09 Agosto 2020

“I pagliacci che dicono la verità piacciono e fanno ascolto”. Mauro Corona compie 70 anni. Ovvero, come sopravvivere in un paese che emargina i suoi vecchi

“A quindici anni mi impegnai a imparare” scrive Confucio, “a trenta mi sono retto in piedi. A quarant’anni sono cessati i dubbi. A cinquant’anni ho conosciuto la volontà del Cielo. A sessanta l’orecchio si è fatto obbediente. A settanta, posso seguire i desideri dell’animo, senza infrangere regole”.

Mica facile, in un tempo, quello nostro, in cui la regola principale è rimuovere la vecchiaia.

Durante i mesi della pandemia, quando i bollettini della Protezione Civile ci informavano del numero crescente dei morti e dei malati, mi è capitato di sentire giovani affermare che non bisognava avere paura del virus: “Tanto muoiono solo gli anziani”.

No Country for Old Men. Un uomo anziano non è che una cosa miserabile, dice in versi William Butler Yeats, ed era il 1927. Un uomo anziano è una giacca stracciata su un bastone, a meno che l’anima non batta le mani e canti, e canti più forte per ogni strappo nel suo abito mortale.

Sono stati scritti un’infinità di saggi sulla crisi pensionistica, ma la soluzione finale l’ha data lo scrittore americano Christopher Buckley, in un romanzo satirico intitolato Boomsday, del 2007, narrando di un blogger che diventa famoso dopo avere suggerito come risolvere il fardello economico rappresentato dai pensionati: il governo dovrebbe invogliarli al suicidio appena raggiunti i 70 anni.

Il Covid-19 uccide gli anziani? Pissi pissi: un’ecatombe di pensionati è una manna per le casse dello Stato.

Sui giornali e in televisione, per non parlare della pubblicità, il vecchio è sopportato solo se fa il giovane, se scopa e se sgambetta, altrimenti è meglio emarginarlo. Se poi è malato, c’è solo da augurarsi che crepi in fretta. La gente si vuole divertire e non ha voglia di sentire storie tristi di vecchi con il cancro.

Tutti noi, oggi, fatichiamo a ricordare un’epoca nella quale i vecchi erano considerati una risorsa di saggezza. A Firenze, più o meno al tempo di Dante, il Consiglio degli anziani, un’istituzione governativa costituita da 12 anziani, ritenuti saggi, aveva il potere di legiferare. Più recentemente, forse solo chi ha abitato in contesti rurali si ricorda di qualche nonno a cui era norma chiedere consiglio. Ma sono storie antiche, quasi dimenticate. Molti giovani elettori progressisti pensano che gli anziani siano miopi conservatori, e sarebbe cosa buona e giusta non farli più votare. L’ha detto anche un politico che faceva il comico, ma non s’è mai capito se l’ha detto da politico o da comico (che poi il politicomico ha più settant’anni, e questo non è un dettaglio trascurabile: ci fa capire che le cretinate non hanno età).

Si pensa con orrore al grottesco vitalismo fascista, ma la nostra società è malata terminale di giovanilismo. L’incubo di molte famiglie è avere il nonno con l’Alzheimer dentro casa. Era il 1977, quando un profetico Domenico Modugno cantava: “E il vecchietto dove lo metto? Dove lo metto non si sa. Va a finire che non c’è posto, forse neppure nell’aldilà”.

Il vecchio, per farsi accettare dal circo mediatico, deve far ridere. E anche se lo fa di controvoglia, astutamente può fingere di stare al gioco per dire e fare quello che gli pare e garantirsi un lauto guadagno. È il caso dello scrittore Mauro Corona, che oggi compie settant’anni e ha raccontato così il suo approdo in tv: “Mi hanno chiamato per una puntata e hanno visto che funzionavo. Sa perché? Perché i pagliacci che dicono la verità piacciono e fanno ascolto. In questa Italiota mediocre, calciofila e ferrarista, uno che finalmente si esprime come in osteria ma con educazione fa ascolti”.

Corona accetta il ruolo di pagliaccio che lo vede recitare in coppia con la sua spalla comica “Bianchina” Berlinguer, ma non rinuncia a comportarsi socraticamente come un tafano che punzecchia i suoi lettori. Pochi mesi fa, mentre il lockdown mandava sul lastrico migliaia di famiglie, lui provava a farci riflettere sulla peggiore delle nostre schiavitù: il lavoro dipendente: “Bisogna essere autosufficienti. Se ti fai il mangiare hai tutto: animali, riso, frumento, insalata, verdure, frutta. Diventi invincibile. Lo so che è un’utopia ridicola, e può sembrare patetico. Ma se viene la fame bisogna imparare a sostentarsi, perché i soldi non li mangi”.

