09 Giugno 2022

“Non abbiate paura di me...”. Marina Cvetaeva, nemica del popolo

Bisogna immaginarla, Marina Cvetaeva, china su uno scrittoio improvvisato, che arma la penna e attacca:

“Compagno Berija, mi rivolgo a Lei per la questione di mio marito, Sergej Jakovlevič Efron-Andreev e di mia figlia, Ariadna Sergeevna Efron, arrestati l’una il 27 agosto, l’altro il 10 ottobre 1939…”.

Marina Cvetaeva ha compiuto da poco 47 anni, mancano due giorni al Natale del ’39; più di dieci anni prima, alla fine del dicembre del 1926, era morto il suo amato Rainer Maria Rilke. Marina Cvetaeva, tra i grandi poeti del secolo, conosce la latitanza e l’abbandono, l’insonnia appesantita da manie ed Erinni, il genio e l’impazienza, il carisma del matrimonio e l’angelo del tradimento, la passione e gli impossessati. Gli mancava l’orrore, i cingoli della Storia, di cui presentiva il lezzo, da Parigi. Era arrivata a Mosca il 18 giugno del 1939, al seguito del marito e della figlia, Ariadna, ubriachi di etica sovietica, pedine spodestate dal regime.

Berija è il potentissimo capo della polizia segreta sovietica: la Cvetaeva gli scrive da Golicyno, scandita dal gelo. Qualche giorno dopo, a Ljudmila Vasil’evna Veprickaja, spiegherà la sua nuova vita sovietica, con cornicioni pieni di iene:

“La vita qui. Fredda. Nessuno di affidabile (per l’anima). Ci sono persone bendisposte e incuriosite… ci sono quelle indifferenti (quasi tutte)”.

Verso la fine di gennaio del 1940 si celebra l’estremo incontro con Boris Pasternak. La notte è azzurra, piena di denti di cristallo, crepita, presa a morsi:

“…ha risposto immediatamente al mio richiamo – e abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve – fino all’una di notte – e mi è passato tutto – come un giorno mi passerà – tutta la vita”.

La lettera a Berija, ora pubblicata dall’editore De Piante come Nemico pubblico – nella traduzione di Claudia Sugliano – è la testimonianza più potente di una generazione e di un’epoca che, secondo la perentoria didascalia di Roman Jakobson, “ha dissipato i suoi poeti”. La lunga lettera a Berija, in cui la Cvetaeva racconta le peregrinazioni, le ascendenze, nel tono della supplica, della confessione a cuore aperto, dice dell’ardore di una madre, della sua audacia – non dissimile da quella di Anna Achmatova, che mendica alle pendici della “Kresty” notizie del figlio Lev –, di un amore temprato nel dolore, privo di patti, aspro alla follia:

“Non so di che cosa sia accusato mio marito, ma so che non è capace di nessun tradimento, doppiogiochismo e slealtà. Lo conosco dal 1911, da quasi 30 anni, ma quello che so di lui lo sapevo fin dal primo giorno: è un uomo di grande purezza, abnegazione e responsabilità. Lo stesso diranno di lui amici e nemici. Persino fra l’emigrazione, nell’ambiente più ostile, nessuno lo ha accusato di essersi venduto…”.

Naturalmente, nessuno presta ascolto alla lettera di un poeta – cestinata, forse, tra i fastidi inermi, o registrata da chi setaccia “nemici del popolo” come si bruciano le pulci. Ezio Mauro, che da tempo si occupa dell’etica della dissidenza – in Lo scrittore senza nome, Feltrinelli 2021, ricostruisce il fatidico processo ad Andrej Sinjavskij e Yulij Daniel’ –, scrive, tra l’altro, nella partecipe introduzione al volume:

“Solo la fede di una poetessa nella parola poteva rompere il muro di paura di quegli anni, sfidare la logica implacabile del potere, tentare l’impossibile spingendosi fino alle soglie di Stalin, per attirare l’attenzione del Cremlino e implorare la benevolenza dell’uomo del grande terrore. Ma non è la scrittrice e la poetessa che chiede grazia e soprattutto giustizia: è una testimone di vita, una donna, che raccoglie nel suo messaggio l’inermità indifesa dell’epoca, la devastazione delle famiglie russe davanti agli arresti e alle fucilazioni sovietiche, la miseria che si trascina giorno per giorno fino all’appuntamento con la tragedia fatta destino, individuale e collettivo”.

