01 Settembre 2022

“C’è un soave mistero in questo mare...”. Melville, il disertore della letteratura

La vita per mare di Herman Melville dura quattro anni, dopo aver tentato vari lavori, compreso l’insegnante. Il primo lungo viaggio, imbarcato come marinaio, lo fa nel 1839, sul “St. Lawrence”: ha vent’anni e percorre la tratta New York-Liverpool. Molti anni dopo, nel 1855, esaurita l’ennesima vita, quella da letterato, ritenuta insoddisfacente, Melville è di nuovo a Liverpool, fa visita all’amico Nathaniel Hawthorne, a cui ha dedicato Moby Dick, autentico, evanescente, leggiadro leviatano della letteratura americana, lì in qualità di console, grazie ai benefici ottenuti dall’intimità con Franklin Pierce, quattordicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America.

“Melville, come sempre, cominciò a ragionare della Provvidenza e della vita futura, e di tutto ciò che è oltre la conoscenza umana, e mi informò che ‘era più o meno giusto alla conclusione che sarebbe tornato al nulla’, e però non sembra trovar riposo nella previsione”

ricorda, Nat.

Il primo vero impiego, però, Melville lo ottiene nel dicembre del 1840 quando si imbarca sull’“Acushnet”, una baleniera che fa rotta verso il Pacifico. Il 23 giugno del 1842 l’“Acushnet” attracca a Nuku Hiva, nelle Marchesi. Il porto naturale è placido, ma nessuno osa sfidare i boschi, notoriamente abitati da popolazioni cannibali. Il 9 luglio, insieme a Toby Greene, Melville diserta “e si nasconde nei recessi dell’isola”. Un mese dopo, i due si impiegano su una baleniera australiana, la “Lucy Ann”; Melville si allea agli ammutinati. Processato, arrestato a Tahiti, Melville scappa con un altro compagno, John B. Troy, nell’isola Eimeo, dove si arrangia come coltivatore di patate. In seguito, riesce a imbarcarsi sul “Charles & Henry”, che gli consente di arrivare alle Hawaii, nell’aprile del 1843. Lì ottiene l’ultimo impiego della sua vita da marinaio, sulla “United States”, percorrendo il Pacifico, fino all’ottobre del 1844.

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Come si sa, gli anni di vagabondaggio nel Pacifico sono lo sfondo dei primi romanzi di Melville, Typee (1846), Omoo (1847) e Mardi (1849). Il Pacifico è il liquido amniotico del Melville romanziere: “Da tempo pensavo che la Polinesia offrisse una notevole quantità di ricco materiale poetico che non è mai stato finora sfruttato in opere di fantasia”, scrive, nel 1848, al suo editore, John Murray. Al Pacifico è dedicato uno dei capitoli più poetici di Moby Dick:

“C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…”.

(cito dalla traduzione di Alessandro Ceni, il poeta, realizzata per Feltrinelli, 2007)

Dieci anni dopo la pubblicazione di Moby Dick, Melville è ancora lì, nel Pacifico, a cercare, forse, la giovinezza perduta, l’estro della scrittura sorto, per diserzione, alle Marchesi. Ne scrive al primogenito, Malcolm, che morirà in modo atroce, diciottenne, sparandosi, a New York. “L’altro giorno abbiamo avvistato una baleniera; ho preso una scialuppa e ho navigato nell’oceano fino alla baleniera, sono stato lì per un’ora. A bordo c’erano otto o dieci “selvaggi”. Il capitano della baleniera li ha arruolati in una delle isole intorno a Rarotonga. Dovrebbero aiutare a tirare la balena dopo che è stata catturata”.

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A Nuku Hiva, nel folto, in quella cattedrale di foreste, Melville rimane per un mese. Che cosa succede? È il sommo segreto melvilliano. Alcuni suppongono che Melville sia stato iniziato ai riti tribali, penetrando negli oscuri enigmi delle leggende isolane. Ad ogni modo, così ne scrive Elémire Zolla:

“Due marinai americani scappati dalle loro navi si sono rifugiati presso una tribù delle Marquesas. Stranamente le statue degli dèi maggiori sono adagiate nel verde fittissimo e umido e nessuno fa mai cenno a queste presenze. La vita si svolge tenera, sensuale, trasognata, scherzosa. Ma forse è un inganno, la verità è in quegli angoli segregati, in quelle oscurità stillanti”.

Alle Marchesi Melville ammira la – apparente – marcescenza del dio, il dio-feticcio divorato dalla selva, simulacro che si consuma perché deve consumarsi. Così un passo di Typee tradotto da Luca Orlandini in Nuku Hiva (Magog, 2022):

“Il simulacro, in sé, era solo un pezzo di legno grottescamente scolpito… Era in un pessimo stato di conservazione. La parte inferiore era ricoperta da una lucente patina di muschio. Sottili steli d’erba spuntavano dalla bocca spalancata e contornavano il capo e le braccia. Le sue caratteristiche divine erano letteralmente giunte a quella decadenza che detta la selva, quando prende il sopravvento. Tutte le sue parti in rilievo erano ammaccate e logore, o del tutto marcite. Il naso era addirittura scomparso, e dalle condizioni generali della testa, veniva da supporre che questa lignea divinità, esasperata dall’incuranza dei propri fedeli, avesse tentato di spaccarsi il capo contro gli alberi circostanti”.

