa rivelarsi irraggiungibile: la possibilità di risvegliarsi dal brutto sogno. Ha la possibilità di aprire gli occhi, di guardare con sollievo la strada rumorosa piena di pedoni, automobili e tanfi. Ha l’opportunità di gettare lo sguardo sul litorale, di seguire il volo di un agile gabbiano, di schioccare le dita, di ridere dal profondo del cuore e di abbordare per scherzo una donna dai capelli corvini, la quale a suo tempo qui gli chiese se avesse da accendere. Riesce a immaginare di avere ancora troppo da vivere».

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«Quando comparirà il poeta capace di superare col suo testo la magnificenza della struttura della selce scistosa? Il poeta la cui chimica concettuale sia esposta a una tale pressione e a un tale calore da scrivere parole di agata piene di profumi stupefacente sopraffatte dalla vegetazione dei sogni di tormalina? Apparta ogni speranza, le sue e le vostre. Un poeta di tale ingegno non comparirà mai. Una breve risata. Come potrebbe?! Glielo impedisce il suo perfido conscio, il dono maledetto dell’impellente struttura dell’esistente, di cui non riuscirà a sbarazzarsi prima di disfarsi della sua libidinosa e ossessionata capacità di astrazione, senza la quale, però, nessuna scrittura sarebbe possibile. È una salamandra che divora se stessa. Scrolla la rugiada dalla fragola selvatica e ondeggia la lingua con turbato desiderio. La sua irresolutezza equipara la preveggenza, i suoi tentativi replicano l’infiltrazione».

Gruppo MAGOG