Ad ogni modo, tutto inizia e finisce “in una lussuosa stanza del Metropol’”, il leggendario albergo di Mosca. Siamo nell’ottobre del 1937 e il sogno sovietico ha la figura di un dio proteiforme. Dura – il sogno – lo sprazzo di una manciata di settimane. Poco dopo, l’agente segreto viene destinato “in una più modesta camera del Sovetskaja”, infine segregato nella dacia di Bol’ševo, poco distante da Mosca, “è come se non vivessi”, scrive, alla sorella, di fatto agli arresti domiciliari. Quando Marina Cvetaeva si ricongiunge al marito, il 19 giugno del 1939, scopre un uomo malato, fiaccato, inerme, nel corpo e soprattutto nello spirito. “Venni a sapere che in quei due anni era stato quasi sempre a letto.Ma con la nostra presenza si riprese: nei primi due mesi dimostra che la sua malattia in grande misura era provocata dalla nostalgia per noi e dalla paura che un’eventuale guerra ci avrebbe separati per sempre… Cominciò ad alzarsi, a sognare il lavoro, senza il quale languiva, iniziò già a prendere qualche accordo con i suoi capi e ad andare in città…”, scrive la Cvetaeva a Berija. “Non so di che cosa sia accusato mio marito, ma so che non è capace di nessun tradimento, doppiogiochismo e slealtà”, scriveva, confinando gli angeli nel trogolo. Era lei, piuttosto, capace di ogni tradimento, a non tradire mai.

Si erano conosciuti, giovanissimi, neppure diciottenni, nel 1911, in Georgia. Sergei Efron conserverà sempre quel viso commosso, di creatura fuori posto, fatua, dalla scaltrezza scombinata, gli occhi alieni, autentico pasto del caos. Il padre, Jakob Konstantinovič, ebreo, lavorava per un’agenzia di assicurazioni, era morto di cancro nel 1909. Preferì passare ai luterani per sposare Elizaveta Durnovo, donna tutta d’un pezzo, col peso di un cognome aristocratico. Erano entrambi rivoluzionari, antizaristi, affiliati al gruppo di “Ripartizione nera”: fuggita a Parigi – in Russia rischiava l’ergastolo per attività sovversiva – Elizaveta si ammazza nel 1909, in seguito al suicidio del figlio, tredicenne. Marina Cvetaeva, per destino, non può che amare i disfatti, i diseredati, gli espulsi dalla storia. Efron, figlio di populisti, orfano, giovane, bello, tubercolotico, era l’esatta misura del suo desiderio di tragedia. Si sposarono in segreto, nel 1912 nasce la prima figlia, Ariadna; cinque anni dopo nasce Irina; nel 1925 nasce Georgij, ‘Mur’, il figlio dell’esilio.

Ma torniamo al Metropol’. Mentre Sergej Efron gode di un servizio alberghiero impeccabile, al settimo cielo della sua carriera, il 22 ottobre del 1937 Marina Cvetaeva è condotta con il figlio in prefettura, a Parigi, e interrogata dalla polizia francese. “Le sue simpatie per l’Unione Sovietica, naturalmente, mi sono note…”, dirà, dicendo di ignorare, però, le ragioni di quell’accanimento poliziesco. Chiamava “chimerici affari” gli intrighi del marito. Una chimera, si direbbe, dalle rocambolesche capriole. I gendarmi dichiararono Marina “un poco folle”, creatura ferma e d’altri mondi, inutile ai fini delle indagini.

