
“Eccezionale sarebbe l’eleganza di svanire soli al vertice”. Caro Giacomo Rossi Precerutti…
Libri
Vincenzo Gambardella
Era carne, ossa, parola, colore e contraddizione. Un poeta che volle essere maledetto e visse la sua vita come un campo di battaglia: contro tutto e contro tutti. Questa è la storia della guerra e della pace di un uomo che finì divorato dai suoi demoni: quelli di un animale mitologico e quelli della persona che vi si celava dietro. Fondatore dell’infrarealismo; scrittore con una sensibilità unica; odiato dalla critica e dall’establishment culturale; padre affettuoso e divertente; alcolista bellicoso con un trascorso problematico con le donne; ragazzo con una straordinaria competenza di poesia, letteratura, filosofia e cinema; immortalato come Ulises Lima dal suo amico di sempre, Roberto Bolaño, nei Detective Selvaggi, considerato da alcuni critici come l’ultimo grande romanzo latinoamericano; viaggiatore vagabondo espulso da un kibbuz in Israele; cronista in versi dei bassifondi e dei paradisi artificiali del Distretto Federale; autodefinitosi “terrorista culturale” che sfidava persino le automobili e morì proprio investito, un 10 di gennaio del 1998, 25 anni fa.
Un solo nome non avrebbe ricoperto tutte le sue sfumature. Ne ebbe tre. Nacque come José Alfredo Zendajas, nel Distretto Federale, il giorno di Natale del 1953, ma sì ribattezzò Mario Santiago Papasquiaro perché in Messico, diceva, poteva esserci un unico José Alfredo; sarebbe stato ricordato come l’Ulises Lima di Bolaño. Papasquiaro e l’autore cileno si conobbero nel Café La Habana nel 1975 e cominciarono a frequentare il laboratorio di poesia della Casa del Lago, dove si preparava un movimento di giovani poeti segnati dalla sbornia del ‘68, quella rivoluzione che poteva essere e non fu. Questi raccolsero il testimone e fondarono l’infrarealismo, un’avanguardia ispirata, in particolare, dai situazionisti francesi. Scrivevano di sesso e periferia, amore e morte, droghe e Rock&Roll. Le loro avventure, inizialmente marginali, furono ritratte nei Detective Salvaggi (1998, Anagrama), che avrebbe portato un rinnovato interesse verso gli infras. Papasquiaro non riuscì a vederlo stampato.
“Diciamo che ci sono molti Mario. Ci fece scoprire un altro modo di fare poesia: era un vero erudito, di una gentilezza speciale. I primi poeti beat li scoprii grazie alle sue traduzioni. Poteva essere molto gentile, ma anche molto scontroso. L’alcol e le droghe gli procurarono scarsa capacità di gestire le emozioni e poteva diventare violento e pesante. Per tutta la vita ebbe pessimi rapporti con le donne. Anche se non posso dire mi abbia aggredito, non gli perdono il fatto di aver distrutto la vita di molte. Sono dell’idea che continueremo ad amare il Mario meraviglioso, ma non possiamo negare questi chiaroscuri. Credo che in molte delle sue poesie potesse arrivare all’eccellenza quasi senza sforzarsi”.
A parlare è Guadalupe Pita Ochoa, poeta, ex di Papasquiaro e una delle fondatrici dell’infrarealismo. Il movimento visse i suoi anni di fermento tra il 1975 e il 1977. Nel ’77, Bruno Montané, un altro dei fondatori, decise di tentare la fortuna a Barcellona. Lo seguirono Bolaño e Papasquiaro. Lì, il messicano trascorse qualche tempo, scrisse poesia, se ne andò in Francia e scaricò casse nei barconi che attraccavano a Port-Vendres, vendemmiò, vagabondò per le strade bohémien di Parigi e finì su un aereo diretto a Gerusalemme, viaggi raccontati da Bolaño nel suo romanzo. Papasquiaro sapeva che in Israele studiava Claudia Kerik, poetessa argentina che conobbe nella Casa del Lago. Lei appare nella dedica dei Consigli di 1 discepolo di Marx a 1 fanatico di Heidegger, la sua poesia più ricordata.
