16 Luglio 2023

“Il ping-pong è una disciplina sufi, negli Usa domina Mao e io resto un chierico vagante”. Dialogo con Guido Mina di Sospiro

Qualche anno fa – era il 2017 –, su ispirazione di un amico intransigente, ho letto Sottovento e sopravvento. Hard boiled aristotelico, diciamo così, un libro che fondeva Hemingway a Voltaire. La quarta l’aveva firmata Maurizio Ferraris, prof di filosofia a Torino; il libro recava il nome di Guido Mina di Sospiro, che suonava, nel mio polmone a tamburo, come Bartolomeo Colleoni o Giovanni delle Bande Nere – un capitano di ventura del romanzo. L’impressione fu gratificata dalla breve indagine. Nelle fotografie reperibili in rete, Guido Mina di Sospiro indossa un borsalino, gli occhiali scuri, la barba che funge da museruola mistica; spesso è in quinta amazzonica, teso tra panorami struggenti. Qualcosa tra lo sciamano e il nobile sciamannato. La biografia dell’autore ispira, d’altronde, all’avventura: nato l’8 febbraio del 1960 a Buenos Aires “da antica famiglia italiana aristocratica”, cresciuto a Milano “in una casa in cui si parlavano diverse lingue”, ha studiato a Los Angeles, occupandosi di cinema, ha avuto a che fare con Gillon Aitken, mitico agente, tra gli altri, di Salman Rushdie e di V.S. Naipaul. Scriveva – e scrive – in inglese, è tradotto in dodici lingue, a volte si traduce in italiano. La pagina Wikipedia che riferisce di lui è nella lingua di Shakespeare; in Italia è stato pubblicato da Rizzoli – Il fiume, L’albero – e da Ponte alle Grazie e non mi sorprende che i suoi libri non entrino nel pollaio del dibattito culturale nostrano: Guido Mina di Sospiro è fuori asse, porta in sé un altro mondo.

Eppure, il suo pedigree, nel resto del mondo, è spiazzante. Del suo libro più noto, The metaphisycs of ping-pong, edito nel 2013 da Penguin – poi tradotto come La metafisica del ping-pong da Ponte alle Grazie nel 2016 e riproposto, oggi, rivisto e tradotto dall’autore, da Ultra – hanno scritto pressoché tutti. Brillante, sagace, il libro è una sorta di iniziazione alla sapienza tramite il tennistavolo: così, i campioni cinesi di quello sport che pretende riflessi non-euclidei e una mente protesa all’inconsueto si mescolano a Ludwig Wittgenstein, il puer aeternus dialoga con l’homo ludens, il Tao con la teoria del caos. Pare che una pallina da ping-pong racchiuda un intero mondo.

Dopo molto tempo, ho dunque ripreso il dialogo con Guido Mina di Sospiro, in vesti da derviscio.  

La metafisica del ping-pong mi ricorda Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Come è nato, in quali circostanze, perché, e perché ri-pubblicarlo oggi, dieci anni dopo?

Per scrupolo ho letto Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Dopo un paio di capitoli mi sono munito di rasoio e schiuma da barba perché quest’ultima cresceva in modo allarmante via via che giravo le pagine. E comunque il testo è imperniato su lunghe discussioni di filosofia canonica che in Italia si studia al liceo, quella teoretica e discorsiva che, incidentalmente ma non troppo, nel mio libro rigetto. Nello scorso secolo Aldous Huxley ingoiò quattro decimi di un grammo di mescalina dissolti in un bicchier d’acqua pieno per metà, inducendo così le visioni di cui scrisse in The Doors of Perception, il famoso libro che, secondo quell’eclettico geniaccio di Roland Fisher, contiene “99% di Aldous Huxley e solo mezzo grammo di mescalina”. Fisher intende dire che le visioni che ebbe Huxley erano profondamente ispirate dal suo bagaglio culturale. La mia ‘mescalina’ è stata… il ping-pong, ma di livello agonistico, che non conoscevo, e giocato da cinesi. Vi ho trovato così tanti punti di contatto con molti capisaldi della philosophia perennis, che mi è sembrato un veicolo perfetto per illustrarla agli ignari e ai neofiti, prendendoli per mano e conducendoli lungo il mio percorso iniziatico nel mondo del tennistavolo agonistico, che mi ha portato fino in Cina. Da lì l’idea di scriverne, poi divenuta una proposta editoriale, poi il manoscritto intero, infine un libro venduto dal mio agente, il leggendario Gillon Aitken che purtroppo ci ha lasciati, alla Random House. Lo si ripubblica oggi a sette anni dalla prima edizione italiana perché i diritti sono scaduti e c’è ancora molto interesse da parte dei lettori. In più, questa edizione l’ho tradotta io stesso, e vi sono sia aggiornamenti, con note a piè di pagina, sia approfondimenti, con appendici in fondo al testo.

