21 Giugno 2022

“Non esiste niente che non abbia importanza”. Per Marina Cvetaeva, che perse tutto

Perché ricordare il canto di una poetessa, di una grande poetessa? Ho ritenuto importante stavolta cominciare questo articolo, soppesando anche solo per un attimo l’intento. Dico questo per due motivi: il primo per sondare la verità e il senso della mia scrittura, il secondo per testimoniare la verità e il senso della scrittura. E se c’è stato qualcuno che ha acuito notevolmente questa dimensione di domanda e di ricerca, questo qualcuno è stato Marina Cvetaeva (1892-1941), a buon diritto tra le voci più alte della poesia russa. La sua vita, prima ancora che la sua poesia, rimarcano il fatto, comune a tutti i grandi scrittori e poeti, che vi sono persone nate per scrivere in una determinata forma quello che non può essere detto da altri, a costo di qualsiasi circostanza.

Marina Cvetaeva ha sperimentato la poesia mettendosi in gioco fino in fondo. Ne ha sfruttato tutta la ricchezza fonetica mai sperimentata prima dai suoi predecessori. Ha creato una sua personalissima musica, fatta di rotture, enjambement, conflitti. Si è affermata per l’audacia formale, per il disprezzo delle convenzioni, ma soprattutto per aver dato nuovi accenti all’espressione del dolore, dell’amore, dell’amicizia, della morte. Di nuovo, perché? A chi interessano nuovi accenti all’espressione del dolore, dell’amore, dell’amicizia, della morte? Parliamo a un pubblico che si sa emozionare, consapevole dell’importanza della parola come soffio vitale, o a un pubblico che, come dice Eliot, “ha bisogno di parole sempre più raffinate (e io aggiungerei di emozioni sempre più raffinate) per sentimenti sempre più rozzi? Tanto da parlare ormai non di sentimenti ed emozioni, ma delle loro astrazioni sociali?”.

Marina Cvetaeva ha violentato la mia comfort zone. Leggere la sua vita è stato come un ridestarsi da un torpore. Leggere la sua vita votata alla poesia è stato come un rimettere in marcia il motore raffreddato del cuore. Dalla prefazione alla sua raccolta Da due libri, scrive:

“Passeremo tutti. Tra cinquant’anni noi saremo tutti sotto terra. Ci saranno nuovi volti sotto un cielo eterno. E ho voglia di dire a tutti quelli che sono ancora vivi: Scrivete, scrivete di più! Fermate ogni istante, ogni gesto, ogni sospiro. Non solamente il gesto, ma anche la forma della mano che l’ha compiuto; non solamente il sospiro, ma anche il disegno delle labbra che l’hanno emanato. Non trascurate le cose esteriori. […] Annotate le cose con grande precisione. Non esiste niente che non abbia importanza […]. Il colore dei vostri occhi, della lampada, del tagliacarte e i motivi della carta, la pietra preziosa dell’anello preferito, tutto questo fermerà il corpo della vostra anima, della vostra povera anima, abbandonata nell’immensità del mondo”. 

L’anima. A Marina interessava l’anima, non i colori della natura che irrompono, non l’impeto di un amore fugace, non le fronde che ondeggiano, non gli occhi che ammaliano, non la guerra, non la nascita, non la morte, niente di per sé, se non l’anima di tutto ciò che esiste.

Sono persone che vivono ad un altro livello di intensità, e che amano la parola intesa come creatura viva. Quando Marina legge le poesie di Rilke, stesa sulla spiaggia, ha l’impressione che il frangersi delle onde si prolunghi dentro di lei. Quando le legge la sera, rannicchiata sotto le coperte, crede di lasciare la terra per una ascensione senza fine. “Il mio letto è diventato una nuvola”, scrive a Rilke dopo aver ricevuto per posta Elegie duinesi. Non tutti capirebbero questo grado di coinvolgimento con la poesia. Ma non ci resta che capirlo, altrimenti, di cosa stiamo parlando?

Marina Cvetaeva (a sinistra), con il marito, il figlio Mur e la figlia Ariadna

Rimaniamo su questo livello di intensità, dunque. Marina Cvetaeva considerava i testi poetici come qualcosa che viene dato al poeta. Sosteneva che le poesie siano sempre esistite e sempre esisteranno. Se le sue poesie non venivano comprese, non le importava:

“Ai miei versi, scritti così presto,
che io non sapevo di essere un poeta
sprizzati come gli spruzzi dalla fontana,
come scintille da un razzo,
che hanno fatto irruzione come piccoli diavoletti, in un tempio dove è sonno e incenso.
Ai miei versi sulla gioventù e sulla morte,
ai miei versi non letti. Sparsi fra la polvere dei negozi,
che nessuno ha mai preso, né li prende.
Ai miei versi arriverà il loro turno come ai vini preziosi”.

Tralasciando l’esteriorità in ogni cosa, ella ricercava il ritmo, il significato interiore attraverso l’orecchio:

“Non si tratta di un orecchio metaforico, anche se non è nemmeno udito nel puro senso fisico. Sento non le parole, ma una specie di muta melodia dentro la testa […]. Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge ubbidisco”. 

