
“Lui Dio non lo voleva, lo negava con forza”. Gli incontri tra Banine e Nikos Kazantzakis
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Il 28 ottobre del 1863 Mark Twain decise di giocare alto, sporco. Un mese dopo avrebbe compiuto trent’anni, era nato in Florida, si chiamava Samuel Clemens ed era stato allevato – orfano di padre – dal Mississippi. Nel 1859 aveva preso la licenza di pilota di battello: il fiume gli affibbiò un nomignolo, “Mark Twain”, appunto, “marca due”, che in gergo segnala la profondità delle acque – e forse di una intelligenza. Si era già fatto le ossa in una tipografia, va detto: gli piaceva baloccare con le parole. Consueti vagabondaggi l’avevano portato in Nevada. Al battello preferì la penna: fu accolto nella redazione dell’“Enterprise”. Twain era bravo, rapido, ironico. Quel giorno, il 28 ottobre del 1863, scrisse un pezzo formidabile, “A Bloody Massacre near Carson”: raccontava di un tizio che aveva frodato una compagnia idrica di San Francisco e poi, preda di un raptus, aveva ammazzato la moglie e i nove figli, scalpandoli. Della notizia, esplosiva, parlarono tutti. Nonostante la dose ironica, atta a squalificarla, tutti la presero per vera. Twain ammise, il giorno dopo, che la notizia era una bufala. I lettori dell’“Enterprise” s’incattivirono: Twain mollò il giornale, si trasferì in California, al seguito dei cercatori d’oro, conobbe Bret Harte. Seguirà un viaggio – intinto nella polemica – in Italia, e altri, memorabili, viaggi. Mark Twain continuò a praticare il giornalismo, di cui gli restarono impresse tre cose: lo strapotere dei giornalisti (indipendentemente dal loro talento), la collusione dei giornali coi poteri forti, l’idiozia generalizzata dei lettori, che leggono tracannando qualsiasi bugia. D’altronde, pure lui era un bugiardo. Quando, nel 1873, Mark Twain approdò ad Hartford, Connecticut, era un uomo sposato, aveva pubblicato il primo romanzo (“The Gilded Age”, con Charles Dudley Warner), si apprestava a raccontare le avventure di Tom Sawyer. Aveva voglia di fama. Durante una conferenza pubblica, intitolata “License of the Press”, confessò i suoi errori giornalistici, dichiarò che i giornali non sono altro che un groviglio di bugie. (d.b.)
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La stampa ha schernito la religione fino al punto di rendere lo scherno popolare. Ha difeso criminali condannati, in modo pretestuoso e parziale, fino al punto di plasmare un Senato Americano incapace di determinare cosa sia un reato e dove risieda la propria dignità; la loro morale è talmente cieca e hanno sottovalutato così tanto la disonestà, che ora abbiamo un Congresso che stabilisce i salari per i propri membri e poi deliberatamente ruba denaro pubblico per aumentarli e addirittura si sente mortificato e si stupisce quando qualcuno si preoccupa di una questione così effimera.
Incolpo la stampa di tutto questo abominio, credo che in ogni caso sia principalmente sua responsabilità. È una stampa libera, più che libera, una stampa autorizzata a pronunciare qualsiasi infamia su figure pubbliche o privati cittadini, o a rappresentare qualsiasi vergognosa posizione preferisca. Non ha limiti di sorta. L’opinione pubblica, che dovrebbe contenerla, si è abbassata al suo stesso livello. Ci sono leggi atte alla protezione della stampa, ma nessuna che veramente protegga la gente dalla stampa. Una denuncia per calunnia non fa che portare il querelante di fronte a un’immensa corte di giornali che lo giudicano ancor prima che lo faccia la legge e lo offendono e lo ridicolizzano senza un briciolo di pietà.
Mi sembra che la crescita dei giornali sia direttamente proporzionale alla decadenza della nostra morale. Più giornali ci sono e più i nostri principi vengono meno. Dove c’è una testata che fa bene, ce ne sono cinquanta che fanno danni. Dobbiamo pensare all’apertura di un giornale in una cittadina virtuosa come una calamità.
