
Morale o moralista? David Foster Wallace, il Dostoevskij americano
Politica culturale
La corsa, succede spesso, comincia a ritroso. L’ultimo numero di “Others” (July, 1919) è pubblicato “For Emanuel Carnevali”. L’editoriale di William Carlos Williams – tra i più potenti poeti del secolo scorso: amatissimo da Cristina Campo, è recentemente tornato nei nostri lidi con una antologia stampata da Bompiani, A un discepolo solitario – s’intitola Gloria! ed è un glorioso congedo. “Emanuel Carnevali, il poeta nero, l’uomo vuoto, la New York che non esiste, la fine di ‘Others’”. Così attacca WCW.
In quel numero, Carnevali pubblica una poesia – Serenade – e traduce un paio di racconti di Giovanni Papini. Il giornale ha sedi a Chicago, New York, St. Louis, ma WCW decide di chiuderlo: “Non c’è niente da disprezzare, ora, se non un animale nocivo: ‘Others’”. Cosa è successo? Che Emanuel ‘Em’ Carnevali (di cui l’editore Readerforblind ha rimesso in circolo alcuni testi come L’ultimo maledetto), il poeta dell’eterna giovinezza e dell’immensa malattia, ha mostrato agli avveniristi di “Others”, avventisti del nuovo mondo poetico, che sono vecchi, decrepiti, crepati. Ha sfidato a duello William Carlos Williams, e il grande poeta ha avuto il coraggio di cedere, di chiudere (che del passato, autunnale, si faccia falò, vituperio di fiamme). “Gesù, Gesù, salva Carnevali per me. Ha appena incominciato a disintegrarsi”. Che vuol dire? Che “Others”, rifugio per poeti matti, impubblicabili – “In Francia si diventa matti oppure ci si leva dalla testa l’arte. In questo paese ci si rifugia in ‘Others’” – è diventato una tana di topi: “E ora, per Dio, vieni tu con il ventre incollato alla schiena e ci fai vedere quello che siamo, dei topi”. Gli altri, l’alterità della lirica americana, sono diventati come tutti: ordine ben distribuito, burocrazia lirica, lava istruita in dighe. Nel numero precedente, Carnevali aveva firmato un folgorante, programmatico servizio su Rimbaud, “l’Avvento della Giovinezza”.
Ci sono epoche in cui un anno ne contiene dieci, a volte cento e tutto ha figura di falena, crisalide-acciarino. Prima che “Others”, improvvisamente, per effetto rimbaudiano di Carnevali, si scoprì vecchia, era la rivista ‘alternativa’ della poesia americana. Nata dopo altre testate, inesorabilmente ingessate – Poetry e The Little Review, ad esempio – “Others” si presentava come l’altra faccia della lirica, A Magazine of the New Verse, campeggiava sotto la testata. Ideata da Alfred Kreymborg, poeta, scacchista – giocò un paio di volte, perdendo, obviously, contro José Capablanca – e ‘agitatore culturale’, “Others” aveva sede a Grantwood, New Jersey (per poi spostarsi a New York), costava 15 cent a copia, partì con trecento abbonati. Vi collaboravano, tra gli altri, Marianne Moore e Carl Sandburg, Conrad Aiken e Marcel Duchamp, Wallace Stevens, T.S. Eliot e l’onnipresente Ezra Pound; William Carlos Williams faceva la parte del leone. Il magazine si rivolgeva “alle persone che hanno interesse verso la giovane poesia americana”, aveva una grafica senza orpelli, di estenuante rigore. Il primo numero, uscito nel luglio del 1915, non recava alcun editoriale ma, secondo lo stile della rivista, proponeva una micidiale staffilata di poesie e poeti. Tra i collaboratori più frequenti, spiccavano parecchie donne: Amy Lowell, Djuna Barnes, Mina Loy, Lola Ridge. Fin dal primo numero, però, la figura più affascinante che transita per “Others” è Mary Carolyn Davies, a cui è dato l’onore di inaugurare il carosello poetico con Songs of a Girl, poemetto di ipnotica facilità.
Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley. Tuttavia, la vita universitaria non la conquista e poco dopo sbarca a New York, decisa a vivere di scrittura. Pare sia tenace, indomita: entra nei club di Greenwich, conosce Marianne Moore e Duchamp, è adorata da Kreymborg che ne fa una delle collaboratrici più assidue di “Others”. I suoi primi libri in versi, The Drums on our Street: A Book of War Poems (1918), Youth Riding (1919) e The Skyline Trail: A Book of Western Verse (1924), vengono paragonati a quelli di Edna St. Vincent Millay. I versi per bambini sono accolti in importanti antologie del tempo; nel 1921 pubblica il suo unico romanzo, The Husband Test.
