“La vita non è altro che nebbia”. Unamuno, hidalgo dello smarrimento
Libri
Silvano Calzini
In Italia, Florence Noiville – francese, classe 1961 – è nota per i romanzi. L’ultimo, La cleptomane, è stato tradotto da Garzanti quest’anno. Studiosa dell’opera di Isaac B. Singer, a cui ha dedicato una biografia di successo – edita da Stock nel 2004, subito tradotta da Longanesi – e un “Cahier de l’Herne” (2012), ha appena pubblicato un libro biografico su Milan Kundera, il più elusivo degli scrittori contemporanei. Il libro, Milan Kundera. «Écrire, quelle drôle d’idée!», è stampato da Gallimard, qui ne traduciamo le prime pagine.
Naturalmente, l’editore enfatizza il tutto – “Mai opera ha detto così tanto su un autore” –, giocando sul paradosso: l’assoluto distacco di Kundera. Il libro, in effetti, è un tentativo di vincere la reticenza di uno degli scrittori più noti del pianeta, recluso, prima, in un maniaco pudore, poi nel male immedicabile, ora nel niente. “Spesso mi dico che sono stata fortunata a conoscere il Milan non più giovane. Nell’ultimo terzo della sua vita. Aveva già fatto voto di silenzio mediatico”, ha detto la Noiville. “Al culmine della maturità e della libertà, Kundera ha preso ad assomigliare sempre più al vecchio di La vita è altrove. Quel vecchio scienziato che osserva in silenzio i giovani ‘chiassosi’”.
Il desiderio di Kundera – arretrare nell’oblio – è diventato destino, vita orbata.
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Per far credere ai posteri che non abbiamo vissuto
“È sorprendente che la prospettiva di avere un biografo non abbia costretto alcuni a rinunciare alla vita”, scherzava Emil Cioran. La celebra boutade del sommo nichilista rumeno è stata quasi smentita da un altro scrittore dell’Europa centrale, Milan Kundera. Poiché anche lui detesta tutto ciò che comincia con bio – biografo, biografia –, l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere si è sforzato di non avere un’esistenza visibile. Per una ragione semplice. “Nell’istante in cui Kafka attira maggiore attenzione di Joseph K., si annuncia il processo della morte postuma di Kafka”, ha profetizzato in L’arte del romanzo.
Nell’epoca della comunicazione trionfante, del rapido consumo di cultura, questa frase assume tutto il suo significato. Nella mia vita da critico letterario continuo a incontrare “lettori”, giornalisti, a volte anche studiosi che desiderano per lo più farsi una rapida idea di un nuovo autore. Ovviamente, più la vita privata di questo autore è intricata, spigolosa, enigmatica, più sarà considerato “interessante”. Tali “lettori” leggeranno un ritratto dell’autore su una rivista, una recensione piena di lusinghe, qualche citazione, qua e là, certi, così, di aver capito “di cosa si tratta”. Non c’è bisogno di leggere altro – quanto ai libri, pazienza. Questo è ciò che Kundera ha inteso per “processo di una morte annunciata”.
In Cecoslovacchia è esistito un tempo in cui la scrittura letteraria era preziosa, tanto più preziosa perché vietata, passata al vaglio della censura. Era il tempo dei samizdat, questi oggetti del desiderio che si passavano di nascosto, tra coltri di cappotti. Ecco perché Kundera ha continuato a martellare incessantemente quel semplice messaggio: Dimenticatemi. Aprite i miei libri.
Nella storia della letteratura, questa posizione non è unica. Molti scrittori hanno cercato di sparire dietro la propria opera. “È lei che conta, non l’uomo che l’ha scritta”, tuonava il premio Nobel per la letteratura Isaac B. Singer, di origine polacca, che poi chiosava, scherzando: “Quando hai fame, conta soltanto il pane, della vita del fornaio non ti importa nulla”.
Milan Kundera è andato oltre. Dalla metà degli anni Ottanta ha cercato di annientarsi. Nessun discorso, nessuna intervista. Nessuna traccia pubblica della sua “vita reale”. Il tritatutto funziona bene a casa Kundera. Nulla, dopo Milan, deve restare tranne i suoi libri. Il resto – manoscritti incompiuti, lettere private, corrispondenza varia, diari, fotografie – viene sistematicamente distrutto. Dobbiamo “far credere ai posteri che non abbiamo vissuto”. Così ha scritto Flaubert. È ciò che pensa Kundera.
“Vedi, da lì a lì… c’è ancora uno scaffale, ciò che è rimasto… pronto per essere sbriciolato”, mi ha detto Vera, un giorno, la moglie di Kundera. Una pioggia di coriandoli per celebrare l’insignificanza dell’essere. La sua leggerezza?
Non è del tutto vero. Se si guarda da vicino, quell’esistenza, reale, non è del tutto perduta. La troviamo incorporata, trasformata, impastata nella trama dei romanzi. Lì è la sua verità. Per Kundera, la sola vita che preme sul peso della vita è quella “riflessa” nell’opera:
“Secondo una celebre metafora, il romanziere demolisce la casa della sua vita per costruire, con gli stessi mattoni, un’altra casa: quella del suo romanzo. Da ciò consegue che i biografi disfano ciò che il romanziere ha costruito, ricostruiscono ciò che egli ha disfatto. Il loro lavoro, puramente negativo dal punto di vista dell’arte, non può illuminare né il valore né il senso di un romanzo”.
