24 Febbraio 2022

Come sopravvivere a tutto questo? Il romanzo di Marina Cvetaeva

Nata in Libano nel 1937, da famiglia maronita, Vénus Khoury-Ghata è tra i poeti più riconosciuti in Francia, dove vive da cinquant’anni. Nel 2011 ha ricevuto il Goncourt per la poesia: l’ultimo libro, Eloignez-vous de ma fenêtre, è uscito lo scorso anno, per Mercure de France, che pubblica gran parte dei suoi lavori. Vénus Khoury-Ghata non è ignota in Italia: nel 2014 Il Ponte del Sale ha pubblicato Ortiche; nel 2017 Guanda ha tradotto Gli ultimi giorni di Mandel’štam, il romanzo dedicato al grande poeta russo morto nei Gulag. Autrice di diversi romanzi, Vénus Khoury-Ghata è affascinata, in particolare, dalla poesia russa, o meglio, da una poesia spinta fin nelle fauci della Storia, fino all’estremo tormento, in una ribellione ostinata e lampeggiante. In questo senso, Marina Tsvétaïéva, mourir à Elabouga, pubblicato da Mercure de France nel 2019, finora inedito in Italia, è il suo romanzo più potente, intriso di un lirismo severo; una indagine, cristallizzata nella spietatezza, nella vita della Cvetaeva, “martire dell’era staliniana”. Ne traduciamo alcune pagine che vanno lette, semmai, avendo sotto gli occhi l’epistolario di Marina, curato da Serena Vitale per Adelphi. “Da anni sono sola (deserto umano)”, scrive nel 1920, Marina, ancora in Russia, prima dei vasti vagabondaggi in Europa, prima di Pasternak, di Rilke, di Stalin; ogni poesia, ogni lettera, sempre, è già un congedo, una genia di addii.

***

Attraverso il lucernario vedi la collina, i cipressi, il campo che saggiavi al crepuscolo per raccogliere le patate dimenticate dai contadini. Ne hai mangiato le bucce, conservi la polpa per Mur, che ha sempre fame.

Così magro, il figlio tuo, che ne puoi scrutare le ossa, sotto un velo di pelle.

La collina diventa blu, poi scompare, nella sera; il cipresso piantato su una strada che s’insinua nel niente; un campo che la neve ha disfatto in oceano di fango. Il lucernario è il tuo solo legame con il mondo: non hai più parole per il dolore, non hai amore, non cucini più.

Il campo sostituisce la pagina bianca – solchi, linee, aratri alfabetici –, il cipresso la matita.

Il proprietario della soffitta su cui si apre il lucernario è morto in prigione; le sedie sono di Tartari che non parlano la tua lingua. Hai sistemato la corda. Sulla trave, il nodo è perfetto.

“Ha fatto bene a impiccarsi”, dirà Mur, che si rifiuta di partecipare al tuo funerale, a Elabuga, a due passi dalla trama di solchi dove hai scavato, con le mani, cercando le patate, congelate.

“Ladra”, “Ladra bastarda”, ti ha urlato dietro, ieri, il padrone del campo. La patata nascosta nella schiena: gli hai chiesto scusa, senza restituirgli il maltolto. Quando gli hai detto dell’accaduto, Mur ha scosso le spalle. Mur ha capito: gli hai detto che non potevi sopportare più, che ti saresti impiccata.

*

Non ti impiccheresti se tuo figlio non avesse fame, se avessi un tavolo su cui scrivere, se ti giungessero notizie di tuo marito e di Alia, accusati di spionaggio a favore del nemico. Arrestati un anno fa. Fucilati, è probabile.

Non ti impiccheresti se facesse meno freddo, se fossi scesa a Thcipostol invece di spingerti fino a Elabuga, nel camion che trasportava gli scrittori in fuga dai tedeschi. Non ti saresti impiccata se Boris Pasternak non avesse messo brutalmente fine a una corrispondenza durata cinque anni per un incontro di cinque minuti a Mosca; se Rilke avesse risposto, ancora e ancora, alle tue lettere infiammate; se non avessi estenuato il giovane critico Aleksandr Bakhrakh; se il tuo editore berlinese, Abraham Vishniak, non ti avesse restituito le tue lettere d’amore, così, senza un motivo; non ti impiccheresti se fossi meno infelice, se ti fosse concesso di scrivere, ancora, se il bel Konstantin Rodzevich, il migliore amico di tuo marito, non avesse scelto di interrompere la vostra relazione.

*

La vasta lista delle tue passioni, delle infatuazioni vissute o scritte.

Hai scritto e hai amato come il prigioniero che batte i pugni sul muro che lo separa dal compagno di cella. Per essere parte di questo mondo, benché fossi sola. Sola e miserabile, feconda di parole che hai inviato ovunque, a chiunque.

Una trave, una fune, una sedia, e il cuore divenuto pietra, indurito da troppe prove. Lo sguardo al cappio sopra la tua testa, al cielo chiazzato di nero, ai cipressi, alla collina improvvisamente preda dell’oscurità.

Cosa aspetti?

Basterebbe una voce, uno che bussa alla porta per farti scendere dalla sedia su cui ti sei issata, riporre la corda, impiccarti un altro giorno, perché questo è il tuo gergo e tu sei una che si è imposta di scegliere la data in cui morire. E surclassarla.

