09 Settembre 2019

“Martin Eden”, dal romanzo al film. Ovvero: la vita come disillusione e la morte per custodire la propria integrità

“Martin Eden” che nome armonioso, evocante l’armonia di un sogno, la bellezza dell’amore per la vita, così intatta e pura come nella giovinezza. Jack London l’aveva scelto bene questo nome per il suo alter ego, un nome che nell’accostarsi a quello dell’autore creava un’armonia di contrasti profetica: da London all’Eden, ovvero un viaggio d’astrazione. O di concretezza?

Il sogno e l’ideale della cultura, della parola e della letteratura per sgorgare il mondo custodito negli occhi e per distanziarlo raccontandolo; allo stesso tempo la favola dell’uomo di strada che per astuzia e intelligenza raggiunge la scala sociale, conosce l’amore lontano e per questo forte: quasi un romanzo del dopoguerra.

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Il mondo e l’amore: un’illusione? È forse il desiderio di poterlo raggiungere la concretezza, ma il possederlo è evanescenza. Scoprire che non è la persona che si ama, ma l’ideale dietro ad essa, nella rigida prosecuzione della legge dell’evoluzione spenceriana: molto di Schopenhauer in London.

La ricerca dell’autentico come vera essenza della vita per scoprire come già la si possiede per natura e la si perde ricercandola. Il mondo non riconosce la tua vera natura, la tua vera immagine, solo tu puoi proporla, ma in fondo, quando essa viene accolta, scopri che il mondo cerca solo un’idea di te.

La lotta di classe, la riflessione economico sociale non è altro che uno spunto per scorgere la vita come disillusione e perdita d’identità nel ricercarla. Esisterà sempre un capo a cui dover dar conto e se non è un uomo più forte, sarà la vita. Perché non esiste identità reale, neanche nella chiave della prigionia del mondo, l’amore: la grande delusione nella tanto agognata verità. Anche in quella dei filosofi greci che si dedicavano alla speculazione solo grazie ad una società sorretta dagli schiavi. Così il magico ritrovarsi nell’annegare, nel mare: figura biblica e archetipale.

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Il diaframma sempre presente tra film e romanzo in questo Martin Eden 2019 viene leggermente scartato grazie alla geniale riproposizione di un “liberamente ispirato da”. Proprio tale libertà permette una certa aderenza per evocazione, come nella lontananza la presenza. Fin dall’ambiguo nome americano tanto surreale in ambito napoletano o nell’ambientazione d’epoca. Di radici non c’è l’ombra e non si pone il problema. Un bel giovane corpulento e forte incarna bene la giovinezza e il reale possesso della vita nell’identità posseduta, ma non riconosciuta. Così arcadico l’amore, idilliaco, tra fattezze e parole, da racconto per bambini.

Il procedere verso la scoperta della verità di questo Bildungsroman non è un accaduto repentino, ma di certo piomba alle coscienze degli spettatori nel taglio dato da una pistola nascosta in una Bibbia e un suicidio. Sembra che la disillusione proceda dall’amore perduto, ma in realtà avviene dal contatto con la vita e dallo scoprirsi nella bolla di un ideale: proiettare se stesso in qualcosa che non gli appartiene, sebbene se ne senta parzialmente identificato. La conoscenza di ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, è qui il reale scarto.

La presa di coscienza è data dalla scelta dell’amore come comodità, strada facile e forse mondo prossimo. Un fallimento che corrisponde allo stesso abbandono dell’amore per la vita così muovente verso la comprensione, la scrittura e il racconto. In Martin non accade che l’amore venga, ma solo che si perda, fino a diventare egli stesso solo occhi che riflettono.

“Adesso tutti mi cercate. Ma prima scrivevo le stesse cose e non mi voleva nessuno. Erano le stesse cose!” dice Martin in una conferenza, divenuto ormai famoso scrittore.

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La clessidra dell’animo che si svuota, distillato nel romanzo tra le pagine e incorniciato nell’immersione nel mare, il film lo codifica nella centrale visione dell’ultimo confronto con la donna che lo aveva avviato all’amore e all’ideale della parola. In lui era accaduto che l’amore lo avesse reso cosciente di un altro amore: quello per la vita da ritrarre. Eppure nel bisogno di raccontarla quella vita nasceva l’identità e si perdeva.

Non crudele, non isterico, non malato il distacco, semplicemente razionale: “per me la vita ha perso di significato”. E nella piccola vendetta che si muove sottocutanea al faccia a faccia, la scena più bella: Martin vede se stesso per strada, giovane e di ritorno dal suo primo appuntamento d’amore con i primi suoi due libri in mano, dono della fanciulla. Lo segue e sarà lui a condurlo al mare.

Al di là di alcune strutture filmiche geniali, come l’inserimento di pellicole storiche a renderlo un’ispirazione dal realismo, o scene di metacinema in cui lo spettatore crede di guardare se stesso nel guardare la proiezione, o ancora scenari di alta poeticità non separata dalla concretezza in dialoghi di confronto sulla ricerca della bellezza, il film ha una forza autonoma e consistente data dalla tenerezza. La tenerezza del ritratto del nucleo genuino di un essere umano che le strutture del mondo erodono. Eppure tale nucleo, solido nesso di esistenza, resta intatto fino alla fine e si rifrange in altre anime, conducendo il protagonista alla scelta di non piegarsi alla legge della vita. La scelta della morte è scelta di custodire l’integrità individuale prima che la legge dell’evoluzione la pieghi per sempre. In questo senso è molto attualizzato il concetto di individualismo e la visione filosofica del vivere.

Forse darebbe parole a Pasolini, forse anche a Visconti. A noi riempie di domande.

Paola Tricomi

Gruppo MAGOG