08 Febbraio 2022

“Solo a quelli come me si chiederà conto nel Giudizio Finale”. Marina Cvetaeva

L’8 febbraio del 1927 Marina Cvetaeva sogna Rilke, è “il mio primo sogno su di lui”. Rilke è morto negli ultimi giorni del ’26, Marina descrive il sogno da Bellevue, Parigi, all’interlocutore prediletto, Boris Pasternak. Eppure, è come se la morte di Rilke abbia comportato una conversione, un incendio: di Pasternak, ormai, la Cvetaeva scopre i tratti diafani e didattici, le virulente astrazioni, lo specchio che cela paludi. “La tua lettera è una risposta burocratica”, gli scrive, prima di attaccare con il sogno. “Una sala. Per terra ci sono lanterne, candelabri con candele, tutto il pavimento ne è coperto. Ho un vestito lungo, devo correre cercando di non inciampare. Danza di candele. Corro in un soffio, senza sfiorare nulla – ci sono molte persone in nero, riconosco R. Steiner (l’ho visto una volta a Praga) e capisco che si tratta di una riunione di iniziati. Mi avvicino a un uomo seduto in una poltrona, un po’ in disparte. Gli getto un’occhiata. E lui, sorridendo: Rainer Maria Rilke… Lascio che finisca di dire qualcosa o, meglio, che finisca di ascoltare qualcosa che qualcuno gli sta dicendo (ricordo chi: una donna anziana con un vestito marrone, esaltata) e lo porto via tenendolo per mano”.

Il sogno – che continua in un’altra scena, vaga, che sancisce la statuaria fragilità di Rilke, i granati della sua preziosa presenza – è in fondo un Emmaus. Una rivelazione che riguarda le scale, i cunicoli, i gradi dell’aldilà, un lume sul risorto. Pare una iniziazione alla morte. Il sogno, in qualche modo, conferma un’antica, terribile percezione della Cvetaeva: che la morte sigilla l’amore, che si può amare pienamente soltanto da dispari, da spaiati, da disgiunti, da mondi paralleli, inavvicinati. “Se esiste la possibilità di un sentimento così tranquillo, impavido, naturale, extracorporeo nei confronti del ‘morto’ – vuol dire che esso esiste, e che anche lì esisterà. E perché la paura? Spaventarsi. Io non mi sono spaventata, ma per la prima volta in tutta la mia vita ho provato pura gioia di un morto”. La morte di uno garantisce immortalità al legame tra i due; come se amare fosse una veglia, fino a sfiancarsi, una teologia di canti, di candele, disposizione allo scisma. Il vivo – Pasternak – non può nulla rispetto al morto, alla sua potenza blu; così tutto ciò che era dedicato a Boris ora è donato a Rainer, è inevitabile, i vivi adornano di blabla le loro cecità, la sfilza di mancanze, il morto chiama: “Una cosa molto importante, Boris… la poesia su te e me – l’inizio di Tentativo di stanza – è poi risultata una poesia su lui e me, ogni verso. Si è verificata una curiosa sostituzione…”.

Per questo, il livido lamento di Pasternak per la morte del maestro – “Hai, in tutta la sua crudezza, un’idea di come io e te siamo diventati orfani?” – irrita la Cvetaeva: Rilke non è mai stato così prossimo come ora che è morto, la sua presenza è esuberante, totale. “Rainer, scrivimi!”, scriveva Marina il 31 dicembre del 1926, nella prima delle sue lettere a Rilke, morto. Le lettere a Rilke, spedite in un qualche aldilà, eversione d’angeli, diventarono un ‘genere’. Nel 1931 Pasternak dedica Il salvacondotto, il suo romanzo autobiografico, a Rilke – “Io non dono i miei ricordi alla memoria di Rilke. Al contrario, sono io stesso ad averli ricevuti da lui in dono” –, e gli scrive una lettera, narrandogli “del ruolo disumano che avete avuto nella mia esistenza”. Nella lettera in cui annuncia il sogno, la Cvetaeva, ritornando in sé, redige la morte di Rilke: “Ho saputo qualcosa della sua morte: è morto di mattina, mi hanno scritto – tranquillo, sembra, senza parlare, dopo aver sospirato tre volte, come ignaro di morire… L’ultimo libro che ha letto è Paul Valéry”. E poi, “ricorda il mio sogno”, perché “La morte non esiste. La morte non riguarda noi…”: questo lo scrive Pasternak, in un crogiolo di deviazioni e di rincorse, molti anni dopo, nel Dottor Zivago.

Nel 1932, sulle riviste dell’emigrazione russa, Marina Cvetaeva pubblica alcuni stralci di un libro pensato e mai compiuto, “L’arte alla luce della coscienza”. È un lungo trattato di poetica, che non teme di essere asistematico, umorale, perfino fuori tempo, provocatoriamente inutile. Vi si vedono le tracce argentee di Rilke, nel sottosuolo verbale. Il testo, di cui si propongono in calce certi frammenti, è stato tradotto da Giovanna Spendel per l’Almanacco dello Specchio 4 (Mondadori, 1975).