La sua vita non è stata semplice: ne ha viste di cotte e di crude e non ne fa mistero. Ha avuto problemi di salute: “Stavo morendo per una brutta polmonite. Attorno al mio capezzale erano accesi ormai anche quattro ceri e le preghiere della nonna Maria, giunta apposta da Erto, restavano l’unica speranza cui affidarsi. Il prete mi aveva dato l’estrema unzione. Sono guarito per miracolo”. Problemi con il padre: “Era violento, mi legava agli alberi e mi faceva bere olio di ricino”. Problemi di alcolismo: “L’angoscia di riprendere il bicchiere mi sta appollaiata sulla spalla come un lugubre corvo. Dall’alcol non si esce, questa è l’unica verità e condanna”. E infine, un lutto che si è impresso nella sua memoria e non andrà mai via, la tragedia del Vajont: “Ricordo un boato indescrivibile, come il rombo di centinaia di aerei che solcano il cielo. Siamo usciti tutti all’aperto, terrorizzati. Era buio pesto. Mia zia Tina, sordomuta, era rimasta in casa, ignara. Toccò a me andare a tirarla via da lì, con la terra che tremava come durante un terremoto”.

Il primo Corona, quello pre-televisivo, me lo immagino come un personaggio dei fumetti, Dinamite Bla, il montanaro che vive sul Cucuzzolo del Misantropo, sopra Paperopoli, e accoglie chiunque si avvicini alla sua capanna con schioppettate del suo archibugio caricato a sale. Per me era l’archetipo dello scrittore solitario, arroccato nella sua tana di Erto e consacrato a Calliope, musa della scrittura. Ora è sceso in mezzo agli uomini e recita la parte del burbero dal cuore grande, ma ogni tanto il Dinamite Bla che è in lui torna a farsi vivo, come quando ha sparacchiato sulla Azzolina, rea di essere troppo appariscente: “Io della ministra non comprendo le labbra rosse, delle labbra improponibili. Un ministro con delle labbra così, bisogna essere seri”.

La sua vocazione alla scrittura è tardiva. Il suo primo libro di racconti, Il volo della martora, è del 1997. Claudio Magris, chiamato a scrivere la prefazione, lo descrive come “uno scrittore scarno e asciutto, e insieme magico nell’essenzialità con cui narra storie fiabesche e insieme di brusca, elementare realtà”. Il successo letterario è arrivato nel 2003, quando Mondadori gli ha pubblicato un nuovo libro di racconti, Nel legno e nella pietra. Da allora, ne ha scritti altri venti, tutti destinati a essere messi in pila nei corridoi delle grandi catene librarie, accanto a Elena Ferrante, Fabio Volo e altri besteselleristi. Io li chiamo i “libri da inciampo”, perché vuoi o non vuoi ci finisci addosso e ti vien voglia di comprarli. È il marketing, bellezza, e tu non puoi farci niente. Ma non sono libri brutti, no. Hanno il fascino delle storie antiche narrate davanti al focolare, storie di vecchi saggi, di boschi, di animali, di montagna, di paesi fantasma. E mi fanno pensare che alla radice di quei libri ci sia un sentimento espresso da Pasolini: “Detesto il mondo moderno, l’industrializzazione e le riforme. L’unica cosa che può contestare globalmente la realtà attuale è il passato”.

Corona si dichiarava di sinistra ma ultimamente è severo nel fustigare i suoi leader. Di Renzi dice che è “un ragazzino viziato”; a Zingaretti voleva muovere delle critiche in televisione e ha accusato la Berlinguer di averlo tacitato. Sulla legittima difesa ha posizioni di destra: “Io ho trovato dei ladri in casa mia. Dei fighetti. E allora ho lanciato, come si dice, una provocazione. Sappiano lorsignori che, se entrano in casa d’altri, rischiano di uscirne coi piedi fuori. Facciamo una legge che dice così. E poi vediamo”. Forse per questo sta simpatico a Salvini che lo cita spesso come il suo scrittore preferito e racconta di avergli proposto di fare il ministro della montagna.

A me sembra che Corona, a un certo punto della vita, abbia deciso di fare il percorso opposto a quello di un grande musicista innamorato della montagna, Giovanni Lindo Ferretti, anche lui prossimo ai 70 (li compirà fra tre anni), che dopo avere scalato le vette della hit parade si è rifugiato sui monti dell’Appenino per dedicarsi all’allevamento dei cavalli e di altri animali. Da Superclassifica Show a dar lo sciò alle galline. Dal comunismo dei CCCP alla venerazione per Papa Ratzinger. Con la gioiosa libertà del contraddirsi, lo scandalo dell’essere con sé e contro di sé.

Questi voltafaccia alla propria storia non devono stupire. Forse è necessario, per prepararci alla morte, diventare gli assassini di noi stessi.

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG