Il libro si chiama “A Disabilandia si tromba” ed è edito dalla Sperling & Kupfer. Lei si chiama Marina Cuollo, è napoletana e ha un fratello a cui non piace la mozzarella “Nemmeno quella di bufala. Già, già. Lo so cosa stai pensando: è una disgrazia terribile, e forse è solo pazzo”. Ci siamo incontrati una prima volta in un pub che tutti conoscono per il nome che aveva in precedenza, prima del fallimento della vecchia gestione, ed è come darsi un appuntamento a Istanbul dicendosi “Allora ci vediamo all’ex-Constantinopoli?”. Ha scritto un libro coraggioso, cioè necessario, perché prende un tabù e lo rimodella, come fosse pongo, per apporre la propria impronta su ciò che ti vuole cancellare proiettando su di te la sua ombra. Leggerlo mi ha provocato sorrisi come cicatrici divertenti agl’angoli della bocca. Le ho proposto di parlarne assieme e quella che segue è la nostra conversazione. (a.c.)
Il libro è permeato dall’urlo “Lasciatemi divertire!”. Comunque un urlo.
Un urlo forte. Quando hai dovuto affrontare situazioni che hai fatto fatica a capire, in giovane età chiaramente, l’urlo matura e poi scoppia. L’urlo ha poi davanti a sé molti modi per esprimersi. Io ho scelto l’umorismo, un umorismo che contiene molti altri sentimenti, rabbia compresa. Un umorismo di denuncia.
Quando nasce l’idea di trasformare l’urlo in libro?
Tutto estremamente casuale. Sentivo fosse giunto il momento di esprimermi, di dare via libera alla mia urgenza di comunicazione, ma non sapevo ancora bene come sarei riuscita a farlo. Chi scrive poi, spesso lo fa da molto tempo. Sai come si dice? “Ah, io ho sempre scritto, fin da bambino…”. Ecco, io no. Per me è stata una scoperta. Sono una lettrice forte, quello sì, sin dall’infanzia, ma la scrittura è arrivata molto dopo, circa sei anni fa. Una scoperta totalmente inaspettata. Ho frequentato un corso di scrittura, sai? Pensavo: mollerò subito! E invece… ho scoperto di essere un pesce dopo essere entrata nell’acqua.
Se dico politicamente-corretto tu cosa mi dici?
Due coglioni! Sia chiaro: io non sono contraria al politicamente corretto a prescindere. In determinate circostanze è necessario, è importante, ed è giusto. Però! Quando diventa autocensura, o peggio ancora ipocrisia a buon prezzo, quando cioè le parole servono solo a dire il contrario delle proprie azioni, ne faccio volentieri a meno.
Te lo chiedo perché sull’aletta con le informazioni biografiche c’è scritto “Dottore in processi biologici e biomolecole”.
Ma guarda che dottoressa secondo me sarebbe stato più giusto. Allo stesso modo, fossi stata laureata in giurisprudenza, avrei preferito ci scrivessero avvocata. Non si tratta di politicamente-corretto ma di pari opportunità. Tenere al maschile le parole è una scelta di genere: con questa rivendicazione le donne non vogliono togliere niente agli uomini, ma avere semplicemente gli stessi diritti; se nessuno ha problemi a usare il femminile per professioni come “maestra” o “infermiera”, perché invece dovrebbero averne per “ministra”, “sindaca” o “avvocata”?
Quindi dalla biochimica alla letteratura: tutto sommato, sempre di scrittura della vita si parla, hai solo cambiato alfabeto. Non ricordo niente che si avvicini a un racconto simile a quello che tu fai nel tuo libro, è un territorio non ancora percorso. Oppure mi ero perso io qualcosa?
