14 Agosto 2023

Martin Walser. Ovvero: sulla morte di uno scrittore che ha rifiutato di mettere il cervello all’ammasso, estromesso dagli scaffali delle librerie italiane

Quando muore uno scrittore – non tutti – dispiace. Quando muore un grande scrittore dispiace molto. Quando muore un genio per molti anni porteremo il lutto e contempleremo il vuoto irrimediabile. Quando muore un grande scrittore di cui nessuno o ben pochi si sono accorti, al dispiacere si aggiunge l’irritazione per la comparsa di articoli ora scimuniti, ora anodini. E questi sono fatti. Meno sicurezza c’è, per quanto mi riguarda, a stabilire se Martin Walser – nato a Wasserburg am Bodensee e morto a Nußdorf-Überlingen il 26 luglio scorso – sia stato un grande scrittore, un genio oppure semplicemente uno scrittore.

Il mio amico Francesco Coppellotti, che di Walser è stato traduttore ufficiale e sodale negli ultimi vent’anni, non ha dubbi: Martin Walser fu, anzi è un genio. E ciò con buona pace di quanti, tra i pochissimi in Italia accortisi di lui, ne hanno rilevato soltanto gli aspetti che per il solito maggiormente suscitano interesse e polemiche stracche e strasentite: nella fattispecie quella «questione tedesca» che si declina, purtroppo, con olocausto, ma che Walser alla sua volta declina in maniera opposta al nazionalmasochismo dei suoi connazionali.

Sicché la negligenza potrebbe essere almeno in parte fondata: Walser c’entra poco con l’Italia, con la coscienza italiana e altrettanto con il piglio censorio che anche da noi alligna, dacché egli ha concentrato vasta parte della sua attività letteraria a raccontare e commentare la Germania nazionalsocialista e quella degli anni successivi con l’occhio critico e inconsueto di chi, pur non essendo certo “di destra”, anzi, si è sempre rifiutato di mettere il cervello all’ammasso e di alienare da sé l’appartenenza alla Germania letteraria politica e civile, come dimostra quel piccolo grande gioiello, insieme di sociologia filosofia e storia, che è La banalità del bene, la “predica critica” tenuta nel 1998 in occasione del conferimento del premio per la pace dei librai tedeschi, e magistralmente tradotta e curata da Coppellotti.

Va doverosamente aggiunto quanto la mancata ricezione della questione tedesca – che di fatto, ahinoi, è anche europea e di tutto l’Occidente – è un guasto pressoché tutto degli italiani: per un verso sono ostili o almeno refrattari a tutto ciò che proviene dall’estero e non è veicolato dalle corazzate dell’informazione o dai bazzicabarbieri e, per un altro, all’attenzione che si dovrebbe alle voci dissenzienti, intelligentemente dissenzienti davanti alle solfe battute e ribattute.

Ma forse è proprio questa dedizione alla questione nazionale che mi impedisce di offrire una misura sicura di Martin Walser.

La prosa di alcuni dei suoi romanzi più perspicui ed eloquenti, ad esempio Morte di un critico (il caso letterario – e politico – più dirompente del Novecento tedesco) o Una zampillante fontana, appare ostica e persino respingente, troppo allusiva, dissimulativa, elusiva, come composta con inchiostro pronto a svaporare al minimo soffio di vento. Ciò a differenza di altri romanzi con tutt’altro argomento, quali L’istante dell’amore o il corrusco e alato Un uomo che ama – allestimento di uno dei momenti più singolari e fecondi della vita di Goethe, innamoratosi a settanta e tre anni della diciannovenne Ulriche von Levetzow – il cui solo attacco è di quei rari momenti nella letteratura, che ti si impigliano nella memoria da subito:

«Quando la vide, lei lo aveva già visto. Era già rivolta a lui, quando il suo sguardo la colse. Era l’11 luglio 1823 a Marienbad».

