Gli dedico due poesie. Dalla raccolta più inafferrabile di Giorgio Caproni, e forse di tutta la poesia italiana del secolo passato. Il conte di Kevenhüller (1986), quella specie di libretto infernale che si eleva intorno alla caccia di “una feroce Bestia di colore cenericcio moscato quasi in nero”, come recita l’Avviso, pubblicato a mo’ di frontespizio, del “14 luglio 1792”. La prima è questa: “Fermi! Tanto/ non farete mai centro.// La Bestia che cercate voi,/ voi ci siete dentro”. La seconda è questa: “Mi piacciono i colpi a vuoto./ I soli che infallibilmente/ centrino ciò ch’enfaticamente/ viene chiamato l’Ignoto”. Questa non riesco a leggerla, davanti al pubblico, riunito in folla al Museo civico di Rimini, durante una calda serata di settembre.
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La Bestia che ti rode dentro, il vuoto intorno, l’ignoto: tutto questo – in una mistura salutare – mi pare sancisca il carisma di Massimo Fini, uno per cui la vita è un azzardo e all’improvviso, alzandosi dalla melma del mondo, sa scrivere, “non siamo che l’incubo di qualcuno che un giorno si sveglierà”.
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Certo, c’è l’antimoderno, il ribelle, il “perdente di successo”, l’uomo che tramortisce il culto dell’Occidente a trazione yankee (“nonostante si definisca in buona fede è fondamentalista, integralista, totalitario… si crede il Bene e opera eternamente, in una sorta di eterogenesi, il Male”) e il mito del Sessantotto (“molto presto la carica libertaria fu sopraffatta dall’altra faccia del ’68: il fanatismo, l’intolleranza, il conformismo di senso contrario, la violenza stupida, lo stile fascistoide”), lo spietato polemista. Ma c’è ben altro. Lo scrittore. Che ha la perizia retorica di Seneca, lo scempio di un ardito moralista francese, gli abissi di un romanziere russo sull’orlo della cospirazione (“dispotica, dura, anaffettiva, completamente priva di capacità autocritica, che si esprimeva per ordini perentori, quasi sempre arbitrari o cervellotici, che non potevano essere in alcun modo discussi”, così descrive, con stile vitreo, la madre, russa, Zinaide Tubiasz).
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Predare la perdizione, prendersi per i capelli, stare lì dove è il bramito della vertigine e il suo vigore. Di Massimo Fini mi colpisce la pelle, diafana, le dita aristocratiche. Un uomo di spietata pietà. Mi parla di Federico Fellini (“diciamo che non era una persona simpatica”), di Pier Paolo Pasolini (“lavoravo per L’Europeo, era un uomo grande e che non si dava peso, era dominato da una possente attrazione verso la morte”), di Rudolf Nureyev (“il carisma… fatale… poi, odiava il pubblico e questo me lo rendeva amico”), gli ricordo il suo riuscito ritratto di Giuseppe Berto (“ipocondriaco, per tutta la vita è stato un malato immaginario, convinto, in ogni occasione, di avere il cancro… questo bellissimo uomo”). Di ogni cosa, senza clamori, censisce la luce, dal gorgo dell’ombra.
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A volte sembra che una parola detta male possa sfregiargli il viso. Massimo Fini, a cena, narra, con pudore epico, la finale di Coppa dei Campioni del 1962. Finì 5 a 3 per il Benfica di Eusebio, ma Fini esalta il genio calcistico di Ferenc Puskás, che fece i tre gol, superbi e inutili ai fini, del Real Madrid. Segue l’elogio di Andrés Iniesta e quello di Ruud van Nistelrooij. Quando Giorgio Grassi, improvvisamente, gli propone un ruolo da dirigente ‘onorario’ del Rimini FC, Fini si ritira. “Non posso. Ho soltanto una fede calcistica. Per il Torino”.
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Qualcuno, poco prima, gli ha chiesto un commento su Papa Francesco. “Una specie di Rutelli in abito talare”. La battuta fa esplodere la sala. Oggi leggo della visita di Bono Vox, che non è il ministro di uno stato caraibico, ma il cantante degli U2, dal Papa. “Abbiamo discusso di micro e macro, dei cambiamenti che devono avvenire a livello locale, e di come dobbiamo rivedere la bestia selvaggia che è il capitalismo, che non è immorale ma amorale, e richiede il nostro impegno”. Questa è la dichiarazione di Bono rimbalzata dall’Ansa, catodicamente inutile. Che sia Bono, non proprio una Madre Teresa di Calcutta, tra i musicisti più ricchi del pianeta, a farci la ramanzina sul capitalismo “bestia selvaggia” strappa un ghigno. Perché dal Papa va Bono e non una buonanima qualsiasi? Ci andasse Massimo Fini. Sarebbe più utile. Da Una vita: “Sono sempre stato affascinato dai mondi ‘borderline’, poveracci, accattoni, clochard, barboni, alcolisti, piccola malavita, omosessuali fino a che sono stati costretti a vivere nelle catacombe (dopo sono diventati insopportabili). Insomma il mondo dei ‘relitti dell’esistenza’, i frequentatori dei ‘bar della rabbia’ di una bella canzone di Alessandro Mannarino… Penso che un pizzico di verità, se mai esiste, o comunque di umanità si trovi più facilmente nel mondo della miseria, del dolore e dell’emarginazione che nei luoghi di lusso o, più borghesemente, all’Ikea o negli outlet dove compunte famigliole vanno a consumare le loro domeniche”.
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In una nota di Ragazzo, libro dal nitore stupefacente, Massimo Fini scrive: “A volte ho la sensazione, quasi fisica, di essere vicinissimo alla Verità, a sapere finalmente qual è il senso del tutto. Non per via logica, naturalmente, ma intuitiva. Solo un niente, un velo sottilissimo (come il platonico velo di Maya), mi separa dalla Scoperta e basterebbe un ultimo, e sia pur tremendo, sforzo di concentrazione per squarciarlo. Ma sento, intuisco, che se ciò mai avvenisse morirei nello stesso istante. E mi ritraggo inorridito”. Proprio come se la verità fosse una bestia – la tocchi – ti morde.
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Fragile e feroce, insieme alla segretaria, Nadia, dal fascino schivo, Massimo Fini sembra un monaco orientale, a fugare le orde della Storia. Quando si toglie il cappellino con la scritta “Barcellona”, anche la notte si disarma – la purezza è sul fondo, dopo aver setacciato il dolore. (d.b.)