Quasi subito, il rapporto tra Marina Cvetaeva e Sergej Efron è minato dalla Storia, al sangue, e dall’esuberante personalità della poetessa. Marina non sta nei ranghi di una vita distillata dal grigiore: scrive, certa di un talento d’acciaio, pubblica, ama, con disperata ossessione, in assenza. Sergej Efron, scosso, forse, dall’estro lirico, presto si dà all’azione. Nel 1914 lascia l’Università di Mosca – studiava filologia – e si arruola nell’esercito, dove pratica come infermiere. Nell’ottobre del ’17 è tra i bolscevichi, poi sceglie la via dell’esercito ‘bianco’, convinto che la Rivoluzione abbia tradito gli ideali del popolo. Marina vive sola. Fino alla tragedia. Durante gli anni della fame, nell’inverno del 1920, il 3 febbraio, all’asilo, muore la figlia Irina, “e la colpa è mia”. Sia Ariadna, ‘Alja’, come la chiamano in famiglia, che Irina sono malate. Alja è più grave: Marina sceglie di occuparsi di lei – “Ero così presa dalla malattia di Alja (malaria – accessi ricorrenti)” – e affida Irina alle cure dell’asilo. Ma la bimba muore, insieme ad altri figli del popolo inghiottiti nell’orrore rosso, di stenti. Alja – che paradosso – “così diversa da me, in tutto, un’altra”; “mia figlia è la prima persona che mi disprezzi” – affascinata dal padre, inseguirà le sue stesse chimere, l’utopia sovietica, la grande trappola.

Dopo la guerra civile, dal 1922, gli Efron sono costretti a scappare dalla Russia. Vivono a Berlino, in Boemia, infine a Parigi. Spesso nella clausura della povertà. Marina inaugura, dall’estero, un epistolario micidiale con Boris Pasternak (“Siete il primo poeta che – in tutta la mia vita – vedo… Su nessuno ho visto il marchio da ergastolano del poeta: che brucia a una versta di distanza!”). Marina può amare soltanto da tabù inaccessibili, sull’inferriata dell’impossibile, scrivendo: cioè dando vita a un mondo e a una congrega di costellazioni. Nessuno è pari alle sue pretese. Attraverso le lettere – raccolte da Adelphi, per la cura di Serena Vitale, in due volumi, Il paese dell’anima e Deserti luoghi – la Cvetaeva compie un’opera impareggiabile per nudità e abrasione, impone alla sofferenza un’aristocrazia abbacinante, dimostra che la Storia non è che un ago sul singolare mignolo dell’individuo, che le ragioni della rabbia sono equivalenti a quelle dell’amore, che vendetta e spergiuro si vincono con il candore, che chi non ha nulla se non sé nulla teme, che la ferocia è il crisma di ogni relazione. Sbugiarda scrittori, filosofi di gesso, la gestione delle carriere accademiche, Marina.

“Per essere amica di una persona e – per me è esattamente la stessa cosa – per servirla, io ho bisogno di radici sane. Amicizia e indulgenza, solo compassione – è umiliante. Non sono Dio, per accondiscendere. Io stessa ho bisogno di ciò che è più alto di me, o almeno alla pari… Non so che farmene del peso morto del non-volere, giacché è l’unico che non sono in grado di sollevare”.

Ad A.S. Steiger, settembre, 1936

La Cvetaeva è rovinosa, azzanna, fa paura – “Non abbiate paura di me”, scrive a Tat’jana Kvanina –, cerca il gemello da squartare, si ostina alla lotta in un tempo fitto di lacchè, di fittavoli del già detto, di poeti riconosciuti e molto più modesti di lei. Vive in una brocca di vetro, capovolta. Si fa il vuoto intorno. A Parigi i circoli dell’emigrazione russa la snobbano, troppo spigoloso, austero, stregato il suo carattere. Il marito non può capirla, non è preparato a quel dosaggio di fuoco:

“Marina va verso la morte. Già da tempo non ha più la terra sotto i piedi. È tornata da me. Ma tutti i suoi pensieri sono con l’altro. L’assenza di lui infuoca i suoi sentimenti. Lo so: è convinta di avermi sacrificato la sua felicità. Fino – naturalmente – al prossimo incontro. Ora vive dei versi dedicati all’altro. Impossibilità di accostarsi a me, molto spesso irritazione, quasi cattiveria. Io sono contemporaneamente il suo salvagente e la macina al suo collo… La mia vita è una continua tortura”, scrive nel 1924.