Papasquiaro aveva un’ossessione per lei non corrisposta. Una notte, quando Kerik era con il compagno di allora, Norman Sverdlin, nella “stanzetta” di studenti dove viveva, sentì colpi fortissimi alla porta. Era Papasquiario. Non poteva crederci. Il poeta trascorse alcuni mesi in Israele, inizialmente con loro, poi in un kubbuz, una comune socialista nella quale Kerik riuscì a farsi accettare, fino a essere espulso poco dopo per non rispettare le regole. “Il soggiorno di Mario a Gerusalemme fu molto difficile. Io ero innamorata di Norman, non di lui. Divenne impossibile: non lavorava, non parlava la lingua, non aveva un soldo”. Un giorno, lei lo vide chiedere l’elemosina alla porta della università dove studiava. Non riusciva a tirare avanti.
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Ritorno al DF
Papasquiaro tornò sulla strada. Prima di fare ritorno in Messico, fu nottambulo Vienna, ma la mancanza di denaro, la stanchezza o il cuore spezzato alla fine diressero la sua bussola verso il DF. Era il 1979. Insieme a Ochoa, José Peguero, Rubén Medina, Juan Esteban Harrington e altri poeti rimasti in città, rifondò l’infrarealismo. Lavorò come editore in periodici come El Financiero, come traduttore di sconosciuti autori stranieri o correttore di bozze per libri di testo. Peguero visse un periodo con lui, pertanto: “Era un ragazzo molto caro e molto odiato. Era amorevole, gridava, ronfava, brontolava, scalciava, cercava un modo per farti stare tranquillo. Ma era difficile. Resistevi solo due o tre mesi con lui. Un giorno cominciò a bere e non smise più”.
Nel 1984, Kerik tornò in Messico. Lei e Papasquiaro non avevano parlato in tutti quegli anni. Ma l’ossessione del poeta ritornò. La chiamava di notte, recitandole poesie fino a riempire il nastro della segreteria telefonica. “Fui costretta a cambiare il mio numero di telefono e non seppi null’altro di lui finché un giorno qualcuno mi disse che era morto. Mi sentii molto male. Non ho fatto pace con la figura di Mario finché non morì. Ora non provo più rabbia. Fu un duello, un processo, dovetti far pace con il mio passato”. Con il passare degli anni, Kerik ha cominciato ad apprezzare il suo lavoro. L’anno scorso ha pubblicato un’antologia su Città del Messico, La ciudad de los poemas (Lirio). Ha incluso Papasquiaro.
Papasquiaro scrisse migliaia di versi, la maggior parte abbozzata tra pagine dei libri, sui pacchetti di sigarette, sui tovaglioli o qualsiasi superfice che avesse a portata di mano. In vita pubblicò solo un paio di volumi, alla fine dei suoi giorni: Beso eterno (1994) e Aullido de cisne (1996), entrambi per “Al este del paraìso”, una casa editrice clandestina, di minoranza, che aveva fondato insieme a Marco Lara Klahr. Nemmeno dopo la morte riuscì ad ottenere il riconoscimento che ottenne Bolaño. “Roberto è sempre stato un personaggio autorevole, ma non aveva l’autorità di Mario come poeta, mi stupivano la sua memoria e la sua consapevolezza. Sembrava che sapesse tutto. Ciò che avevi appena scoperto lui lo aveva già letto. La sua poesia era una ricerca costante nella quale includeva le parlate popolari, il calore, il sentimento del quartiere, con una finezza che meraviglia, con la conoscenza di filosofia e poesia. Ma non è consigliabile per nessuno essere un poeta come Mario: prendi fuoco. La combustione interna era tremenda”. Racconta José Peguero.
Dal 1983 al 1987, Papasquiaro ebbe una relazione con Carolina Estrada. Quando si conobbero lei era incinta e lui si fece carico della bambina. Zirahuén, sua figlia, ora ha 39 anni e ricorda con affetto i pomeriggi abbracciata a suo padre ascoltando Love her madly dei Doors. A quell’epoca, lui usava un bastone, a causa di un incidente stradale. “Ballava muovendo il bastone e la testa”, ricorda Zirahuén. Ammette di aver assistito ad alcune “scene violente” tra lui e sua madre quando si stavano separando, e ricorda il tremolio delle sue mani quando la sindrome da astinenza si impossessava di lui, ma soprattutto dice di provare riconoscenza: “Fu il mio mentore, il mio clown personale”.
