«Si sa che a Roma il sole fa il suo mestiere tutto l’anno, senza ridursi a un biscotto giallo immerso in un cielo di caffelatte» (Massimo Gramellini).
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Massimo Gramellini resta uno dei casi più emblematici – qualcuno direbbe “da manuale” – di attività giornalistica iniziata nello sport, proseguita nella cronaca politica e nella corrispondenza di guerra per il quotidiano La Stampa, poi nella rubrica di posta Cuori allo Specchio del suo supplemento settimanale di cui era direttore, per approdare a quello che sarebbe divenuto l’appuntamento principe del quotidiano torinese, il celebre Buongiorno, corsivo in prima pagina di circa ventotto righe a commento moralistico di un fatto della giornata precedente.
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Sorvoliamo sugli incarichi direttivi assunti nell’ambito del quotidiano torinese, se non per ricordare che fecero da trampolino per la sua regolare partecipazione al noto programma della Rai Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio, dove in mezzo ai vari pretesti di segno culturale si influenzava in modo palese e interessato la politica commerciale delle librerie di catena, indicando quali prodotti editoriali andavano sovra-approvvigionati e sovra-esposti per indurre i lettori all’acquisto, e – di conseguenza – quali titoli andavano resi ai magazzini per farli uscire dal mercato.
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Benché nel 2017 sia passato alla concorrenza milanese con una rubrica chiamata Il Caffè, una derivazione sbiadita in cui l’autore non fa che peggiorare le sue performance, il Massimo Gramellini memorabile resta quello dei Buongiorno su La Stampa, un’epopea elzeviristica durata diciotto anni e rimasta impressa in quell’ampia platea di lettori che è abituata a giudicare i fatti con gli strumenti semplici del metro, della squadra e del compasso. I Buongiorno di Massimo Gramellini, infatti, sono svolti in una forma canonica rigorosa: un riquadro rettangolare in taglio basso contenente un testo diviso in due colonne, composto di due paragrafi che si proporzionano in lunghezze diverse, ma possono anche essere uguali. Più spesso, il primo paragrafo supera il secondo nella proporzione di tre quarti/un quarto. Talvolta, il secondo paragrafo si riduce a due o tre righe, e in qualche raro caso sparisce in favore di un testo indiviso. Naturalmente, il rigore formale dei Buongiorno si estende anche alla resa concettuale dei contenuti, che s’impronta a una generalizzazione semplificante delle situazioni raccontate, le quali vengono prima riconfigurate, poi “rimontate” e rappresentate in una chiave moralistica ben orientata, con parole e punteggiatura studiate e calibrate, al fine di spacciarne un’interpretazione autentica. Un’operazione in cui conoscere i reali dettagli di sostanza – che sarebbe il compito etico del giornalista – diventa del tutto superfluo, perché il suo unico scopo è ottenere un effetto seducente sul lettore.
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«Non è più il tempo degli esecutori, questo, ma dei creatori. Alla vita pubblica, forse anche a tante vite private, servirebbe un gesto di rottura, un cambio di abitudini, una mossa del cavallo in grado di restituire significato alla parola futuro».
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Come si vede, uno dei punti di forza del moralismo gramelliniano è l’uso di parole d’ordine. Se lo confrontiamo con quello del famoso omologo Michele Serra, che da tempo immemorabile dispensa giudizi nella rubrica L’amaca sul quotidiano La Repubblica, vediamo una differenza sostanziale fra i due tipi di esercizi. Quello di Michele Serra riproduce l’attitudine passiva di chi osserva – appunto – da un’amaca, che è strumento atto a riposarsi e a dormire, e giudica la situazione osservata senza impegnarsi, senza offrire esempi di rettitudine morale o formule salvifiche, ma limitandosi a valutazioni deprecative su ciò che non funziona o è contrario ai princìpi dell’essere equi, sobri, etici e politicamente corretti. Un atteggiamento tipico della “medietà di sinistra”, che usa spesso il distacco e l’ironia dolente di chi si ritiene in posizione più elevata rispetto al lettore.
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L’esercizio moralistico di Massimo Gramellini, invece, mostra una furba attitudine attiva, con un insieme di strumenti che vogliono suscitare identificazione e consenso nel comune sentire di chi legge: «Ma a me che, come tanti, comincio ogni giornata con pensieri di rabbia, rassegnazione e inadeguatezza, la sua storia continuerà a insegnare che con l’amore si può fare tutto e che tutto, nella vita, va fatto con amore». Ecco servito il moralismo su misura, che attrae il lettore grazie a un esercizio mimetico semplice ma sofisticato, svolto in due fasi: a) deprecare, o elogiare, le situazioni e le persone soggette a giudizio, attraverso un’ironia non sprezzante o distante, ma che al contrario suscita empatia; b) esprimere fiducia nella capacità dell’uomo di realizzare il bene, attraverso formule salvifiche rassicuranti, codificate e collaudate in anni di pratica.