D’altronde, Marina non capisce le svolte chimeriche di Sergej e la venerazione della figlia per l’Unione Sovietica. Dopo un decennio d’esilio, il pallido Sergej muta convinzioni. Si lascia concupire dai servizi e, almeno dal 1934, “viene regolarmente stipendiato come agente dell’NKVD”, il Commissariato del popolo per gli affari interni dell’Unione Sovietica, con ordini di spionaggio e controspionaggio. “Le sue mansioni si possono agevolmente immaginare: attività della propaganda filosovietica, informatore, reclutatore di nuovi agenti” (Serena Vitale). In Spagna, nel 1936, Sergej organizza battaglioni russi clandestini, soprattutto, smaschera i trotzkisti e gli infiltrati tra le truppe rosse. Di facciata, lavora per la cosiddetta Unione per il Rimpatrio, che facilitava – visti i rapporti tra Francia e Unione Sovietica – il ritorno degli emigrati, ravveduti, a Mosca. “Non so esattamente quando Sergej Efron cominciò a fare attività sovietica… Penso verso il 1930. Ma quello che conoscevo e conosco con certezza è il suo sognare con ardore e fedeltà l’Unione Sovietica e il suo servizio appassionato per essa”, scrive Marina a Berija, di cui non è nota alcuna replica. Alla Storia, la poetessa sovrapponeva la propria storia, fatta di verbi australi e di deliri del cuore: per mesi aveva intrattenuto un legame via lettera con Rainer Maria Rilke, così diverso da lei, eppure egualmente estremo nel sacrificare tutto alla poesia.

Già, ma cosa ci fa il compagno Sergej Efron al Metropol’ di Mosca? In questa storia in cui ideologia e poetica si combattono fino all’ultima zolla di sangue, manca un nome. Ignatij Rejss. Nato Nathan Poreckij, nel 1899, ebreo, si faceva chiamare Ludwig, Steff Brandt, Hans Eberhardt, a seconda delle necessità. In uno dei suoi travestimenti/travisamenti era Walter Scott, agente segreto americano. A servizio dei sovietici, svolgeva il suo compito, dal 1921, in Europa, con impeccabile affidabilità. Dal 1932 fu inviato a Parigi. Lì, cominciò a nutrire dubbi riguardo al governo di Stalin: nel 1937 si dichiarò apertamente in favore di Trockij. Rifugiatosi in Svizzera, a Losanna, era stato rintracciato e ucciso, il 4 settembre di quell’anno, da un commando dell’NKVD. Del gruppo faceva parte anche Sergej Efron, “il suo ruolo sarebbe stato quello di organizzatore dell’agguato”. Secondo i suoi piani, Rejss avrebbe dovuto essere rapito e condotto a Mosca, in attesa di “un giusto processo sovietico”. Peccato di ingenuità, in un mondo dove la fede sta nello scantinato dell’eresia e il verso è sdoppiato. Questa è una storia di poeti e di agenti segreti, dove tutto, perfino un singolo verbo, è soggetto al frainteso e al tradimento. Dall’alto qualcuno optò per la soluzione definitiva: l’assassinio. Braccato dalla giustizia francese, Efron riparò a Mosca. Era felice. Già al Metropol’, tuttavia, capì che qualcosa non andava.

