27 Ottobre 2022

“Niente è per sempre”. L’ultimo romanzo di Cormac McCarthy

Nel cuore della notte la neve si era posata leggera e i capelli di lei, irrigiditi dal gelo, sembravano aurei e vetrificati, mentre i suoi occhi erano gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e giaceva nella neve sottostante. La sagoma impolverata del suo cappotto era abbandonata sul suolo imbiancato nel punto in cui l’aveva lasciato cadere e indossava nient’altro che un abito bianco, sospesa fra i tronchi brulli ed esangui degli alberi in inverno, con la testa reclinata e le mani leggermente rivolte verso l’esterno come quelle di certe ecumeniche statue la cui posa reclama attenzione in ordine alla propria storia. Attenzione in ordine alle profonde radici del mondo, il cui essere dimora nella sofferenza delle sue creature. Il cacciatore si inginocchiò e posizionò il fucile in verticale accanto a sé, nella neve, si sfilò i guanti e li lasciò cadere e giunse le mani una sull’altra. Pensò che avrebbe dovuto pregare ma non aveva preghiere a cui affidarsi per una circostanza del genere. Chinò il capo. Torre d’Avorio, disse. Casa d’Oro. Rimase lì genuflesso per lungo tempo. Quando aprì gli occhi intravide un minuto profilo per metà tumulato nella neve, si sporse per spazzarne via un po’ e raccolse una catena d’oro da cui pendevano una chiave d’acciaio e un anello d’oro bianco. Aveva udito il vento durante la notte. Il lavorio del vento. Lo schianto di un bidone dei rifiuti sui mattoni del retro di casa. Folate di neve nell’oscurità della selva. Riversò lo sguardo nel fondo gelido di quegli occhi smaltati che rilucevano di blu nella flebile luce invernale. Aveva annodato l’abito con una fusciacca rossa in modo da essere trovata. Una punta di colore nella zelante desolazione. Di questo giorno di Natale. Questo gelido e appena pronunciato giorno di Natale.

*

I

Questa dunque sarebbe stata Chicago nell’inverno del suo ultimo anno di vita. Nel giro di una settimana avrebbe fatto ritorno da Stella Maris e da lì si sarebbe inoltrata verso i desolati boschi del Wisconsin.

Il Ragazzo Talidomide la trovò in un affittacamere in Clark Street. Sul versante nord. Bussò alla porta. Cosa per lui anomala. Ovviamente lei già sapeva chi fosse. Lo stava aspettando. E ad ogni modo non si era trattato di un vero bussare. Piuttosto del rumore di uno schiaffo.

Camminava su e giù ai piedi del letto di lei. Si arrestò per parlare, ci ripensò e seguitò a muoversi avanti e indietro, fregandosi le mani come il cattivo in un film muto. Tranne per il fatto che non si trattava di vere mani. Di pinne, piuttosto. Come quelle di una foca. Nella sinistra ora si cullava il mento mentre si fermava e stazionava lì per osservarla. Di nuovo qui, a grande richiesta, disse. In carne e ossa.

Ci hai messo molto ad arrivare.

Sì. Le luci sono state puntate contro di noi per tutta la strada.

Come facevi a sapere in quale camera mi trovavo?

Facile. Camera 4-C. L’avevo previsto. Come stai pagando?

Ho ancora del denaro. Il Ragazzo si guardò intorno. Mi piace come ti sei sistemata. Forse potremmo fare un giro in giardino dopo il tè. Che programmi hai?

Credo tu lo sappia già.

Sì. La situazione non sembra troppo invitante, vero?

Niente è per sempre.

Stai scrivendo un biglietto?

Sto scrivendo una lettera a mio fratello.

Una sintesi dell’inverno scommetto.

Il Ragazzo era alla finestra ad osservare il freddo pungente. Il parco innevato e il lago ghiacciato che lo oltrepassava.

Bene, affermò. Vita. Che dire? Non è per tutti. Gesù, gli inverni si stanno accorciando.

È così?

Esattamente così.

È tutto ciò che hai da dire?

Sto riflettendo.

Aveva ripreso a muoversi avanti e indietro. Poi si bloccò. E se avessimo fatto i bagagli e ce la fossimo svignata?

Non avrebbe fatto alcuna differenza.  

E se fossimo rimasti?

Cosa? Altri otto anni di te e dei tuoi amichetti da quattro soldi?

Nove, Giovane Scienziata.

Nove allora.

Perché no?

No, grazie.

