Discorso sul digiuno e sull’“artista della fame”
L'Editoriale
Ognuno ha la sua isola. La mia era localizzata al centro del Lago Maggiore: amavo l’Isola Madre per via della villa patrizia circondata dal bosco. La adorava perfino Flaubert. Naturalmente, quella è un’isola spuria: si raggiunge con facilità in battello, si potrebbe abbordare a nuoto. Come le altre che costellano il Lago Maggiore, è un’isola dinastica: nel Cinquecento Lancillotto Borromeo vi importa un agrumeto; oggi, nel bosco, non è difficile vedere pavoni bianchi e la traccia aromatica di una lince, in esodo dai sogni. In sostanza, l’Isola Madre raffigura un Eden da tasca – prima privato, depravato da un oggi turistico. Meglio: è la teatralizzazione di un’isola oceanica – tutta foreste, bestie selvagge e misteri –, senza le difficoltà dell’oceano. Esotico domestico. Il Pacifico in pieno Rinascimento – si affoga, semmai, di tedio.
L’isola nel lago ha qualcosa di mistico e di claustrofobico insieme: è la pupilla del cratere lacustre, il fulcro del mistero; ma lo sguardo, da lì, non vaga verso lo sconfinato, è recluso dall’anello dei monti, cruda trincea. Il lago, ceruleo, in effetti, cela creature ben più terribili di Moby Dick o dello squalo bianco, reso quasi pacchiano da troppi film.
L’isola autentica è come l’oasi, lo stigma di un miracolo. Il deserto di sabbia non è diverso dal deserto oceanico, blu. Ogni landa ha i suoi tuareg, la canoa è un cammello tra i flutti, le stelle chiedono sguardo perito nel riconoscere forme, destini, orienti. Tuttavia, il Dio biblico si rivela nel deserto e spalanca le acque. L’oceano è un portone: a cosa conduce?
In particolare, al di là del furore mistico, le isole dei mari del Sud sono legate a un senso di eversione artistica: alla deriva senza imitatori – e senza frutti antropologici – di Paul Gauguin. Così ne scrive, ad esempio, Oto Bihalij-Merin:
“La volontà creativa dell’arte moderna di giungere oltre l’orizzonte della terra a nuove rive, conduce anche ad uno scandaglio dei primordi umani, al tentativo di penetrare il segreto delle origini. Con Paul Gauguin ebbe inizio l’imbarco per le isole utopiche dell’ingenuità. La capacità di espressione dei popoli primitivi, le riserve di forza del sole, dell’estasi, dell’intensità dovevano alimentare le fonti inaridite dell’arte”.
Quando Gauguin sceglie di partire, irrevocabilmente, per la Polinesia francese, nel 1891, Joseph Kabris, il marinaio che per primo ha abitato quei luoghi, testimoniati sul suo corpo, integralmente tatuato, era morto da quasi settant’anni, per lo più ignorato. Tra le Marchesi, Gauguin preferì Hiva Oa; Kabris, giovane marinaio di Bordeaux – il cui nome, come il suo destino, è un tiro di dadi: alcuni lo chiamano Jean Baptiste Cabri, altri Cabry, a volte è passato come Kabrit, altre come Cadiche – aveva preferito naufragare a Nuku Hiva. Sfiorata da James Cook nel 1774, toccata da Bougainville nel 1791, l’isola era per lo più inesplorata: voci di tribù cannibali scongiuravano lunghi approdi. Dal 1813 la marina americana, guidata dal capitano David Porter e dal tenente John Downes, prende possesso dell’isola, straziando i nativi, rivendicando proprietà statunitense. Dal 1842 i francesi, con velenosità vespertina, cominciano a inoltrarsi da Tahiti alle Marchesi, che diventano parte degli Établissements français de l’Océanie e dei Territoire d’outre-mer. Solita storia: colonizzare l’ignoto, inscatolare le sirene, farsi un Ciclope da comò.
Nuku Hiva, nel frattempo, è lo sfondo naturale dei primi romanzi di Herman Melville: proprio nell’estate del 1842 lo scrittore, insieme al compagno di viaggio, Richard Tobias ‘Toby’ Greene, diserta dall’“Acushnet” e s’inoltra nella fitta foresta di Nuku Hiva. Resiste qualche settimana: poi s’imbarca sul “Lucy Ann”, battente bandiera australiana, e atterra a Tahiti. I primi romanzi, Typee (1846) e Omoo (1847) sono ambientati tra Nuku Hiva e Tahiti, mescolano avventura e descrizioni naturalistiche, spaesamenti e dettagli antropologici, invenzione e biografia. Il “London Critic” (7 marzo, 1846) recensì, in sostanza, un esordio efficace:
“Benché ricopra il ruolo di un comune marinaio, l’autore di questo libro è tutto fuorché un uomo comune. Il suo stile è chiaro, violento, sagace; ed egli gestisce in modo sapiente descrizioni, riflessioni filosofiche e gli acuti sentimentali copiosamente disseminati nel testo, tanto che al principio ci è parsa l’opera congiunta di un marinaio e di un letterato, con il primo in grado di fornire al secondo la materia narrativa, poi sistemata con ordine, in modo da sortire miglior effetto per il pubblico… La caratteristica più discutibile del romanzo, semmai, è la sentenziosa, invadente seriosità con cui l’autore sostiene che sia preferibile la vita selvaggia a quella civile”.