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«Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene? Tantissimo, e non essere soli a farlo aiuta. Tantissimo». Ecco le parole d’ordine che vincono, con lo scandire della punteggiatura. Ciò che ne risulta è un abile moralismo di tipo onnicomprensivo, seducente, che parla in modo ecumenico alla diffusa medietà del sentire. Una medietà che viene rigorosamente calibrata e riprodotta senza sbavature. Un susseguirsi di formule semplici ma suggestive, comprensibili a tutti, che possono essere accolte dai lettori di diversa cultura e orientamento. Che vengano espressi sulla stampa o nel salotto televisivo, gli esercizi gramelliniani hanno la tipicità della buona predica edificante che sostiene cause e argomentazioni nobili e scontate, come un sacerdote pronuncia l’omelia.
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«Un insopportabile eccesso di moralismo sabaudo mi induce a deprecare che una rappresentante delle istituzioni abbia appena sfilato in costume da bagno sulle passerelle milanesi dell’alta moda».
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Posto che la famiglia dell’autore è romagnola (da cui il tipico cognome) e col sabaudismo ha poco da spartire, sappiamo che nel Buongiorno l’aderenza all’oggettività dei fatti non ha alcuna importanza, perché quel che conta è l’efficacia delle tecniche argomentative improntate alla “doppia azione”: deprecare severamente, da un lato, ma esprimere fiducia nell’inclinazione al bene e all’onestà, dall’altro; usare citazioni colte, ma annacquarle in un registro che sappia essere accattivante e popolare; postulare che il mondo è bello, ma a dispetto delle inevitabili brutture che possono martoriarlo. Naturalmente, accanto alla doppia azione restano fermi alcuni orientamenti univoci che permeano lo spettro argomentativo: ad esempio, il decantare l’amore come unico antidoto all’emergere del male, come unica medicina contro le avversità della vita, e l’idea che la sfera femminile sia solo portatrice di bellezza. Temi esemplari che possono definirsi portanti, come veicolo di un’amplissima base di gradimento da parte dei lettori.
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«Eros non visita l’amato, ma l’amante. È l’amante a essere posseduto dall’energia che trasforma le larve in uomini e gli uomini in dei. È l’amante che desidera, soffre, sublima. In una parola: ama. Ah, se avessi letto il Simposio con più attenzione al ginnasio. Ma forse non lo avrei capito. Ora invece so. So che la felicità non consiste nell’essere amati. Consiste nell’amare. Senza condizioni, nemmeno quella di essere ricambiati. Buon san Valentino».
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Qui lo schema operativo diventa paradigma. Al punto che, rivelatosi vincente nel giornalismo-opinionismo, viene riproposto da Gramellini in chiave narrativa nel suo primo romanzo, L’ultima riga delle favole (Longanesi 2010). Il protagonista è un uomo che crede poco in se stesso e subisce la vita, più che viverla. Un giorno, dopo un’aggressione sul molo, rischia di annegare e si risveglia in un’altra realtà, alle “Terme dell’anima”, dove inizia un percorso iniziatico-simbolico che lo condurrà a vincere le sue paure, a guardarsi dentro, a scoprire il proprio talento e a trovare l’amore, prima dentro sé e poi verso quella che si rivelerà la sua anima gemella. Una storia talmente canonica da risultare un’imitazione del famoso romanzo L’alchimista di Paulo Coelho (pubblicato in Italia nel 1995 da Bompiani), di cui Gramellini ha voluto ricalcare le orme, con l’intenzione di ripercorrere in chiave adulta il ruolo delle fiabe e offrire al lettore il modo di riflettere sull’essenza del vivere, di capirsi, di scindersi, analizzarsi e riunirsi.
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«Aveva imparato da qualche parte che quando un sogno ti resta incollato addosso per molto tempo significa che non è più un’illusione, ma un segnale che ti sta indicando la tua missione».
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Una prova narrativa che miscela idee e situazioni che possono adattarsi a tutti, analogamente alla tecnica dei famosi Buongiorno, quindi in grado di catturare molti tipi di lettore. Un romanzo che vorrebbe situarsi tra la filosofia e la spiritualità, pieno di aforismi incastonati ad arte nel tessuto narrativo, ma che fallisce nettamente nel tentativo di farsi “romanzo di formazione”, per scadere in una costruzione imitativa di luoghi comuni e buoni sentimenti, raccolti dalle fonti più disparate.
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«Le disse che l’amore muore per strangolamento, ogni volta che Io soffoca Noi.
Le disse che l’amore muore di stenti, ogni volta che Io dirotta tutto il nutrimento su di sé e si dimentica di Noi.
Le disse che l’amore muore di noia, ogni volta che Io si concentra soltanto sulle emozioni e non coltiva progetti per Noi».