L’indecisione rode ogni energia. Non riesci a scendere da quella sedia, come se si fosse incardinata sulla pianta dei tuoi piedi, improvvisamente inerti, mentre le mani continuano a muoversi, ad aggiustare il nodo. Con la destra afferri l’aria sopra la spalla. “Accada quel che accada”, dice la tua mano.

Mano vecchia, avvizzita, corrosa dallo scavare la terra, slogare gli stracci, spazzare la polvere, che si ostina a comparire, sempre, dappertutto. Davanti agli specchi, chiudi gli occhi, per non accorgerti delle rughe profonde come solchi, delle vene che sporgono, della pelle simile alla corteccia di un albero decrepito.

*

Mano liscia e bianca di bimbo, si aggira, ora, sotto le tue palpebre. Si aggrappa alla tua gonna, presso l’orfanotrofio dove hai affidato la figlia, perché abbia di che mangiare, così almeno ti hanno detto; l’altra è malata, a casa, è in pericolo, devi tornare da lei.

Febbricitante in una coperta spaventosa, lurida; esci dall’ospizio senza guardare la piccola che urla il nome della sorella, non il tuo, così difficile da pronunciare per il suo cervello infelice. Irina, la non amata, che si aggira intorno a te come un cucciolo che mendica una carezza. Irina uccello spennato, con la testa rasata per eliminare i pidocchi.

Il cancello dell’ospizio si chiude dietro di lei, e lei sbatte la testa contro un muro. Il tempo non ha pietà. Devi tornare a Mosca, indovinare la via nella nebbia, dentro la notte precoce. La neve rende di pietra l’oscurità. Soprattutto, allontanarsi dalle piccole mani che si aggrappano alla tua gonna. Salvare Alia dalla morte: questa è la tua ragione di vita.

Una bambina dotata, Alia, ha otto anni e tiene già un diario; Irina ne ha quattro, fatica a parlare, imita la sorella. Nutrita con ciò che rare anime caritatevoli hanno lasciato alla tua porta, riscaldata con la legna raccolta nel bosco, Alia dopo un mese di cure è in grado di tirarsi in piedi. La malaria è sconfitta; allora ti sei ricordata dell’“altra” e sei tornata all’orfanotrofio. “Irina è morta”, ti dice il ragazzo alla porta. Morta. Di fame e di stenti, come altri bambini. Minestre di acqua calda con una foglia di cavolo per i due pasti quotidiani, una manciata di lenticchie per secondo.

Morta. Sepolta con il suo vestitino rosa, sporco, che ha indossato per due mesi; senza i capelli bianchi: la testa rasata, come quella dei carcerati.

Sono passati vent’anni dalla sua morte, ne eviti il pensiero, lo evochi quando è necessario, di rado pronunci il suo nome.

*

“Partenza il 27 novembre 1919 verso l’ospizio di Kuncevo, un villaggio vicino a Mosca dove i bambini dovrebbero essere ben nutriti”, scrivi sul tuo diario. “Biancheria, due libri e un quaderno per Alia, e abiti pesanti. Irina avrà lo stesso vestito”.

*

In ginocchio davanti alla maggiore, mangia il più possibile, le dici. E non dimenticare tua madre.

“È solo un gioco”, le dici. “Fai finta di essere un piccolo orfano. Avrai la testa rasata, un lungo vestito rosa, sporco, lungo fino ai piedi, un numero sul colletto. Un gioco, ti dico, straordinario. Sarà la più straordinaria avventura della tua infanzia. Tu capisci, Alia, sai quanto ti amo”.

Non una parola a Irina. Non avrebbe capito. Il suo cervello da uccellino ha le cose sottosopra, altrimenti si sarebbe spaventata per la bufera di neve che a momenti non rovesciava la slitta, non avrebbe applaudito alla vista della facciata grigia e lugubre dell’orfanotrofio. Un mese senza notizie. I tuoi pensieri e i tuoi gesti dedicati ad Alia. Irina può attendere.

Vedi i capelli biondi, il collo magro, il vestito sudicio, rigido, come cartone. La fame non le impedisce di cantare. Canta quando la fame occlude il sonno, dicono. Dovevi portarla a casa, con la sorella, nonostante le condizioni anguste, le stoviglie ammucchiate nel lavandino, farle posto in quei quindici metri quadrati di stanza, concederle un brandello del tuo amore per Alia.

Ma non c’è spazio per due bambine nel tuo cuore. Hai limato la quota d’amore per Irina per offrirla ad Alia, hai vestito Irina con i vestiti logori di Alia. Non l’hai mai baciata.

*

Come sopravvivere a queste immagini, agli insulti di Mur, appena ieri, alle notizie dell’NKVD, secondo cui tua figlia e tuo marito “non compaiono più nella lista dei prigionieri”, dunque sono stati giustiziati; come sopravvivere se la tua poesia è dichiarata impubblicabile, non conforme all’estetica comunista; come sopravvivere se non hai accesso ad alcun lavoro, neanche alla mansione di lavapiatti presso la mensa degli scrittori.

Non sai ancora se vivere sia morire – o viceversa.

Vénus Khoury-Ghata

Gruppo MAGOG