Qualcosa, però, resta evidentemente irrisolto: un tarlo, la tenia del disgusto, un’affabile afflizione. Nel 1918 divorzia dal marito, Leland Davis; negli anni Venti torna a Portland dove, tra l’altro, diventa presidente della Northwest Poetry Society. Alcune rare fotografie del 1936 la vedono di fianco a un cavallo, in un bosco; è magra, minuta, sorride. Il ritorno a New York è devastante. Mary Carloyn Davies scompare dalla vita pubblica quasi subito. Non pubblica più, non frequenta più nessuno. Alcuni amici hanno detto di una malattia, che la inibiva a spostarsi; hanno detto della cupa indigenza, di una solitudine che si fa palude ma non abbastanza pena.
Tutti, infine, mollano Mary Carolyn Davies, la promessa della poesia americana. E lei, infine, infinitamente, scomparve. “Non esistono tracce della sua morte”, si limitano a scrivere i reperti biografici. La University of Oregon custodisce, in due scatole, i “Mary Carolyn Davies papers”: le poesie, una manciata di racconti manoscritti, una serie di atti unici, qualche fotografia, i taccuini, la smilza corrispondenza con gli editori.
Pare avesse tre fratelli, pare che qualcuno l’abbia messa al mondo, creatura di evanescenze e notti striate. Nessuno ha riscattato il corpo di Mary Carolyn Davies, in pochi ne ricordano il corpus. Estremità francescana, putredine della più pura povertà, veglia sulla cenere. Pare sia morta nel 1940, Mary Carolyn Davies: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile.
Così muore un poeta: si fa invisibile, cioè eterno.
***
Mary Carolyn Davies
Canti di ragazza
I
Forse,
mentre piantava l’Eden
a Dio è caduto per errore un seme
nella tessitura prossima al Tempo:
è sbocciato
in quest’ora?
II
Abbiamo preso in mano la Vita, fissandola con curiosità
senza sapere se prenderla per un giocattolo o meno.
Era bella da vedere, sembrava un petardo rosso
eravamo certi della sua scia luminosa.
L’abbiamo gettata mentre la miccia stava bruciando…
III
Morirò anch’io, fiore, tra poco
non essere così orgoglioso.
IV
Il sole muore
solo
su un’isola
nella baia.
Chiudete gli occhi, papaveri
non voglio che vediate la morte
siete troppo giovani!
V
Il sole cade
come la goccia di sangue
di un qualche eroe.
Noi
che amiamo il dolore
ne gioiamo.
*
Canti di ragazza
(versione pubblicata su “Others”, n.1, July 2015)
I
Il mattino è in piedi, alla finestra, guarda nella mia camera e dice:
“Cosa vuoi fare di me?
Sono il tuo schiavo
ti porterò ciò che desideri:
dimmi cosa vuoi che faccia
e lo farò
dimmi cosa vuoi
e sarà tuo”.
Un improvviso fruscio di lacrime ha scosso il cuore, e ho detto:
“Oh, mattino, non voglio nulla.
C’è una cosa che voglio. Moltissimo.
Ma non so dirti con esattezza. Forse morire – forse vivere –”
II
Non ho paura del mio cuore.
Non ho paura di ciò che accade
nei luoghi dove si appaltano le ombre.
Non ho paura – vieni, entra
e guarda ovunque.
Non ho paura – cos’è quello?
Un posto pericoloso su cui passeggiare – il cuore.
Soprattutto – il proprio.
III
Tornare giovani
abbastanza giovani per ridere di ciò di cui devi piangere.
IV
Io siamo in tre; la ragazzina che ero, la ragazza che sono, la donna che sarò. Ci consultiamo spesso riguardo al tessuto con cui vogliamo tessere il sogno che stiamo facendo.
A volte dicono che sogno ad occhi aperti,
ignorano che stiamo tenendo consiglio, la bambina, la ragazza che sono, la donna che sto diventando.
Ci sono molte cose che ignoro.
V
Ero sola con me stessa, l’altra sera
con il me che nessuno conosce
il mio me, la persona più gentile che abbia mai incontrato.
(Direi, la più bella!)
Ero sola con me
avevamo molto di cui parlare
non ci eravamo mai incrociati prima
se non per scorci, per sbagli
(a volte, volevamo incontrarci
altre, speravamo di non incontrarci mai)
Abbiamo avuto anni per discutere e anni
seguente di cui sparlare
e poi c’erano altre cose – noi, la vita –
e tutte quelle cose di cui parlare.