Su questo tema esistono le autobiografie, poi c’è la letteratura specializzata, scientifica, ma romanzi pochi. Nonostante alcuni dei miei libri preferiti siano autobiografie, io non impazzisco per quel genere. Trovo spesso autoreferenza e poco desiderio di raccontarsi. Per quanto riguarda i libri di formazione o didattica, quello non è il mio campo e di certo non voglio scrivere per gli addetti ai lavori. Disabilandia rientra nella saggistica, ma non è né un testo tecnico né pedagogico. Per me scrivere è stato voler uscire da una dimensione di autoghettizzazione, in parte imposta in parte accettata per quieto vivere. E il mio editore è stato subito d’accordo con me. Dopo aver inviato il libro in casa editrice mi hanno risposto dopo due settimane, con la proposta di contratto, e te lo assicuro: non succede mai! Il titolo ha sortito l’effetto desiderato: A Disabilandia si tromba stai sicuro che non passa inosservato, è un urlo fin dal titolo. E guarda che la mia prima idea di copertina era diversa da quella poi mandata in stampa, che è bella uguale ma forse meno esplicita. Nella copertina originale c’era un pompino in carrozzina.
Il libro è un manuale, ma per dirlo meglio: è una dichiarazione di cittadinanza. I disabili esistono, sanno dire “io” e hanno qualcosa da raccontare, della disabilità per esempio, e di un altro milione di cose. Però quando leggo: “La mia infanzia trascorreva quindi serena tra un’infezione respiratoria e una grave apnea notturna, fino a quando mi fu quasi impossibile respirare”, riportato come si trattasse della gitarella al mare, il passo di un romanzo in prima persona lo sento appieno.
Il romanzo è sempre il mio primo amore, e in alcuni punti di Disabilandia probabilmente si sente. Ma a proposito del mio modo di comunicare la disabilità, qualche accusa mi è stata mossa, cose come: “L’ironia è una perdita di serietà!”. O se mi riferisco a chi si sposta in carrozzina come a un cingolato, o se scrivo: “Entrambi gli ausili sono facilmente estraibili: i normodotati senza scarpe sono liberi di camminare scalzi, i fuori classe senza carrozzine sono liberi di fare la foca sul tappeto”, molti pensano che utilizzi l’ironia per nascondermi, che non sia in grado di accettare non so quale mia condizione… Non è così, almeno per me è evidente. Se scrivo qualcosa di me e mi permetto di farlo con certe battute, è perché sia chiaro che sto trattando un argomento che conosco bene, che vivo ogni giorno, dopodiché già non m’importa più parlare di me. Se scrivo è perché voglio che agli altri arrivi non il mio essere disabile ma la mia voglia di ridere di tutto.
Leggo pure “l’operatore socio assistenziale, figura a cavallo tra l’unicorno e Padre Pio”. Manca il palco ed è subito stand-up comedian.
Ah, non sai quanto mi piacerebbe scrivere testi per gli stand-up comedian, mi piacerebbe così tanto che sono disposta a diventare una stand-up comedian io per prima. È qualcosa di molto diverso, un altro modo di comporre la frase, di darle il ritmo giusto, è qualcosa che mi piacerebbe tantissimo approfondire. Chi scrive sa che non si smette mai di imparare.
Il Quoque, il Tuttologo, il Ti Stimo&Ammiro, il Punisher, il Diversamente Ipocrita, il Falso Invalido, sono alcuni dei personaggi dei tuoi gironi cuolliani. “Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”. La tua definizione di sguardo normale.
Uno sguardo “bianco”, inteso come sguardo senza preconcetti. Lo sguardo di chi sa aspettare, di chi ascolterà prima di decidere con quali occhi guardarti. Chiaro che è uno sguardo raro, perché poi facciamo tutti così: guardiamo per incasellare, senza aspettare che la persona che abbiamo di fronte ci mostri realmente chi è. Abbiamo paura di quello che non conosciamo, spesso è la paura che ci muove.
Del disabile vorrei-ma-non-posso scrivi: “La sua vita è, di solito, costellata da attacchi di panico e ansie smisurate per cose che non sta per fare”. Il ritratto perfetto dell’uomo-contemporaneo.