Anche Hawthorne – ne scrisse sul “Massachussetts Advertiser”, il 25 marzo del 1846 – riconosce in nuce il genio dell’amico:
“La narrazione è condotta con sapienza e, dal punto di vista letterario, l’esecuzione è degna della novità del soggetto”.
Il soggetto, in verità, non era del tutto nuovo. Kabris aveva pubblicato il Précis della sua avventura a Nuku Hiva, in cui aveva soggiornato per quasi dieci anni, a Ginevra, nel 1820. Per un po’, la sua storia aveva affascinato le corti europee: probabilmente non era mai giunta alle orecchie degli americani. L’indole di Kabris, ad ogni modo, era diversa da quella dell’invasore come da quella dello scrittore: non prevaricava né contemplava; viveva. La fortuna lo aveva reso degno di nota agli occhi degli indigeni: seppe sfruttare l’occasione, giocandosi un’esistenza al di là del tempo e della Storia.
Più che altro, a Nuku Hiva Joseph Kabris non arriva da solo. Insieme a lui, nel 1798, s’inoltra nell’isola Edward Robarts, marinaio gallese nato a Barmouth, più anziano di dieci anni. Navigatore esperto, Robarts vaga tra Giamaica e Santo Domingo, s’imbarca su una baleniera, la “New Euphrates”, come cuoco di bordo. Sceglie di disertare a Tahuata, si sposta a Hiva Oa poi a Nuku Hiva; in una lettera inviata l’11 dicembre del 1811 da Calcutta racconta:
“Sono stato fortunato. Il re di una delle tribù mi divenne amico, cercai di consolidare il suo favore. Ho guidato i suoi guerrieri per quattro anni. Infine, mi diede sua sorella, Ena-o-ae-a-te, come sposa, segno tangibile della sua stima. Da allora ho pensato che la mia vita fosse straordinaria. Infine, me ne sono andato, nel febbraio del 1806”.
La relazione tra Kabris e Robarts, alle estremità del mondo noto, in quella tenebra blu, ricalca quella, atavica, tra francesi e inglesi: amichevolmente, si odiavano. Ne abbiamo testimonianza dalla relazione allo zar di Adam Johann von Krusenstern, ammiraglio della Marina Imperiale Russa, in esplorazione nel Pacifico:
“Credemmo di poter riporre maggior fiducia in Robarts: era disinteressato e irreprensibile nei modi. Mi è parso un entusiasta, dal carattere debole, ma capace di comprensione, un brav’uomo, in sintesi. Il francese ne diceva il peggio possibile, accusandolo di essere un ladro. Tra i selvaggi aveva acquistato la stima che si riserva ai guerrieri illustri”.
L’ammiraglio sfruttava Kabris e Robarts come interpreti tra i nativi. Quando si trattò di scegliere chi portare in Russia, non ebbe dubbi. Kabris era più giovane, energico, scaltro. Kabris partì per la Kamčatka, l’estremo oriente russo, il 18 maggio del 1804, mollando alle Marchesi moglie, indigena, e figli; raccontò la sua storia allo zar. Aveva, dalla sua, l’audacia del commediante. La vita di Edward Robarts si svolse in altro modo. Imbarcatosi nel febbraio del 1806 verso Botany Bay, il gallese portò con sé moglie e figli, percorrendo una vita di folli vagabondaggi: fu maggiordomo in Malesia e agricoltore in Nuova Zelanda, distillatore alle Figi e commerciante di sale in India; a Calcutta servì l’indologo John Caspar Leyden. Perse due mogli e sei figli. L’India lo squarciò: pare sia morto nel 1832, dieci anni dopo Kabris.
Entrambi avevano perduto il loro Eden, gli anni d’oro sepolti a Nuku Hiva. Il carattere, per così dire, si dimostrò nell’esibizione esistenziale: Kabris narrava, con succulenti particolari, la sua vita “tra i selvaggi” a corte; quando passò di moda, si presentava alle fiere di paese, nella periferia francese, addobbato in fogge esotiche, come “re di Nuku Hiva”. Fino all’ultimo, pensò di raccogliere denari sufficienti per potersi imbarcare e fare ritorno nel luogo della sua giovinezza – ma, come sappiamo, non si entra due volte nella stessa vita.
Robarts, d’indole riflessiva, scrisse un lungo, prolisso diario della sua vita, pubblicato come The Marquesan Journal of Edwars Robarts 1797-1824 dalla Australian National University Press nel 1974, per la cura di Greg Dening. Nel diario, Kabris è appena accennato come “quel francese”. In appendice, Robarts compila un lungo vocabolario of the Marquesas Language: Dio si dice Tha Ea’tu’a neu a; Anima si dice Eo’phar may; Vita Me nar ua; Sole O mah tee; Cuore è Hou bu, mentre Pazzo è Pah. Kabris non sentiva il bisogno di catalogare le parole degli altri: voleva imporre la propria voce.