I vertici dell’NKVD, infatti, per ordine di Stalin, erano stati decapitati: Genrich G. Jagoda, il capo, era stato processato e condannato a morte nel marzo del 1938; Abram Sluckij, “il capo della sezione esteri dell’NKVD per cui Efron aveva a lungo lavorato”, era morto il mese prima, ufficialmente d’infarto, in verità “era stato costretto a inghiottire cianuro”. Il cerchio si stringeva intorno a Efron e agli ex agenti occidentali rientrati in patria, più o meno redenti. Secondo la testimonianza di Marina Cvetaeva, il 27 agosto del 1939 viene arrestata la figlia Alja, con l’accusa di spionaggio controrivoluzionario, “e dopo mia figlia, il 10 ottobre 1939, proprio nel giorno del secondo anniversario del suo ritorno in Unione Sovietica, fu arrestato anche mio marito”. La macchina coercitiva sovietica è implacabile: anche il più fedele degli adepti ha ombre da scontare, d’altronde, il regime prolifera a patto di soggiogare i cittadini nell’acido della colpa. Tutti, in Unione Sovietica, sono colpevoli; tutti vivono sotto ricatto. Alja Efron – paradosso surreale che glassa di un sovrappiù di dolore la tragedia russa – credeva sinceramente nelle sorti dell’URRS: “Non sono così sciocca e meschina da confondere il particolare con il generale. Quanto mi è successo è un caso particolare, e ciò che è grande resta grande”, scriveva nel 1941, dal Gulag; sarà riabilitata nel 1955. Sotto tortura, Sergej fu convinto di essere un trotzkista, degna spalla del precedente politburo dell’NKVD, ormai bonificato. La prigione fu risolta in morte: l’ex universitario, l’ex soldato, l’ex militare bianco, l’ex agente sovietico, fu giustiziato l’11 settembre del 1941. La moglie, nel frattempo, era già morta.

Malaugurata fu la scelta della Cvetaeva di inseguire il marito in Russia – eppure, era una donna senza patria, che abita il senza scampo. A Parigi la ignoravano – “Era come un’appestata, nessuno le si avvicinava. E anche io, come tutti, la ignorai”, scrive Nina Berberova –, in Russia la trattavano con sospetto: madre e moglie di due arrestati, tornata in patria dopo anni di fuga – traditrice e parassita sociale, dunque. La poetessa continuò a scrivere versi immortali e lettere maledette; è la martire dell’ipocrisia degli intellettuali, tutti, della viltà dei potenti, tutti, del massacro della Storia, a Est come a Ovest. Nessuno è salvo nel falò della Cvetaeva; nessuno poté aiutarla, neppure i rarissimi amici (Pasternak le dava soldi e un tiepido affetto). S’innamorò, più per furia che per altro, di Arsenij Tarkovskij, il poeta, padre di Andrej; lottò per liberare il marito, scriveva alla figlia, a cui inviava cibo, “Mi sono attivamente occupata delle tue vettovaglie, zucchero e cacao li ho già, ora comincerò a lottare per la pancetta e per il formaggio… buona primavera bambina dalla pelle chiara…”.  “Chiedo di essere assunta come lavapiatti nella mensa del Litfond”, implorò, il 26 agosto del 1941, la più potente poetessa del secolo. Neppure quello le fu concesso. La donna che viveva nella tragedia, capì che la Storia era prossima ai suoi occhi. Preferì vincerla con l’ultimo scatto. Abitava a Elabuga; lì si uccise, il 31 agosto del 1941. “Fu sepolta in una sorta di fossa comune del cimitero di Elabuga… Senza una lapide. La tomba di Marina Cvetaeva non esiste” (Vitale). Il figlio Mur aveva sedici anni, lei lo chiamava il suo Alessandro Magno, lo amava moltissimo, e quel giorno scrisse diversi biglietti implorando, “Cari compagni! Non abbandonate Mur”. Mur restò qualche giorno nella casa dove si era uccisa la madre. Forse il cadavere veleggiava in quelle stanze spoglie. “Più di una volta mi aveva parlato della sua intenzione di uccidersi come della migliore decisione che potesse prendere. Io la capisco e la approvo completamente”, scrive il ragazzo alla zia Lilja, a Mosca. A Mosca, il ragazzo si trasferì per studiare: lo dicono intelligente, un po’ abulico, spiazzante. La guerra lo costrinse ad arruolarsi, inviato sul fronte bielorusso. Il 7 luglio del 1944 un proiettile gli sfonda il cranio. Ha 19 anni. Di lui ci resta un diario, di ingenuo nitore, un pugno di cristallo. La sorella Ariadna si occuperà, per il resto della vita, dell’opera della madre, della memoria del padre. Morì nel 1975, a Tarusa, le scoppiò il cuore, fragile dopo i lunghi anni di prigionia. Le lunghissime lettere a Boris Pasternak sanno di prato e di metallo; il poeta rispondeva di rado, con glaciale simpatia.

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