L’incuranza come atto di fede – il feticcio esiste perché si consumi, con scostumata indifferenza – scoscendere nel nulla.

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Francesco Saba Sardi ha curato un’edizione di Taipi per Mondadori (1984), e ne scrive in questo modo:

“Se Melville è autore, più che del suo, del nostro secolo (e anzi di questo dopoguerra di illusioni cadute), è per merito di una coscienza incerta quanto impietosa. Nessuna amplificazione leggendaria di un’autobiografia: Taipi non è affatto questo, bensì il disincanto, e pertanto il rifiuto di ogni autobiografismo… L’atmosfera di queste pagine non è certo gioiosa: la selva è feroce, l’isola implacabile, gli indigeni perfidi… il mito personale di Melville è catabatico”.

Discesa agli inferi, catabasi. Melville è attratto dal mondo magmatico, magnetizzato di spiriti, degli isolani – e ne è rifiutato, rigettato. Orfeo perde cetra, lingua e certezza: nulla può risorgere, lo scrittore porta lo stigma del lebbroso, il marchio del profeta.

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Mentre nell’estate del 1842 Melville diserta e si inoltra tra i recessi di un’isola sperduta nel Pacifico, Nathaniel Hawthorne – così leggiamo nei suoi diari – fa il bagno nel fiume vicino a Concord, Massachusetts – “la sua acqua è di piacevole effetto immediato, essendo soffice come il latte” –, che sfida anche di notte, al “chiaro di luna” – “era calmo come la morte, m’è parso di tuffarmi nel cielo” –, e pranza con Henry David Thoreau, “una persona singolare… brutto come il peccato, col naso lungo, la bocca strana e con modi rozzi e rustici, sebbene cortesi”. L’amicizia tra Melville e Hawthorne, sodalizio tra i più alti della letteratura, comincia nel 1850.

“È uno sguardo strano, pigro, ma con una forza abbastanza unica. Non sembra attraversarti, ma prenderti dentro di sé”.

Con queste parola Sophia Hawthorne, adorata moglie di ‘Nat’, descrive gli occhi di Melville, lo sguardo onnivoro. Ne è conquistata.

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La catabasi a Nuku Hiva, l’avventura tropicale tra i cannibali, segna Melville per sempre. Secondo i ricordi della nipote, Eleanor Melville Metcalf,

“Nell’angolo c’era una grande poltrona, dove lui si sedeva sempre quando lasciava i recessi del suo oscuro mondo privato. Gli salivo sulle ginocchia, mentre mi raccontava storie fantastiche di cannibali e isole tropicali”.  

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La diserzione è il carisma di Melville. Melville diserta per avviarsi nel suo deserto: abbandona il mondo degli uomini, la consuetudine letteraria, le convenzioni editoriali. Nel 1885 a James Billson scrive:

“Quanto alla fama irraggiunta – cosa importa? La nostra civiltà avanza in un presente in cui diventano famose, ancor più in campo letterario, le cose che hanno successo commerciale. Questa specie di fama, prodotta su ordinazione, fabbricata dalle agenzie, è vanità delle vanità, lo sappiamo bene”.  

C’è un’analogia tra il pellegrinaggio negli oceani, quello a Gerusalemme – stralunato, involuto, mesmerico – messo in versi in Clarel, e la fuga tra le foreste di Nuku Hiva. Il primo gesto di vita di Melville, quello che ne ha forgiato la giovinezza e foraggiato il futuro, è un gesto di diserzione; non di rinuncia, di viltà, da disadatto, bensì il tuffo verso l’ignoto. Meglio la foresta fitta di dèi ottenebrati dal muschio e di cannibali all’ignavia della barca, al reggimento, ai comandi sfiduciati.

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L’ultima, estrema diserzione è da se stessi, dalla propria opera. Quando il pittore Peter Toft gli chiede ragione dei suoi libri, Melville lo blocca:

“Sembrava fare poco conto delle sue opere, e scoraggiò i miei tentativi di discuterne. ‘Le conoscete’, diceva, ‘ meglio di me. Io le ho dimenticate’”.

In effetti, riuscì a farsi dimenticare. Nel necrologio pubblicato dal “New York Times” il 29 settembre del 1891 Melville è ricordato come scrittore di “racconti di mare”, come “l’autore di Typee”. Tre giorni dopo il quotidiano ritorna sulla notizia, per trarne una nota moraleggiante:

“L’eclissi totale di quello che pareva un luminare della letteratura pare un capriccio sfrenato della fama, in ogni caso, è un monito amaro e salutare per i romanzieri di oggi… I mari del Sud del Pacifico erano il suo territorio di scrittura”.

In fondo, è annegato e risorto, Melville; fu quasi un battesimo. Il patriarca sul dorso della Balena Bianca.

Gruppo MAGOG