Spiegami, in breve, cosa c’entra il ping pong con la sapienza sufi e la teoria del caos. 

Sapientia, come la chiamavano gli esoteristi, naturalmente in latino. Per dirla con i sufi, e parafrasando Idries Shah, “non si tratta di essere costretti a rompere le uova prima di poter fare una frittata; ma di uova che si rompono da sole per poter aspirare alla essenza della frittata”. Dire di più sarebbe svilire l’essenza di una delle correnti mistiche che mi sono più care al mondo. In quanto alla teoria del caos, applicata a un torneo di tennistavolo a squadre con molti partecipanti, dovrebbe essere facile predeterminare la squadra vincente som­mando il rating di ogni membro della squadra – ma non funziona così. Ecco perché i tor­nei sono caotici: è molto difficile prevedere il vincitore. E, naturalmente, è per questo che la teoria del caos non è emersa prima della seconda metà del XX secolo: c’erano troppe variabili da calcolare senza computer. Con la chiosa di una frase sublime nonché liberatoria, che mi ha detto un giocatore cinese, professore di matematica alla Università di George Washington: “I numeri non sono in grado di rappresentare pienamente la realtà perché sono troppo accurati; è per loro impossibile emulare l’aleatorietà che deriva dalla libertà, che è il principio fondamentale della natura”. Per chi, come me, odia sia il determinismo sia il finitismo, è stata in effetti una liberazione.

In sostanza: il ping pong come gli scacchi per Nabokov, il gioco del go per Kawabata, il pugilato per Norman Mailer, la tauromachia per Hemingway, la ludica strategia per Guy Debord. In cosa si differenzia la pratica del ping-pong rispetto alle altre, nobilissime?

In quanto agli scacchi, ne sono appassionato anch’io, e il discorso sarebbe lungo, anche perché ormai i giocatori di alto livello hanno memorizzato le principali aperture e difese, e si gioca in realtà per poche mosse del centro partita, e poi o è patta o uno dei due abbandona. Non esattamente il colmo dell’adrenalina. Il tennistavolo differisce da qualunque sport e disciplina per due motivi fondamentali: lo spin, soprattutto, e il tempo di reazione. Il giocatore avanzato è in grado di imprimere fino a centocinquanta rotazioni al secondo alla pallina, caratteristica unica del tennistavolo. Con tali rotazioni la pallina non vola in maniera euclidea, ma squisitamente non-euclidea. E su tale pallina ci possono essere due spin al contempo, anche in contrasto fra di loro. Quando ad altissimo livello un giocatore, mettiamo il numero 1 al mondo, sbaglia un colpo, non è perché non ci sia arrivato, ma perché non ha letto bene lo spin. In quanto al tempo di reazione, il tennistavolo è lo sport che richiede i massimi riflessi, disciplina cerebrale e scat­tante, qualcosa di simile a un puzzle a quattro dimensioni da risol­vere senza avere il tempo di pensare.

Cosa c’entra “l’iniziazione” nella pratica del tennistavolo?

Mircea Eliade direbbe che nel mio caso gli “sciamani” che mi hanno iniziato sono stati i giocatori cinesi, i quali facevano cose che mi sembrava andassero al di là della fisica. Naturalmente all’inizio neanche capivo cosa stessero facendo, né che spin stessero imprimendo alla pallina, dato che la maggior parte di loro giocava con l’impugnatura a penna, per me l’ennesimo mistero. Mi battevano 11 a 0. Delle volte giocavano con la mano sinistra, ma comunque me le davano sonoramente. Poi, piano piano, con tanto blood, sweat and tears, ho cominciato a fare qualche punto, cambiato club, trovato giocatori più avanzati. Dopo circa tre anni di assiduo allenamento e sorprendente fatica (da appassionato botanico: è meno stancante scavare una fossa che giocare per tre ore a tennistavolo a livello agonistico), sconfiggevo tutti i giocatori cinesi in cui mi imbattevo. Mi guardavano come un rara avis, una stramberia occidentale che osava batterli nella disciplina che considerano un loro diritto di nascita.

Fammi capire la tua vita. Nasci a Buenos Aires, sei italiano, vivi negli Stati Uniti, scrivi in inglese. Perché non scrivi in italiano? Ti senti trascurato o negletto dal mondo culturale italiota? O meglio: come si percepisce, dall’altra parte dell’oceano, la letteratura italiana recente?

Nasco a Buenos Aires, sì, ma ci vivo solo tre mesi, e ci ritorno cinquantanove anni più tardi, invitato dall’Ateneo, la libreria più bella del mondo, a firmare copie dell’edizione spagnola proprio de La metafisica del ping-pong; cresco a Milano, quella degli anni di piombo e allora ancora della nebbia, città per cui non nutro una grande simpatia; frequento l’università a Los Angeles, e mi laureo; poi vado a Miami, poi in Virginia, infine nel Maryland, vicino a Washington, D.C. Questione lingua: la mia prima tata, o niñera, era una spagnola, fino ai miei tre anni. Dunque sospetto che il castigliano sia la mia lingua madre; le è subentrata una valdese, di cui conservo carissima memoria, che mi parlava in francese – che sia il francese la mia lingua madre? Intanto, intorno a me, e poi alle elementari, l’italiano, ma sempre con l’inglese in sottofondo. A casa dei miei si parlavano cinque lingue, e c’erano spesso ospiti internazionali. D’altra parte, da secoli gli aristocratici parlano “le lingue”, che sono poi le quattro citate più il tedesco. Una volta in America ho deciso di scrivere in inglese; ma oggi, anche perché incoraggiato dalla mia nuova agente letteraria, traduco i miei testi dall’originale inglese all’italiano, anzi, più propriamente li riscrivo.

Trascurato o negletto? Mah… mi ritengo un clericus vagans, l’erudito dell’alto medioevo che viaggiava di università in università in Europa e, qualunque fosse la sua nazionalità, leggeva, scriveva e insegnava nella lingua franca di allora, il latino; quella di oggi è, ovviamente, l’inglese. Sono poi molto pubblicato in lingua spagnola, altra lingua mondiale che parlo correntemente e amo molto. E poi in tante altre lingue, fra cui alcune alle nostre orecchie pittoresche, quali, per esempio, il coreano e il tailandese. Ci sarei arrivato partendo da originali italiani?

Se non sbaglio, cominci occupandoti di cinema. Come accade l’approdo alla scrittura creativa? Raccontami. 

Ho sempre scritto, sin da quando, da ragazzo, a notte fonda ascoltavo Keith Jarrett in cuffia e leggevo Rilke, i mistici persiani, i lirici greci, Novalis… Anche per il mio primo film scrissi il copione, i dialoghi, le nota di presentazione per la prima alla cineteca italiana, fortemente voluta dal suo direttore. Poi, da Los Angeles, sono stato giornalista musicale e cinematografico per periodici italiani e tedeschi. Nel mentre cominciavo a scrivere narrativa.

Mi viene anche da chiederti: qual è il clima culturale, come si dice, oggi negli Usa? 

Terribile: o woke o, peggio ancora, cancel culture, vale a dire la rivoluzione culturale di quell’esemplare sterminatore di massa che è stato Mao. Se si continua così, l’impero degli USA non può che implodere.

Quali sono stati i tuoi maestri (reali o fittizi che siano)?

Christopher Sinclair-Stevenson, che oggi giace allettato in una casa di cura dopo aver perso la moglie lo scorso inverno, che è stato grande editore e poi agente letterario a Londra per sessant’anni. Figurati che appena laureato a Cambridge gli fu affidato Gli Italiani di Luigi Barzini, per curarne la versione inglese The Italians. Lo potò e riarrangiò molto drasticamente, e il libro divenne un best-seller in Inghilterra. Christopher aveva ventiquattro anni. Dopo di che ha pubblicato i più grandi scrittori degli ultimi decenni. Agli inizi degli anni Novanta mi è stato presentato da una ragazza che aveva lavorato per lui come editor, e da lì è incominciato il più classico dei rapporti fra maestro e discepolo. Per vari anni ciò che mi ha dato la fede di continuare a scrivere, libro dopo libro, sono stati i suoi fax, che arrivavano puntuali più o meno ogni due settimane in risposta a mie lunghe lettere. Allora nessun altro sapeva di me e dei miei scritti. A un certo punto su mia richiesta e insistenza ha molto generosamente fatto l’editing di un mio romanzo – e penso d’avere definitivamente imparato a scrivere (in inglese) allora.

Non posso non citare anche Joscelyn Godwin, il grande studioso inglese e con me co-autore di due romanzi: The Forbidden Book e Forbidden Fruits. Molto simile come forma mentis a Christopher, ma per me più come un fratello maggiore. Poi ci sono tante altre influenze, ovviamente, ma Christopher e Joscelyn sono stati maestri veri.

E ora, cosa stai scrivendo?

L’ultimo romanzo moderno, la prima neo-romanza di cavalleria: Una volta nella vita. Un romanzo tristaniano.

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