Così, ci siamo seduti, in silenzio, senza dire una parola.
VI
Un piccolo bacio trema sulle mie labbra
non esce di casa, ha paura.
“Vai, vai”, gli dico, ma piange e non si muove.
Un piccolo bacio è irrequieto sulle mie labbra
“Devo andare”, sibila, “devo andare”
“Aspetta ancora un attimo”, gli dico, “aspetta” –
VII
Lo sguardo di uno sconosciuto
a volte di avvicina a me.
Un colore,
un suono,
e sento il tuo respiro;
i tuoi occhi mi toccano.
La stanza oscura in cui muore il giorno,
e io che piango per te;
un uccello che grida contro chi gli ruba il nido,
un fiore appena nato, che trema –
e il mio cuore batte di gioia per te –
per te, che non conosco
che so soltanto amare.
VIII
Tra poco morirò anch’io, fiore,
non essere così orgoglioso –
*
La porta
La più piccola porta spalanco,
la porta interiore.
Ora il mio cuore non ha più nulla
da nascondere.
La più lontana porta – la serratura
è vinta, e puoi capirlo anche tu:
la sala è una fortezza fragile.
Che tu sia buono.
*
Canto d’amore
Un muro ciclopico mi protegge:
è costruito con le parole che mi hai sussurrato.
Spade mi tengono al sicuro:
sono i baci delle tue labbra.
Davanti a me, uno scudo a guardia del male:
è l’ombra delle tue braccia tra me e il pericolo.
I desideri della mente sanno il tuo nome
i bianchi sentieri del cuore
sbocciano in te.
Il grido del mio corpo incompiuto
è consacrato a te.
Il sangue ritma il tuo nome
incessante, spietato,
il tuo nome, il tuo nome.
*
Claustrale
Questa notte la piccola suora è morta.
Le mani posate
sul petto; l’ultimo sole ha tentato
di baciare la sua treccia;
hanno ricavato una tomba
dove il fiume s’incassa, intimidito.
L’anima della piccola suora, ritratta
nel pudore, è andata in silenzio
da suo fratello Cristo
sotto l’Albero della Vita;
il Suo viso si è contratto in un sospiro
quando la vide piangere.
Ha posato le mani sulle sue
le ha benedette: “Cieco
chi ti ha fatto questo” – sorrise
anche il pianto va arguito
“D’altronde, nessuno si è accorto che Maria
cresceva un figlio in grembo”.
*
Prima che cominci aprile
Il giorno che precede aprile
sola, sola,
ho camminato nei boschi
mi sono seduta su una pietra.
La pietra sembrava un leggio
e cantavano gli uccelli.
Il ritmo è opera di Dio:
io metto le parole.
*
Stelle impaurite
Le stelle sono come noi bambini
che non vogliamo crescere.
Di notte, le piccole stelle impaurite
si raccolgono nella Via Lattea –
I coraggiosi stanno sempre da soli!
*
La fata solitaria
Una goccia di rugiada brilla
ancora sull’erba, il sole non
l’ha consumata: è una lacrima caduta
nella notte, il resto del pianto
della più solitaria fata.
*
L’abito
Sotto gli sguardi curiosi dei morti
per varcare i cieli (oh, i frutti immaturi
i peccati inconfessabili!)
vestivo
un abito tessuto delle tue promesse.
Potrei essere sola, spaventata
ma ogni donna si accorgerà di me.
*
Paura dei morti
Pietà di noi: dobbiamo temere
i terribili morti.
Queste creature di carne e ossa
che ora ascendono al loro trono.
Da lì giudicano, senza giudizio, ciò che facciamo.
Non abbiamo altra legge che quella che hanno
forgiato per noi: i loro desideri sono i nostri
e con il loro metro distinguiamo il bene dal male.
Siamo liberi e in catene, ci ricordano.
Pietà di noi; dobbiamo temere
i terribili morti.
*
Canto notturno per un bimbo
Una volta, una donna, a Betlemme
ha avuto un bimbo, come me:
una volta, ha fissato la sua testa
insonne, l’ha tenuta sulle ginocchia
e con i giovani annebbiati occhi
ha pregato per lui.
Ogni vita è fatta di lotta e di dolore
ogni vita ha un portagioie:
che su quei sentieri interrotti
possa camminare, fiero,
così lei, ieri come oggi,
per il figlio prega.
Che il mio bambino, mentre gli anni
precipitano veloci, non abbia bisogno
di altre mani: tienilo con te
libero dal male, al sicuro dal dolore.
Mary Carolyn Davies