03 Giugno 2022

“L’orrida monotonia degli eventi”. Maupassant, lo scrittore che diventò folle

Trecento racconti, sei romanzi, oltre ad alcuni volumi di viaggio, di versi, di teatro. Una produzione letteraria a dir poco prodigiosa, durata in tutto dieci anni. Sto parlando di Guy de Maupassant (1850-1893). Non era un intellettuale sofisticato, non credeva in nessuna corrente letteraria e accettò di essere inserito nel gruppo dei naturalisti più per amicizia che per convinzione. Scrivere per lui non era una scelta teorica, ma un bisogno istintivo, un’esigenza fisica con un che di primordiale. A trent’anni, raggiunto il successo, sembrava una vera forza della natura. Sfornava migliaia di pagine a un ritmo incredibile, era ricco, famoso e sfogava la sua strabordante energia in un’attività fisica frenetica e disordinata. Vogava lungo la Senna per ore e ore fino a costruirsi muscoli da culturista, era un amante instancabile con signore e signorine della buona società e ancora di più frequentando i bordelli di tutta Parigi, dai più eleganti ai più sordidi e, tanto per non farsi mancare niente, era dedito agli stupefacenti.

L’impressione era che soffrisse di un vitalismo eccessivo e che, per così dire, le energie gli sprizzassero fuori da tutti i pori.

Eppure questa fretta di fare e di dire tutto nascondeva una zona d’ombra, destinata ad allargarsi sempre di più e che è testimoniata dalle parole scritte da Maupassant a una nipote proprio nel periodo del suo massimo fulgore:

«In questo momento sento in maniera acuta l’inutilità di vivere, la sterilità di qualunque sforzo, l’orrida monotonia degli eventi e delle cose, e l’isolamento morale nel quale tutti viviamo».

Dunque, nonostante tutte le apparenze, questa specie di gigante amante delle donne e dell’allegria e autore di capolavori come Bel Amì, Una vita, Pier e Jean era un colosso d’argilla che aveva dentro di sé un essere tormentato, angosciato, ossessionato dalle paure. Una prova, splendida e disperata nello stesso tempo, di questo aspetto oscuro è il bellissimo racconto L’Horlà, scritto nel 1887.

All’inizio della storia il protagonista ci rende partecipi della sua felicità in una magnifica mattinata di maggio, ma poi, giorno dopo giorno, il racconto diventa un implacabile diario della discesa verso la follia, personificata dal suo Horlà, questo strano essere invisibile che si insinua nella sua anima fino a possederla del tutto.

«Un brivido mi colse immediatamente, non un brivido di freddo, ma uno strano brivido d’angoscia».

Le paure del protagonista sono quelle che, prima o poi, proviamo anche noi: il buio, la notte, la morte, l’essere spiato o seguito. Lui non riesce a vederla questa strana creatura, ma la sente continuamente aggirarsi intorno a sé. A un certo punto lancia un’occhiata allo specchio e non riesce a vedere il proprio riflesso. Poi scorge se stesso sullo sfondo dell’immagine, in mezzo a una nebbia, che a poco a poco si dirada finché il protagonista riesce a vedersi per intero e, riferendosi a quella sorta di velo, grida: «L’avevo visto!». Alla fine il protagonista dà fuoco alla propria casa con l’intento di ammazzare il suo Horlà, ma dimentica di avvisare i servitori che vengono divorati dalle fiamme insieme all’edificio. Quando si rende conto che il demone è ancora vivo, il giovane conclude il racconto dicendoci che sarà costretto a uccidersi.

Tecnicamente il termine “Horlà” è un neologismo, per alcuni legato al termine dialettale normanno “horsain” (straniero), per altri sarebbe un nome composto da “hors là”, “fuori” e “qui”. In genere viene tradotto come “l’estraneo”.  Ma non vale la pena stare a perdere tempo con questioni lessicali. Quello che conta veramente sono le domande che Maupassant pone, a se stesso e a noi, attraverso questo breve racconto: Chi è o che cosa è l’Horlà? Da dove arriva? È una presenza esterna oppure l’abbiamo dentro di noi? È un essere soprannaturale?

«Da dove provengono quegli influssi misteriosi che cambiano in scoramento il nostro buonumore e la nostra serenità in angoscia? Si direbbe che l’aria, l’aria invisibile, sia piena di inconoscibili Forze, di cui subiamo la misteriosa vicinanza». 

L’Horlà rientra a pieno titolo nella categoria dei racconti fantastici, del mistero e dell’orrore, ma più giusto sarebbe classificarlo come un racconto profetico, perché con queste pagine dedicate a un individuo sull’orlo della pazzia l’autore sapeva di profetizzare la propria follia e il proprio tentato suicidio. Maupassant soffriva di un’affezione sifilitica del sistema nervoso, che fino al 1890 restò localizzata, manifestandosi con terribili emicranie, insonnia, incubi, ma che poi si diffuse nel cervello conducendolo alla follia. Nel gennaio del 1892 Maupassant tentò il suicidio, poi fu condotto a Parigi e rinchiuso nel manicomio di un famoso medico dell’epoca, dove trascorse diciotto mesi camminando a quattro zampe e leccando i muri con la lingua, prima di spegnersi senza che la sua mente fosse risalita dalle tenebre in cui era sprofondata. L’Horlà invece è sempre vivo e vegeto tra di noi perché come ha scritto Maupassant:

«Siamo così fragili, così disarmati, così ignoranti, così piccoli, noi, su questo granello di fango che gira, diluito in una goccia di acqua».

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