Con la sua relazione successiva, Rebeca López, ormai defunta, Papasquiaro ebbe altri due figli, Mowgli (33 anni) e Nadja (30). “Mario poteva prendere un libro, iniziare una poesia, lasciarla sospesa, ritrovarla due mesi dopo e continuarla. Vomitava tutto ciò che lo opprimeva, si sfogava”, spiega Mowgli, la quale sostiene che, con loro, Papasquiaro fu sempre “una persona affettuosa e piena di fantasia”. Nadja riesce solo a ricordare la voce di suo padre mentre ride e recita poesie: “Credo che sia morto giovane perché viveva intensamente, e questo lo portò a vivere troppe cose, a scrivere come un pazzo. Era molto espressivo. Ma non mi piace la questione idealizzata e romantica della sua personalità, aveva anche dei lati oscuri e una di queste era l’alcol. Era qualcosa che non notavo quando ero piccola: mi raccontano che era ubriaco per quasi tutto il tempo. Ci furono due episodi, che più tardi scoprii essere dovuti all’alcol, in cui non ho riconosciuto mio padre. Fu il motivo per cui smisi di vivere con lui”.
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“Era una specie di sciamano”
Chiaroscuro è una parola che si ripete nel discorso a proposito di Papasquiaro. Nel suo caso, separare opera e vita risulta impossibile. L’una non può essere compresa senza l’altra. Fu una persona smodata, in tutti i suoi aspetti, nel bene e nel male. “Era molto saggio, una saggezza potente, come una specie di sciamano, una cosa profonda che è inspiegabile, come la magia. Mi insegnò etica ed estetica. Aveva un proprio sistema di moralità. Ma c’erano l’autodistruzione e il suicidio nel suo sistema. Vederlo crollare e diventare ciò che diventò alla fine fu piuttosto terribile”, ricorda Juan Esteban Harrington. “Era molto sensibile; se moriva un poeta, come Ginsberg, piangeva per un’ora intera”, aggiunge Peguero.
“Ho sempre pensato che i suoi atteggiamenti avessero a che fare con quegli esseri mistici che ti mettono alla prova, come fanno i maestri orientali”, riflette il giornalista Raúl Silva, amico di Papasquiaro. Fu la sua abitudine a scrivere sui libri che gli prestavano a diffonderne l’opera. Restano ancora centinaia di poesie inedite nascoste nelle biblioteche dei suoi amici. “Fa parte dei pochi poeti che continuano a scrivere anche dopo la morte. Mario ha seminato la sua poesia ai quattro venti, scriveva come camminava, spargendo versi ovunque. È una sorta di poesia itinerante che si trova nelle biblioteche di gente in Francia, a Barcellona, a Città del Messico, a Morelia, a Michoacán… era uno scrittore vagabondo”, dice Jorge Hernández, Piel Divina, un altro degli infras originari.
Ci sono stati diversi tentativi di raccogliere i suoi scritti sparsi. Bruno Montané, cofondatore di Ediciones Sin Fin, lo ha fatto in un libro pubblicato nel 2012, Sueño sin fin. “Abbiamo iniziato il progetto con Roberto [Bolaño]: fare un montaggio e recuperare le poesie, i frammenti, quasi dei motti, che scriveva sulle pagine bianche, sulle copertine dei libri che gli prestavi, che poi dovevi strappargli via con la forza”, afferma. Nel 2008, un decennio dopo la sua morte, il Fondo de Cultura Económica ha pubblicato Jeta de santo, forse la sua raccolta più completa, curata dall’ ex compagna Rebeca López e da Mario Raúl Guzmán. Le poche opere pubblicate in vita fecero sì che il suo prestigio come autore underground crescesse dopo la morte, anche se continuò a essere ripudiato da figure di spicco della letteratura messicana. E la leggenda del poeta che usciva dalle pagine di un romanzo per vagare lungo il Distretto Federale e scrivere versi anche sotto la doccia ebbe il sopravvento.
Alejandro Santos Cid
*originariamente pubblicato su “El Paìs”, traduzione di Nicola Barbato e Mattia Tarantino