Infatti! Io racconto il mondo dal mio punto di vista ma è lo stesso mondo di tutti, Disabilandia non è un luogo esclusivo. Siamo tutti uguali e diversi cioè siamo umani, mica chissaché.
Il tuo umorismo si spinge volentieri nella satira, gli argomenti ci sono tutti: la morte, il sesso, la politica. Nel libro non mancano le staffilate alla religione.
La religione, e siccome siamo in Italia quella cattolica, ha questa declinazione: la sofferenza intesa come una via preferenziale per il paradiso, per te che soffri e per chi si accollerà la tua sofferenza. Sono nata con una disabilità? Che culo! Supererò le file al supermercato e pure quelle per il regno dei cieli. Scherzi a parte, sono atea ma non per questo ho un giudizio sfavorevole sulla fede. Credo che la religione aiuti le persone a stare meglio con sé stesse. Quando però diventa l’occasione per delle insopportabili pratiche pietistiche, masochistiche, meglio lasciar perdere.
Ridere, ho riso tanto leggendo il libro, poi però viene il capitolo “I disabili oggi”. Svolgimento: “Non ci ammazzano più, ma a volte fa male uguale”. Ed è come passare per caso davanti a un monumento alla memoria dell’Olocausto in una città straniera: vuoi non vuoi ti soffermi lo stesso e ti prende un magone che non puoi dire bene cos’è.
Esiste una relazione molto forte tra scrittura e dolore. Ed esiste una storia. In questo senso per i disabili vale come per molte altre minoranze: non siamo sbarcati da nessuna altra galassia, né siamo apparsi dal nulla soltanto nell’epoca più recente per rompere i coglioni ai poveri contemporanei. Siamo sempre stati qui, anche se nessuno scriveva le nostre storie oppure le scriveva in un modo che lasciamo perdere. Con la letteratura ci prendiamo la cittadinanza che ci spetta; lasciassimo tutto in mano alla società cosiddetta civile staremmo freschi.
Esistono, in ordine sparso: i romanzi rosa, quelli gialli, i noir, gli arcobaleno, i tricolori, e via andare. Qual è la trappola più pericolosa per te ora: diventare la scrittrice disabile o la scrittrice che deve farci ridere?
La seconda eventualità mi infastidisce ma meno della prima. Non voglio essere considerata una scrittrice che, in quanto disabile, scriverà sempre e soltanto di disabilità, sarebbe l’ennesima etichetta. Io che di mio puoi immaginare quanti pregiudizi debba sopportare mi sono anche scelta un tipo di scrittura che subisce a sua volta molti pregiudizi, quella umoristica, come se l’umorismo fosse un sottogenere, non della vera letteratura. Ah, e facci caso, la maggior parte degli scrittori umoristici riconosciuti a livello letterario sono quasi tutti uomini: Pirandello, Jerome K. Jerome, Alan Bennett, Douglas Adams, per citarne giusto alcuni. E se sono donne il più delle volte o sono autrici Chick-lit, quindi sempre con il cuoricino in mezzo, o sono comiche riconosciute perché sono anche sul palcoscenico. Io non credo che non ci siano state delle umoriste altrettanto degne di essere riconosciute nella storia della letteratura, ma probabilmente, essendo donne non rispettavano il ruolo previsto per il loro genere, quindi: niente contratto. Adesso lentamente qualcosa si muove, ma siamo ancora lontani da una presenza pari a quella maschile, e in ogni caso spero di essermene fatta scappare io qualcuna sotto gli occhi. Quindi, se avete nomi di scrittrici umoristiche fateli subito. Li voglio!
Per concludere: per prepararmi all’intervista ho salvato sul computer un file col nome “A Disabilandia si tromba. Domande”. Se tu fossi della Polizia Postale, che effetto ti farebbe?
Penserei: vivaddio, mi fa piacere! Non mi preoccuperei più di tanto. Sono altri i titoli che mi preoccupano, e tante volte sono pure i primi della classifica.
Antonio Coda