La vita di Miguel de Cervantes Saavedra, come si sa, è consustanziale a quella, fittizia, di Don Chisciotte. L’identità, d’altronde, è certa fin da subito: “questo gentiluomo” che “si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi”, “rasentava la cinquantina, era di complessione robusta, asciutto di corpo, magro di viso” (così Don Chisciotte viene presentato nelle prime righe del più celebre romanzo del mondo occidentale), è l’ombra, l’anima, l’inconscio, la spiccicata sagoma di Cervantes, il quale rasentava la cinquantina, nel 1597, imbastardito dalla sfiga, quando s’inventò, dalle tenebre gonfie di ratti di un carcere di Siviglia, il folle cavaliere della Mancia. Nato esattamente 470 anni fa, Cervantes – viso ovale, baffetti spiazzanti, occhi ferocemente ispirati e gorgiera che pare un’armata di nuvole – è proprio Chisciotte: il tipo che cavalca un vile ronzino, “con la testa piena dei più disparati pensieri, mai venuti in mente a nessuno” è lui, l’impavido e triste Miguel, che tentò la via militare – ha combattuto, sulla galera “La Marquesa”, nella battaglia di Lepanto – per scampare a una vita di stenti, poeta modesto, sperava di governare un borgo in Guatemala o le galere a Cartagena per meriti sul campo – con lo stesso fumoso impeto di Don Chisciotte che promette isole fantomatiche al fedele Sancio – e in cambio si sente ridere dietro dalla corte reale e vaga per l’Andalusia, povero in canna, bistrattato, a fare l’esattore di imposte. Dall’esistenza di Cervantes si estraggono due concetti ardui: privazione e povertà. La letteratura, si sa, è dominata da una Musa puttana: vuole che lo scrittore frequenti gli abissi, rischi tutto per lei, per poi, forse, magari sì ma è probabile no, premiarlo. Privazione e povertà – subite o imposte – sono il punto di partenza per l’opera somma. Cervantes vide in una prigione una foresta magica, in una pietra un regno, nel nulla la possibilità di creare tutto. Dalla sua vita di merda trasse la storia di un povero cristo di Spagna, convinto – che stupefacente bibbia – che “il buon cavaliere errante, anche se vede dieci giganti, che con la testa non solo toccano ma oltrepassano le nuvole, e con due enormi torri per gambe, e per braccia degli alberi da bastimento colossali, e dagli occhi come macine da molino più infuocati che una fornace di vetreria, non si deve spaventare in nessun modo, ma anzi con nobile contegno e intrepido coraggio deve assalirli”. Dal Chisciotte sono nati tutti: la Bovary pervertita dai libri che però, a differenza del volubile cavaliere di Cervantes, voleva farsi rapire dalla vita senza rapinarla essa stessa, e poi i cristi pietroburghesi, sfottuti dal resto del reame, di Dostoevskij, così causticamente innocui, e poi gli intrugli della narrativa di James Joyce e le finzioni esponenziali di Pirandello. “Giudicato secondo i precetti della retorica, non c’è stile più trascurato di quello di Cervantes”, scrive Jorge Luis Borges in uno dei suoi Prologhi, eppure, i suoi scritti oltrepassano le norme, eccedono, “la semplice ragione non li può spiegare”. “Don Chisciotte è così originale che, a distanza di quattro secoli, rimane il libro più d’avanguardia che abbiamo della letteratura in prosa”, ha decretato Harold Bloom. Il fatto è che l’esistenza di Cervantes/Chisciotte (“Della sua vita si possono segnare soltanto i momenti salienti: vita di travaglio, consumata tra vicende avverse, nell’assillante lotta per l’esistenza e in vane aspirazioni verso miraggi ideali”, così la radiografia di Mario Casella) impone a noi poveri travet un aut aut radicale. O siamo come Cervantes o siamo come Arnaut Mami, il delatore albanese, assoldato dagli ottomani, che rinchiuse Cervantes nella prigione di Algeri per cinque anni in attesa di congruo riscatto. O viviamo una vita gettandoci follemente nelle imprese inutili e nefaste, le uniche per cui valga la pena rischiare tutto, o restiamo piccoli e grandi furfanti, dominati dalla scaltrezza, che fanno un po’ di soldi in barba al prossimo. Il mondo occidentale premia Cervantes – attenti però, “la gloria è una forma di incomprensione, forse la peggiore”, sussurra Pierre Menard, il calco di Cervantes secondo Borges – ma onora il corsaro Mami, meglio una vita da volpe, per quieto vivere, perché è il minore dei mali, perché così conviene, che una vita da cretino a specular fole e follie. Pensate agli scrittori di oggi, tutti dei miseri Mami, sognano di pubblicare per l’editore di lusso e fare la comparsata in tivù, sognano i mulini a vento della fama terrena, mica s’impegnano, nella prigionia della propria mania, a fantasticare galassie, sognano di firmare un contratto milionario, mica di firmare un’opera di genio. Quando Don Chisciotte, nell’ultimo capitolo del romanzo, torna a “indossare una nuova maschera, quella del mite cristiano Alonso il Buono” (questo è il geniale Viktor Sklovskij, un Cervantes della critica letteraria), Sancio Panza è disperato. “Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori, e chi sa che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea…”, dice l’umile scudiero al cavaliere rinsavito. La pazzia di Cervantes non è quella dei greci, fermento di sapienza: è una fuga eroica dalle regole del mondo e del tempo e stop. “Disprezzò l’universo intero, fu lo spaventacchio e il baubau del mondo, ed ebbe la gran fortuna di viver matto e di morir savio”, recita l’epitaffio di Chisciotte. Senza un tizio che intuisce utopie in un deserto, scova giganti nei mulini, draghi nelle capre e flautate principesse nel corpo di vecchie decrepite, il mondo è davvero quello che è, uno schifo, e l’uomo un bastardo che fa di tutto pur di diventare Briatore, altro che Chisciotte. Il destino baro, per altro, cercò di vendicarsi di Cervantes. La sua tomba andò perduta, per secoli. Il marmo sdilinquiva sotto i colpi di lingua dell’oblio. Troppo tardi: lui, Miguel de Saavedra, era già immortale, ancheggiando, indimenticabile, eccentrico cavaliere dalla trista figura, di bocca in bocca, di sogno in sogno, fino a oggi.
Davide Brullo