04 Settembre 2020

Segnatevi questo nome: Mario Levrero. Ha scritto un libro anomalo e meraviglioso. Per leggerlo bisogna compiere una “capriola spirituale”

Mettiamola così: quando sono integrato mi sento disintegrato. Che cosa ci salva, allora? Provatelo a pensare almeno una volta nella vostra vita. Almeno una! Mario Levrero lo fa. Mario Levrero (Montevideo, 1940-2004), stampatevelo bene in testa questo nome. Nel prologo al romanzo Il discorso vuoto (Jaca Book, 2018), dice di aver visto Dio (i libri grandi parlano di Dio). Comunque, vedere Dio implica una relazione mica da niente. Occorre fantasia, avere una lingua propria, un mondo proprio, una mente smaliziata, conoscenza e, forse, un certo metodo. Un metodo che presuppone una visionarietà di scrittura, capace di farci arrivare alla visione finale, che deve reggere, essere forte e convincente, addirittura estrema, ma vera.

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E pensare che mentre lo leggevo, mi dicevo: non scriverò mai di lui. E invece… Perché?… A lui la risposta: “perché è possibile lasciarsi portare dalla vita per poi ritrovarsi al momento giusto nel posto giusto, e questo lasciarsi portare è il modo di essere protagonisti delle proprie azioni – quando si è arrivati a una certa età”. Nessuna scuola di scrittura vi dirà mai questo, vi metterà mai di fronte a questo.

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Che cosa mi piace di Mario Levrero? Il fatto che mentre usa un metodo psicologico o psicanalitico, lo nega, nel farne uso lo nega, considerandolo inefficace, e affermando che ciò che è importante è la vita. È strepitoso Mario Levrero, lo dirò a tutti; è strepitoso il suo sogno ad occhi aperti, di mettere in atto un mondo geometrico di relazioni che egli legge come segnato dalla teoria del quotidiano, del ciò che ci viene imposto, che è fuori e non ci appartiene, pur riflettendosi dentro, dentro le cose, dentro i nostri appartamenti, dentro noi stessi, dentro l’attualità che ci vuole inutili, dipendenti, iperattivi, ansiosi di uscire da ciò che ci condiziona, dal rischio dell’asocialità, schiavi dell’interpretazione psicologica imperversante. L’uomo di Levrero è un inetto, i suoi personaggi fanno parte della vasta schiera di incapaci, di falliti della letteratura mondiale. Dunque l’autore si muove attraverso i rapporti difficili di oggi, segnati dall’incombenza trasbordante dell’informazione, del teorico, dell’effimero, del commerciale, del tecnologico, ridotti a ripetizione di schemi programmati, prefissati, e conseguente attuazione di questi, a cui il nostro scrittore riesce solo ad opporre la sua domanda: sì, ma io chi sono? Nella resistenza e opposizione del suo io, risiede la sua risposta, seppur timida, impacciata, nevrotica, ferita.

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Ripeto: egli fa parte della lunga schiera di psicotici, nevrotici, della letteratura. A questo proposito sono molti i libri che mi vengono in mente, ne cito qualcuno: La coscienza di Zeno di Italo Svevo, Il male oscuro di Giuseppe Berto, La malattia chiamata uomo di Ferdinando Camon, ma potrei andare avanti. Che cosa hanno da spartire queste opere con Il discorso vuoto? Direi la malattia, il fatto che la malattia fisica ha un’origine psicologica, interiore. Colpisce la sensazione che si ha costantemente durante la lettura del libro, e cioè che sia tutto vero, che il racconto-romanzo, in forma di diario, sia proprio la cronaca della vita dello scrittore, e che l’autore nel raccontarsi non frappone nessun filtro fra sé e la pagina. Egli si mette a nudo, col suo corpaccione, la sua deformità (un altro riferimento? I ritratti di Lucian Freud), la sua ipocondria, e sembra sempre di essere davanti all’abbattersi della catastrofe mentale dell’io narrante, che però non accade mai, perché l’inconscio è fatalità, e quindi, così come si presenta, con le sue forze nemiche, così si ritira, sconfitto dalle forze amiche del bene.

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Lui è Mario Levrero (1940-2004); photo Eduardo Abel Gimenez

Dall’inizio alla fine è tutta una confessione, a tratti dolente e disperata, a tratti ironica e cinica. La stessa occasione di tenere un diario ha l’aria di un pretesto: il fatto di scrivere, sotto consiglio di un amico, per sottoporsi a una grafoterapia, in modo da trarre giovamento dall’interpretazione dei propri mali. La conseguenza di ciò, per il lettore, è l’entrata in un labirinto, tutto appare contraddittorio, tutto è insondabile, eppure sappiamo su cosa possiamo fare leva: è il corpo che scrive, è il corpo che parla, che comunica… È solo questione di trovare il punto giusto, compiendo una sorta di capriola spirituale, dice Mario Levrero a pag.138, l’ultima pagina. È bellissima questa sua frase: capriola spirituale, esprime una dinamica e un moto originale dell’animo che mette in atto l’uscita dal male, a rischio del proprio equilibrio; è possibile farlo perché quattro pagine prima lo scrittore ha concluso davvero la sua fatica letteraria dicendo che è ora di cominciare a tornare in se stesso e di abbandonare la via dell’evasione, confidando “nel fatto che, se la colpa è reale, è già stata perdonata da mia madre e da Dio”.

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Ecco, dunque, l’assalto alla vita, la negazione sfrenata al contagio, insomma la capriola spirituale: che l’aspetto terapeutico della scrittura è un discorso vuoto. Viceversa, scriviamo per affidarci a una forma, la scrittura è già preghiera, ha al suo interno una tradizione che arriva fino a noi e che nasce dagli antichi amanuensi, diffondendosi nel tempo con forza incredibile, si afferma superando molti e svariati ostacoli, passando dal “manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire” di Pasolini al qualcosa che è in più, che è superfluo, che ingombra le nostre vite, i nostri cervelli, le nostre anime. Dice bene il commento al romanzo, sul retro di copertina, quando denuncia l’impossibilità di produrre un discorso vuoto. Tutto è più grande di noi, tutto ci supera, l’altrui e la nostra stessa domanda sono più grandi.

Vincenzo Gambardella

Gruppo MAGOG