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In che consiste dunque la differenza dell’opera d’arte dall’opera di natura, la differenza tra un poema e un albero? In niente. Ma, per vie sconosciute di fatica e di miracolo, tuttavia c’è. E che ci sia pure!

Ossia, l’artista è la terra partoriente che tutto partorisce. Per la gloria di Dio? E i ragni? (anche nelle loro opere c’è arte). Non saprei in gloria di chi, e penso che non è questioni di gloria, ma di forza. È santa la natura? No. È forse peccaminosa? No. Ma se l’opera d’arte è anche un’opera della natura, perché dunque ci poniamo questo problema per un poema, mentre per un albero non ci interessa? Al limite ne abbiamo compassione: poveretto, cresce storto.

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La volontà senza l’ispirazione è, nella creazione artistica, come un tronco appena appuntito. Di quercia. Un poeta del genere farebbe meglio a darsi alla carriera militare.

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Per un poeta solo importante, l’arte è sempre fine a se stessa, ossia pura finzione, senza la quale egli non potrebbe vivere, e della quale non deve rispondere. Per un poeta grande e sublime essa è invece sempre un mezzo. Egli stesso è un mezzo nelle mani di qualcuno, come del resto anche il poeta solo importante nelle mani di qualcun altro. Tutta la differenza, a parte quella fondamentale delle mani, sta nel grado di presa di coscienza da parte del poeta di questa sua dipendenza. Più un poeta è spiritualmente importante, ossia più in alto stanno le mani che lo tengono, tanto più forte è la sua consapevolezza di tale dipendenza (asservimento). Se Goethe non avesse saputo che c’era qualcosa di più alto al di sopra di lui e della sua opera, non avrebbe mai scritto gli ultimi versi del secondo Faust. Ciò è concesso solo all’innocente – o all’onnisciente.

In verità, tutto il lavoro del poeta porta all’adempimento fisico di un (non suo) compito spirituale. E similmente tutta la volontà del poeta è diretta verso una volontà operante di realizzazione. (Non esiste una volontà creativa individuale).

Verso l’attuazione fisica di qualcosa già esistente spiritualmente (di eterno) e verso l’attuazione spirituale (spiritualizzazione) di qualcosa che non esiste ancora spiritualmente, ma vorrebbe esistere, a prescindere dalle qualità del volente. Verso l’attuazione di uno spirito desideroso di un corpo (di idee) e verso la spiritualizzazione dei corpi desiderosi di un’anima (di forse primordiali). La parola è per le idee corpo, per le forze primordiali è anima.

Ogni poeta, più o meno, è al servizio di idee o di forze primordiali. Può esserlo (come ho già detto) solo di idee. Può esserlo sia di idee che di forze primordiali. O solo di forze primordiali. Ma in quest’ultimo caso egli è come il primo cielo inferiore di qualcuno: delle stesse forze primordiali, delle stesse passioni. Attraverso la forza primordiale della parola, unica di tutte le forze primordiali a essere generata con un senso, cioè dotata di uno spirito. È il cielo inferiore che sta vicino alla terra.

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Se vuoi servire a Dio o agli uomini, se insomma vuoi renderti utile, fare opere di bene, arruolati nell’Esercito della Salvezza o dove ti pare, ma lascia perdere le poesie. Se invece il tuo dono del canto è insopprimibile, non illuderti nella speranza di essere utile, anche se hai scritto 150.000.000 [poema di Vladimir Majakovskij, ndr]. Solo il tuo dono del canto ha servito te e tu domani servirai a esso, cioè ne sarai rigettato mille e mille volte di terre e di cieli al di là dell’obbiettivo prefisso.

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Essere uomo è più importante, perché più necessario. Il medico e il prete sono più necessari del poeta, perché loro, e non noi, stanno accanto al letto di morte. Il medico e il prete sono umanamente più importanti, tutti gli altri lo sono socialmente. (Se sia importante la società stessa è un altro problema, avrò il diritto di parlarne soltanto da un’isola). A eccezione dei parassiti nelle loro diverse specie, tutti gli altri sono più importanti di noi.

E sapendo questo, dopo averne scritto in piena facoltà mentale e con chiara memoria, affermo in non meno piena facoltà mentale e con non meno chiara memoria che non cambierei la mia causa con nessun’altra. E più lo so e meno creo, dunque non mi aspetto indulgenza. Solo a quelli come me si chiederà conto della coscienza nel Giudizio Finale. Ma se dovesse esistere un Giudizio Finale della parola, davanti a esso io sarò pura.

Marina Cvetaeva

Gruppo MAGOG