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Ecco il moralismo ispirato e buonista, semplice e diretto, ricopiato da vecchie suggestioni di stampo new age, espresso da personaggi senza personalità che sembrano proferire oracoli. «La persona giusta è un premio, non un regalo. Quando le forze dell’universo sembrano cospirare contro di noi, non lo fanno per dissuaderci dall’obiettivo, ma per renderci consapevoli della sua importanza». Un Paulo Coelho in fotocopia, pieno di passaggi prevedibili e largamente sperimentati da oltre un ventennio.
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Naturalmente il ferro andava battuto, così la casuale conversazione di Gramellini in un ufficio editoriale ha dato lo sprone al romanzo successivo pubblicato da Longanesi, Fai bei sogni (2012), che andava prodotto senza esitazioni. Dunque, ecco il piccolo Massimo – ovvio alter ego dell’autore – alle prese con un’infanzia infelice perché privata della mamma, morta prematuramente. Per quarant’anni vengono taciute al protagonista le reali circostanze di quella morte, e l’autore le rivela a pagina 186, riportando un articolo giornalistico dell’epoca. Qui c’è poco da dire, se non che l’area di stampa delle pagine è stretta lasciando margini ampi, e la lettura è ovviamente rapida; che la narrazione, facilitata da uno stile fra il giornalistico e il colloquiale, è costellata da una quantità di aforismi sul senso della vita, sull’amore, sulla felicità, sulle illusioni, sulle sconfitte, sulla morte, sulla sofferenza, sulle infatuazioni, sulle canzoni dell’estate, sull’energia vitale, sulla disperazione, sulla fuga, sull’egoismo, sulle rinunce, sui sogni, sulla solitudine, sulle domande, sul viaggio, sulla finzione, sul desiderio, sull’anima.
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«In fondo la mia vita è la storia dei tentativi che ho fatto di tenere i piedi per terra senza smettere di alzare gli occhi al cielo».
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Il tema di partenza è trattato in modo prevedibile e scontato, con l’utilizzo dell’ampia gamma di metafore e riflessioni aforistiche perfezionate nella produzione “buongiornistica” dell’autore. «Mi sono preso una cotta formidabile. Fra fuochi e chitarre, in riva al mare e dentro un sacco a pelo. Perché tutti, una volta nella vita, abbiamo diritto di credere che le canzoni dell’estate siano state scritte apposta per noi». I temi vengono sempre serviti per sedurre, mai per esprimere qualcosa di urgente; l’andamento del racconto si mantiene in superficie, i personaggi restano privi di profondità e il dramma di fondo della storia – quarant’anni di mancanza della madre sublimati nel non conoscere la verità sulla sua morte – viene sveltamente risolto alla fine, in poche pagine. L’immagine della madre defunta rimane sfocata, e il ricordo di lei non prende sostanza.
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«Assunto in un giornale dopo appena un anno di gavetta. E innamorato, finalmente! Mamma, se devo proprio raggiungerti, fa’ che sia ora. Non esisterà mai un momento migliore per morire».
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Superfluo aggiungere che tutto viene restituito alla pagina senza sensibilità e accuratezza, con l’unica urgenza di confezionare un prodotto di grande appeal mediatico e commerciale, grazie al granitico presenzialismo dell’autore sulla stampa e in televisione, dove oggi svolge anche l’attività di conduttore. Per farsene un’idea, e concludere, può essere utile un florilegio di citazioni:
«La felicità non è figlia del mondo, ma del nostro modo di rapportarci a esso. Non dipende dalla ricchezza, dalla salute e neanche dall’affetto di un’altra persona. Dipende solo da noi»
«Ogni ragazzo ha una fuga dentro il cuore e il sistema più sicuro che conosce per scappare da se stesso è invaghirsi di chi non fa per lui»
«Non so se in amore vince chi fugge, ma di sicuro chi perde rimane dov’è: immobile»
«I mostri del cuore si alimentano con l’inazione. Non sono le sconfitte a ingrandirli, ma le rinunce»
«Ancora una volta mi ero illuso che la vita fosse una storia a lieto fine, mentre era soltanto un palloncino gonfiato dai miei sogni e destinato a esplodermi sempre fra le mani»
«Non siamo scimmie evolute ma divinità decadute»
«Non sfuggirà a nessuno che io avanzavo nella giungla dei massimi sistemi agitando dei blandi punti interrogativi, mentre lei impugnava gli esclamativi come daghe»
«Mi guardò in un certo modo. Come ti guarda una donna quando ha deciso di scommettere su di te»
«E la vita? Mi fa paura l’idea di sprecarla. Se la morte è un viaggio, immagino che la vita sia il prezzo del biglietto»
«Pur di non fare i conti con la realtà preferiamo convivere con la finzione, spacciando per autentiche le ricostruzioni taroccate o distorte su cui basiamo la nostra visione del mondo»
«Non difesi il mio sogno, per la semplice ragione che non lo ascoltavo più. I sogni sono radicati nell’anima e la mia era fuori servizio».