Questa caratteristica formale io credo scaturisca proprio dalla cappa oppressiva, dalla «clava morale» (La banalità del bene) costituita da Auschwitz, che perseguita i tedeschi – e gli austriaci – dal 1945 a oggi, e inibisce qualsiasi aperta confessione umana di essere tedeschi, di potere e volere essere tedeschi con orgoglio e fierezza, attitudine la cui sola evocazione scatena biasimi, reprimende, ferocia, ostracismi, ricatti. (Falso, per inciso, è quanto riportato da alcune gazzette ossia che Walser avrebbe ritrattato le sue posizioni).

Cionondimeno la forza umana e letteraria di Walser ha saputo farsi largo in patria con sicura costanza oltre la “nube tossica sopra Berlino”, oltre e contro lo Schuldgefühle il lavaggio del carattere (Schrenk von Notzing docet nell’omonimo libro), per la indubbia altezza di opere le quali, di là dei gusti personali, indubbiamente si impongono quali atti culminanti della letteratura nazionale e altrettanto europea, tantoché in Germania Walser è e si spera sarà ancora a lungo tenuto per la seconda metà del Novecento tra i due o tre massimi scrittori, tra i più decisivi e imprescindibili pensatori. Ciò anche grazie alle pagine espressamente saggistiche, oltreché della Banalità del bene, altrettanto dei Viaggi di Messmer [sic] e di Sulla giustificazione, una tentazione, un’opera quest’ultima meritevole di essere compresa nella grande tradizione moralistica europea.

L’ultimo romanzo pubblicato oramai dieci anni fa esatti, La cavalcata del sangue. Muttersohn, è di quelli sufficienti a incastonare uno scrittore nel Parnaso. Anche qui la prosa di Walser confonde un poco e talora irrita, ma lo sforzo sarà bene e ampiamente ripagato da una storia originalissima a mezzo tra realismo, realismo fantastico, teologia e filosofia, capace di fondare, più delle precedenti imprese, un genere nuovo o almeno una forma nuova e senz’altro tra le più intelligenti degli ultimi decenni sul piano continentale.

Credo che Martin Walser, a prescindere da come scrive (Coppellotti stesso, germanista intelligentissimo e di lunghissimo corso, talora si è trovato in ambasce: ma poi, che resa!) e dai destinatari principali di alcune sue opere, sia uno scrittore pressoché inafferrabile, di quei rarissimi romanzieri da leggere, anche rileggere, e da leggere e rileggere con lentezza e calma se si voglia gustarne il più possibile un’originalità che rivendica le sontuose e immortali Kultur e Zivilisation tedesche, che Walser esprime e incarna, tra l’altro, con il frequente e innamorato utilizzo dell’alemanno – in particolare nella Fontana e nella Cavalcata –, la lingua precedente l’intervento di Martin Luther, quindi non l’Hochdeutsch, espressione d’una delle cifre più eminenti ed essenziali di tutto Walser. Una cifra che può essere condensata con una delle più splendide parole della lingua tedesca: Heimat.

Luca Bistolfi

*

N.B.: Tutti i libri di Martin Walser sono pubblicati, con traduzione e curatela di Francesco Coppellotti, da: SugarCo Edizioni (Morte di un critico, L’istante dell’amore, I viaggi di Messmer, Una zampillante fontana, Un uomo che ama, La cavalcata del sangue), Edizioni di Ar (La banalità del bene) e Edizioni Ariele (Sulla giustificazione, una tentazione). Sono gli unici ad aver accettato Walser, tra le decine cui si rivolse il traduttore.

In un lontano passato Walser trovò ospitalità presso Feltrinelli e Garzanti con altri traduttori: tanto Coppellotti quanto lo stesso Walser ne sconsigliano vivamente la lettura.

Resta oggi da capire se la morte dello scrittore, estromesso dagli scaffali dal 2013, porterà a una sua ripresa. Si spera, ma anche si dubita.

Gruppo MAGOG