Riconosceva nella natura la radice dell’arte. Il poeta è un essere posseduto dall’elemento naturale.

“Il demone (l’elemento naturale) paga le sue vittime. Tu mi dai il sangue, la vita, la coscienza, e io ti do una tale consapevolezza della forza (giacché la forza è mia!), un tale potere su tutto (salvo che su te stesso; sei mio!), una tale – nella mia morsa – libertà, che qualsiasi altra forza ti sembrerà ridicola, qualsiasi altro potere piccolo, qualsiasi altra libertà angusta. E qualsiasi altra prigione – troppo larga”.

Che dire dell’elemento profetico della sua poesia? Numerose sono le sue poesie che, in tempi non sospetti, parlavano già di cose che fatalmente sarebbero accadute. Per approfondire questo aspetto, bisogna aprire una parentesi. In Russia torna in auge in quegli anni (primissimi anni del ’900) la dottrina dell’esicasmo, a cui la stessa Cvetaeva si era interessata. Si trattava di una corrente mistica della chiesa d’Oriente, praticata da secoli dai monaci del monte Athos, basata sulla meditazione e sul silenzio. Secondo questa dottrina la parola viene rappresentata con l’oggetto che essa indica; per esempio, la parola Dio corrisponde all’esistenza di Dio stesso. Le parole sono quindi considerate portatrici di un’energia interna, non sono create dall’uomo per designare, sono create da Dio come essenza dell’oggetto.

Quindi, bisogna stare zitti, e meditare, perché a parlare si finisce per giocare con cose più grandi di noi.

Ancora un’altra parentesi, per rimarcare il potere della parola come profezia e/o rivelazione. Papa Giovanni Paolo II, in un’omelia del 1996, richiamò l’attenzione sulla pratica dell’esicasmo, una pratica in grado di generare uno spostamento della coscienza verso una profonda quiete della mente che trascende la coscienza quotidiana: “Si apre una sorgente da cui scaturisce un altro modo di essere. In questo stato si acquisisce la conoscenza trans-razionale. È il regno dell’intuizione, della rivelazione e della profezia. È il regno delle esperienze ineffabili per le quali le metafore offrono solo scorci approssimativi. È il regno in cui il tempo e lo spazio sono trascesi”.

Quando chiesero a Marina, citando una sua poesia del 1916 dedicata ad Aleksandr Blok, come avesse fatto a prevedere la prematura morte del poeta, lei risponde: “Da dove mi è venuto questo presentimento? Dai suoi versi certo. Lì c’è scritto tutto”.

Vi è come una contraddizione tra la sua natura entusiasta, tumultuosa, affamata di amori non solo maschili, e la sua fine, intesa come lento spegnimento della sua prolificità, della sua gioia, della sua anima e infine della sua vita: morirà suicida nel 1941.

È indubbio che le avversità che fu costretta ad affrontare siano state la causa prima di questa involuzione: durante gli anni della rivoluzione russa e della guerra civile, dopo aver perso tutti i suoi beni materiali, è costretta a vivere in stanzette non riscaldate, a sperimentare il freddo e la fame; deve accettare la perdita della figlia minore, che morirà di stenti in un istituto; perde la patria quando emigra per seguire il marito a Berlino, Praga e Parigi; perde il marito quando ritorna in patria, arrestato insieme alla figlia maggiore; viene evacuata a Elabuga, nel Tatarstan, alle soglie del grande scontro Russia – Germania; deve assistere agli orrori della guerra… Se per lei Dio è un vulcano, un terremoto, un incendio dell’anima chiamato amore, una potenza che la rende feconda, al di fuori delle condizioni fisiche, ambientali, storiche, meramente quotidiane, ecco che tutta l’infelicità di cui sopra, glielo rese assente, questo Dio. Durante questa assenza di Dio la Cvetaeva non trova più nulla che possa amare. Perde l’anima, infine perde la poesia, il suo accesso all’anima. E a quel punto capisce che non era più possibile rimanere in vita.

Concludo con questa poesia intitolata Il corno di Rolando, scritta nel 1921. Lei paragona la sua poesia al corno di Orlando, che suona sperando che prima o poi un qualche Carlo Magno risponda. Ma come si sa, Carlo Magno arriverà quando Orlando e la sua schiera, sono stati già massacrati.

Come un povero buffone della sua bieca deformità
io racconto della mia orfanezza:

dietro il principe-la stirpe; dietro il serafino-la schiera,
dietro ciascuno-mille uguali a lui,

affinché, se vacilla, su una viva muraglia,
egli cada, e sappia che mille sono lì a dargli il cambio!

Il soldato del reggimento, il demone della legione è fiero,
dietro il ladro c’è la banda, ma dietro il buffone c’è sempre la gobba.

Così, finalmente, stanca di appoggiarmi
sulla consapevolezza: il dovere, e con la vocazione: battermi,

sotto il fischio dello sciocco e il riso del borghese
una per tutti, di tutti, contro tutti,

sto e invio, impietrita per il volo,
questo richiamo potente nei vuoti celesti.

E quest’incendio nel petto è il pegno
che un qualche Carlo ti udirà, mio corno!

Gruppo MAGOG