Ricominciò a camminare. Frizionandosi lentamente la piccola testa deforme. Sembrava fosse stato messo al mondo con delle pinze da ghiaccio. Si fermò di nuovo alla finestra. Ti mancheremo, disse. Ne abbiamo fatta di strada, insieme.

Certo, disse lei. Ed è stato meraviglioso. Ma ascolta. È del tutto irrilevante. Nessuno sentirà la mancanza di nessuno.

Non saremmo nemmeno dovuti venire, lo sai.

Non so tu cosa avessi da fare. Non ho idea dei tuoi impegni. Non ce l’ho mai avuta. E al momento non mi interessa.

Certo. Hai sempre immaginato il peggio.

E raramente mi sono dovuta ricredere.

Non tutte le elettromeliche allucinazioni che si manifestano nel tuo boudoir il giorno del tuo compleanno lo fanno per venirti a prendere. Abbiamo provato a diffondere un po’ di luce in un mondo travagliato. Che c’è di male?

Non è il mio compleanno. E penso che sappiamo bene cos’è che state diffondendo. Ad ogni modo, non entrerai nelle mie grazie, quindi non pensarci proprio.

Tu non possiedi alcuna buona grazia. Sei fuori.

Tanto meglio.   

Il Ragazzo stava scrutando la stanza. Gesù, disse. Questo posto è disgustoso. Hai visto cosa ha appena attraversato il pavimento? Diamine, siamo completamente fuori dallo Zyklon B? Non sei mai stata propriamente una piccola donna di casa, ma penso che stavolta tu abbia superato te stessa. Un tempo ci saresti morta in una topaia del genere. Ti stai prendendo cura di te?

Non sono affari tuoi.

L’ennesima camera disordinata. Bene. Non sai cosa c’è in ballo, vero? Se mi perdoni il gioco di parole. Hai mai pensato di prendere il velo? Va bene. Era solo una domanda.  

Perché semplicemente non emendiamo il possibile e lasciamo perdere il resto? Senza peggiorare le cose.

Sì sì certo, va bene.

Sapevi che sarebbe successo. Ti piace fingere che io abbia dei segreti con te.

Ce li hai. Hai dei segreti. Cristo, fa freddo qui dentro. Ci si potrebbe conservare la carne in questo fottuto posto. Mi hai chiamato operatore spettrale.

Cosa?

Mi hai chiamato operatore spettrale.

Non ti ho mai chiamato così. È un termine matematico.

Sì. Lo dici tu.

Puoi controllare.

Dici sempre così.

E tu non lo fai mai.

Va bene. È acqua passata.

E quello cos’è? Sei preoccupato di ricevere un voto basso al tuo report?

Chiamalo come vuoi, Principessa. Abbiamo fatto del nostro meglio. La malattia persiste.

È tutto normale. Non durerà ancora a lungo.

Già, continuo a dimenticare. Vado verso la meta di nessun cazzo di viaggiatore.

Continui a dimenticare?

In senso metaforico. In realtà non dimentico molto. Non sembra tu abbia dei nitidi ricordi dello stato in cui ti abbiamo trovata quando ci siamo incrociati per la prima volta.

Non ho bisogno di ricordarlo. Ci sono ancora dentro.

Sì, certo. Correggimi se sbaglio, ma mi pare di ricordare una ragazzina in punta di piedi che sbirciava attraverso un’alta apertura di cui quasi non si trova traccia negli archivi. E che cosa ha visto? Una sagoma ferma al cancello? Ma non è questa la domanda, vero? La domanda è: è stata vista? Un breve barlume di luce. Chi avrebbe mai potuto notarlo? Ma un cerbero è capace di attraversare un anello. Ho ragione o no?

Io stavo bene prima della tua comparsa.

Gesù, sei un bel tipo. Lo sai? Ad ogni modo, ce l’ho a portata di mano per te. Come nella barzelletta sulla prostituta cieca. Infernale, bavoso e ghignante, e da cui lei sta cercando di guardarsi le spalle. Cosa c’è là fuori? Non saprei dire. Dalla pioggia sembrano esalare atavici echi della psicosi di un defunto antenato. Fumanti, dall’angolo laggiù. Ma che diavolo. Fammi prendere le torce. Niente di buono. Spegni il proiettore. Ma chi diamine lo ha ordinato? Alza lo schermo così quelle cazzo di cose finiscono sul muro. L’altro modo in cui mi hai chiamato è stato agente patogeno.

Tu sei un agente patogeno.

Vedi?

Stanno entrando o no?

Chi, sta entrando?

Dacci un taglio. So che sono là fuori.

*Si pubblica un estratto da “The Passenger”, l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, edito da Knopf. La traduzione è di Fabrizia Sabbatini

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