Josephine Pasternak, la sorella geniale di Boris che nessuno conosce
Cultura generale
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Poesia
Giorgio Anelli
Avevo letto su una targa che un artista russo contemporaneo, Zurab Cereteli, aveva realizzato una statua di Marina Cvetaeva a celebrazione del suo passaggio a Saint Gilles Croix-de-Vie. Un battesimo all’eternità del ricordo, per il piccolo paese bretone sulla costa atlantica, entrato nella storia della letteratura grazie a Marina che lì aveva vissuto per qualche mese nel 1926 e lì, in una casetta di pescatori, aveva ricevuto le sei indimenticabili lettere di Rainer Maria Rilke.
Rilke fu “donato” alla Cvetaeva nella primavera del 1926 da Boris Pasternak, con cui la poetessa era in corrispondenza, in uno strettissimo legame d’amore spirituale, sin dall’estate del 1922. Marina già allora conosceva e amava visceralmente le opere di Rilke: il loro incontro epistolare nacque da un propizio intreccio di coincidenze, uno di quei miracoli che solo nel cerchio più intimo e segreto della poesia possono succedere.
I poeti si possono incontrare solo per destino. Ed è stato proprio il destino, per mano di un poeta, a condurmi lì, avanti alla panchina di Marina a Saint Gilles.
Quale incanto e bellezza possiede la sua figura, scalza, che regge un fiore, e non uno qualsiasi, no, proprio quello prediletto da Rilke: la rosa, “sonno di nessuno sotto sì tante palpebre”, “testa di un corpo per troppa dolcezza/ assente”, “suprema essenza del vagante soggiorno”.
Mentre risuonavano in me i versi delle Rose, fragili eleganti sussurri del tardo Rilke, i turisti disattenti sedevano accanto a Marina a scattare fotografie, con lei, sulla panchina. Io le sono rimasta di fronte, le ho parlato sommessamente, come in confessionale, del Settimo sogno, quello che – dal maggio all’agosto del 1926 – la riunì nella leggendaria sonata a tre con Rilke e Pasternak: un dialogo che tocca l’apice della parola poetica, un magnete di meraviglie, tra le pagine più alte del Novecento. L’ho ringraziata per averle accuratamente trascritte e consegnate all’umanità, prima di partire da Mosca, per andare incontro al suo fatale destino, all’inizio della Seconda guerra mondiale. Le ho detto che ora comprendevo quel “non-volere” – amore nell’assenza – leitmotiv delle sue lettere a Rilke e non solo, tema centrale della sua poesia: l’eterno mancarsi degli amanti-eletti nel tempo e nello spazio fisico della “vita dei giorni”, per incontrarsi in uno spazio-tempo più alto: “il paese dell’anima”, la contrada sconfinata che solo la lettera e il sogno possono contenere.
Composta e sensuale nella fissità metallica, la poetessa dallo sguardo bronzeo teso all’infinito mi porgeva quella rosa tenuta come una bacchetta magica, quasi ad annunciare un prestigio imminente. Tale fu l’Elegia che Rilke le dedicò l’8 giugno 1926 e la travolse come un uragano nello spirito: “Onde, Marina, noi mare! Abissi, Marina, noi cielo./ Terra, Marina, noi terra, noi mille primavere che, come allodole,/ il sorgere di un canto lancia nell’invisibile”, cui lei rispose:
“E la Tua poesia, Rainer, una poesia di Rilke, del Poeta, una poesia…della Poesia. E il mio silenzio, Rainer. Situazione inversa. Situazione giusta. Oh, io Ti amo, non so dirlo diversamente; è la prima venuta, anzi, la prima e la benvenuta parola”.
Tutto fluisce in “un corpo d’occhi sotto palpebre innumeri” nella statua di Marina, plastica rappresentazione del primo distico del quinto Sonetto a Orfeo (I, 5):
“Non ergete lapidi. Ma ogni anno
fate che per lui fiorisca la rosa”.
In statuaria perfezione, su quella panchina, Marina è lì dove Rilke l’ha collocata: “nel centro del Sempre” a porgere il suo fiore, un dono avvolto nel minerale eterno, custode di un nuovo destino, un riverbero di “rose un tempo fiorite”, come le scrisse il 10 maggio 1926.
“Che dirTi? Mi ha teso le Tue mani, prima l’una, poi l’altra, e poi le hai giunte, Marina, hai affondato le Tue mani nel mio cuore come nella conca di una fontana fluente: ora è a Te che corre, fin tanto che ve le terrai”.
Marilena Garis