Ecco il grande malinteso – il primo di una lunga serie – intorno a Milan Kundera. Tendiamo a credere che egli si ostini a separare la vita dall’opera. Ci pare artificiale, a volte artificioso. Perfino sospetto. Vuole dissimulare qualcosa? Quante volte mi ha detto: “È tutto nei miei libri”. Non è una formula. La sua vita si è infusa e confusa nelle sue pagine. Tutto quello che bisogna fare è aggirarsi dentro quell’“altra casa” per ritrovarla. Per trovare lui, o i frammenti del suo io, sparsi negli eroi che gli somigliano. Egli è in ogni stanza. Come tutti i bravi muratori, prepara i mattoni. Quelli che provengono dalla sua casa e quelli che vengono da altrove. È questo edificio a ispirare.
Non è illecito riconoscere le circostanze della sua vita – per come la conosciamo – tradotte nel lavoro letterario. Vedere come Kundera abbia riutilizzato i mattoni originali. Se li ha ricomposti, come li ha cementati tra loro. Studiare la calce che ha usato per “tenere tutto insieme”, mirabilmente.
Sotto i coriandoli, esistono dunque dei mattoni. Bellezze, enigmi, di un maestro dell’ironia e della disillusione che non ha mai smesso di mostrarci le facezie – progetti, utopie, cause, religioni, ideologie, passioni… – con cui alimentiamo i nostri sogni e le nostre bugie.
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2020. Pomeriggio. Rue Récamier
Cim se zivite?
“In francese, Milan. In francese…”. Vera sospira, desolata: “Oggi parla soltanto in ceco”.
È pomeriggio, il grande soggiorno in rue Récamier è pieno di luce. Lacero sole invernale i cui raggi rimbalzano obliqui su un quadro di Lou Lam. Lou, l’ultima moglie del pittore cubano Wilfredo Lam, ha disegnato un toro dietro le sbarre di una gabbia – il Minotauro? – sormontato da una frase, scritta con un pennello bianco: La vita è altrove. Mi piace questo quadro, l’ho sempre amato. Oggi, però, mi raggela.
La vita è altrove. Spirito, umorismo, vitalità: altrove. Lo sguardo: altrove. Vuoto come il letto di un fiume in secca. Milan Kundera non è più qua. La sua presenza, d’ora in poi, sarà un’assenza misteriosa e insondabile.
Cim se zivite?
“Ti chiede cosa fai per vivere. Non vi riconosce più: tu, neppure tu, e neanche il ragazzo di Jablonec. (Da quando ha scoperto che ha antenati in Boemia, Vera, felice, chiama mio marito così: “il ragazzo di Jablonec”). Sapevo che la malattia si era aggravata, ultimamente, ma quella domanda mi ha colto di sorpresa. È sorta all’improvviso e lo scrittore ora mi fissa, incuriosito, a quanto pare.
Siamo nel dicembre 2020: preparo la mia partenza per la Moravia e la Boemia. Con il ragazzo di Jablonec. Un pellegrinaggio kunderiano! Indirizzi, telefoni, passeggiate preferite da Milan, il sentiero lungo il fiume Svratka, l’hotel Pupp a Karlovy Vary, la città termale che un tempo si chiamava Carlsbad, la mitica Marienbad… Prendo appunti. Il nome del dolce preferito di Milan e Vera. Karlovarské Oplatky. Portarlo integro. “Due scatole, per favore”.
Cosa faccio per vivere?
Questa domanda, così banale eppure tanto profonda, mi turba. Perché? Perché me la pone un uomo giunto al termine della sua vita, che non ricorda più cosa ha fatto durante la sua vita? O perché so che non gradirebbe sapere che sto scrivendo un libro su di lui?
Mentre fissa il mio piccolo taccuino, dove ho scritto “Karlovarské Oplatky”, gli rispondo, alzando la penna.
“Beh, Milan… scrivo…”.
Sguardo sorpreso. Divertito, si direbbe. “Scrivere? Che idea folle!”.
Tutti ridono. Compresa l’infermiera del mattino che attende di essere sostituita da un collega. Mi torna alla mente – chissà perché in questo momento – una frase dai Testamenti traditi:
“Saprà che nessun uomo è ciò che crede di essere, che questo è un malinteso comune, elementare, che proietta sugli altri… il tenue bagliore di una commedia ridicola”.
Per qualche attimo, il tenue bagliore rischiara la lugubre tragedia. Fu allora che lo scrittore afferrò la penna dalle mie mani per scrivere, l’ultima volta, sul mio taccuino, il suo nome. Un nome fragile, tremolante, che terminava, con un accenno di malizia, nel disegno di un occhio.
Il filo che termina nell’occhio mi fa pensare a un aquilone. Ne L’identità c’è una descrizione struggente, all’inizio del romanzo, quando i due innamorati si cercano su una spiaggia della Normandia, in mezzo a dune di sabbia e aquiloni, appunto:
“L’aquilone: un pezzo di stoffa colorata teso su uno scheletro pericolosamente rigido, concesso al vento; con l’ausilio di due corde, una per ciascuna mano, gli si impongono diverse direzioni, di modo che si alzi e precipiti e svolti, emettendo un brusio terribile, come quello di un gigantesco tafano; ogni tanto, cade sulla sabbia, come un aereo che si schianta”.
A meno che quell’occhio – me lo suggerisce un amico – non significhi semplicemente: “Un occhio mi sormonta, mi guarda… Non sarà proprio lui a interessarsi alla mia vita?”.
Florence Noiville