Furono soltanto due anni, 1919 e 1920, a scuola li si trascura quasi sempre; si preferisce concentrare le esigue ore di storia sulla Grande Guerra e il Fascismo, lasciando da parte quel che avvenne in mezzo. Due anni che devono essere sembrati venti. Genericamente si parla di Biennio Rosso, due anni di scioperi dovuti a squilibri economici a cui il governo non riusciva a far fronte; ma questo è molto riduttivo. Potremmo dire che in quei due anni si è giocato il destino dell’Italia e si è manifestata una spaccatura sociale, già presente prima, che il Fascismo ha messo a tacere per tutto il ventennio, senza però mai risolverla. Una spaccatura che, in un certo senso, ancora ci portiamo dietro.
La Prima Guerra Mondiale, anziché unire il popolo italiano e portare a compimento la tanto agognata unità, ne evidenziò le gravi fratture, le incolmabili distanze fra le masse di operai e contadini, e la borghesia. Nonostante uscisse vittoriosa, conclusa la guerra l’Italia si ritrovò sull’orlo del baratro economico: divorata dalla crescente inflazione, fallimento di imprese, disoccupazione, difficoltà per i reduci di tornare alla vita civile; e ad affrontare queste molteplici sfide, una classe politica vecchia e inadeguata. In più, il diffuso sentimento di aver preso parte a una guerra inutile che non aveva portato nessun beneficio al paese, e il miraggio della rivoluzione russa che aveva portato al governo i bolscevichi. Gli anni che seguirono la fine del conflitto, il ’19 e il ’20, sono anni turbolenti, quando D’Annunzio compì l’impresa fiumana e Benito Mussolini fondò i Fasci di Combattimento a Milano. Le città erano in piena agitazione, socialisti contro fascisti, scioperi repressi a fucilate dal regio esercito. In quel biennio si giocò davvero il destino dell’Italia. La rivoluzione, come in Russia, sembrava veramente sul punto di esplodere.
Possiamo trovare tutto sui libri di storia, anche se solitamente non si spingono in approfondimenti; oppure possiamo leggere un romanzo finora rimasto nel buio, per quelle strane leggi editoriali tutte italiane che fanno sparire dalla circolazione libri dall’evidente valore storico e letterario; libri che alla loro uscita hanno ottenuto un incredibile successo di pubblico e critica, fino ad essere tradotti in più lingue. Il romanzo Pietro e Paolo, scritto da Mario Sobrero e pubblicato per la prima volta nel 1924, è tornato oggi in libreria con l’editore Reader for Blind(il quale ha il merito di riproporre opere di grande valore non soltanto perché “belle da leggere”, ma soprattutto per la loro capacità di fotografare un momento storico, catturare un sentimento in un dato momento della storia del nostro paese, come già hanno fatto, ad esempio, con Dante Arfelli e Claudio Marabini). Mario Sobrero il Biennio Rosso lo ha vissuto e riportato sulla pagina in modo magistrale, perché se i libri di storia ci danno conto delle date, delle connessioni, dello svolgersi dei fatti, Sobrero mette nero su bianco i sentimenti che incendiarono l’Italia in quei due anni. Sobrero era ben consapevole di quanto fosse complessa e decisiva la partita che il paese stava giocando.
Il romanzo segue la vicenda famigliare degli Artero, in particolare del borghese Davide, padre di Paolo, schierato con i nazionalisti e poi con i fascisti, e zio di Pietro, fin da subito in prima linea nelle masse scioperanti che inseguono la rivoluzione comunista. I volti dei due giovani, Pietro e Paolo, come la famosa fortezza che della Russia incarna grandezza e contraddizioni, compongono la stessa medaglia. Sono entrambi il risultato dello sfacelo ideologico che si abbatté su tutta l’Europa, e che tanto infiammò i cuori più giovani, fino a ridurli in cenere. Ma ancora più interessante è la spaccatura generazionale, fra padri e figli, incarnata nel rapporto tra il protagonista Davide, ex magistrato che cerca di completare il suo libro sulle origini morali del diritto, e il figlio Paolo e il nipote Pietro. Davide, vista l’età e la condizione di borghese, si trova suo malgrado a far parte di quella generazione guardata con odio da entrambi i fronti: dai socialisti, per ovvie ragioni di classe e per aver ingannato tanti giovani fino a condurli alla morte in una guerra che anziché migliorarne la condizione ne ha aggravato la miseria; dai nazionalisti, per aver svenduto la vittoria, per la totale mancanza di spina dorale dei politicanti. Questo rappresenta soprattutto il romanzo, di come una generazione di parolai, demagoghi e padri padroni e generali hanno finito col forgiare una generazione di ragazzi capaci di vedere nella violenza l’unica via percorribile per realizzare il loro futuro.
«L’origine mia e dei miei compagni non conta. Ci hanno fatti la trincea e la piazza. Oggi siamo i migliori».