La differenza di toni e di condotta fra i giornali di oggi e quelli di trenta o quarant’anni fa è davvero incredibile e davvero triste. A quei tempi, il giornale era il paladino del bene e della morale; si occupava coscienziosamente della verità. Oggi non è così. L’altro giorno un rispettabile quotidiano di New York ha pubblicato un editoriale in difesa del peculato, giustificandolo sulla base del fatto che i membri del Congresso non sono pagati abbastanza, come se si trattasse di una valida motivazione per rubare. L’editoriale in questione ha dato una nuova e convincente prospettiva sul problema, che sicuramente avrà persuaso molti lettori un po’ duri di comprendonio. Il “sarà così, se l’hai letto sul giornale” è diventato un proverbio pregno di sarcasmo. In poche parole, questa è l’opinione della popolazione colta su questo medium di menzogne. Tuttavia, il problema maggiore è che i più ignoranti – ossia la stragrande maggioranza dei cittadini americani e del mondo – credono e vengono plasmati e convinti da ciò che leggono sui giornali, ed è qui che le menzogne fanno disastri.
Questo abominevole potere, l’opinione pubblica di una nazione, in America è in mano a un’orda di gretti, sempliciotti che se la suonano e se la cantano, che non sono buoni nemmeno per scavare i fossi o cucire le scarpe e si sono infilati nel giornalismo mentre stavano per finire dritti dritti sotto un ponte. Personalmente conosco centinaia di giornalisti e l’opinione della maggior parte di loro non vale un centesimo in privato; ma quando scrivono sulla carta stampata, è il giornale che parla (il minuscolo scrivano non è visibile), e le loro affermazioni agitano la comunità come i tuoni della profezia.
Conosco la propensione dei giornalisti alla menzogna per esperienza personale. Una volta, sulla costa ovest, ho iniziato io stesso un peculiare e pittoresco esperimento di menzogna, e tutt’ora non si è estinto. Ogni volta in cui sento di una pioggia di rane e sangue in California, o di un serpente marino ritrovato in qualche deserto, o di una grotta affrescata con diamanti e smeraldi (immancabilmente scoperta da un pellerossa morto immediatamente prima di finire di dire dove si trovasse), mi dico che io ho creato questo mostro; io devo rispondere di questa bugia. E l’abitudine è tutto: ancora adesso sono responsabile di mentire tutte le volte che non controllo ciò che dico.
Una volta, in Michigan, ho rifiutato un invito a cena con un editore che era ubriaco, allora lui ha scritto sul suo giornale che la mia conferenza era profana, indecente e che istigava la sregolatezza. Eppure, non vi aveva nemmeno assistito. Forse l’avrebbe trovata edificante.
In un’altra occasione, un giornale di Detroit sosteneva che avessi il vizio di picchiare mia moglie e che persistevo in questo sollazzo; anche se l’avevo storpiata a vita, lei non era in grado di starsene alla larga quando rincasavo ed ero insolitamente agitato. Ora, forse metà di tutto ciò era vero. Forse avrei dovuto citare il giornalista per calunnia, ma ho imparato la lezione. Tutti i giornali in America, con pochissime lodevoli eccezioni, avrebbero scoperto, per loro godimento, che ero un marito violento e ne avrebbero ricavato una discreta notizia. Oh, io stesso ho pubblicato calunnie spietate sugli altri – e mi avrebbero dovuto mettere alla forca per questo – sebbene mi fossi detto che non avrei dovuto.
Ma non continuerò con queste osservazioni. Ho una vaga idea generale: è stata concessa troppa libertà alla stampa in questo paese, e grazie all’assenza di sani limiti, i giornali sono diventati, in larga parte, una maledizione per questa nazione che probabilmente dannerà la repubblica.
Mark Twain
*Il testo – leggibile in originale qui – è stato tradotto da Giacomo Zamagni