
“E la fiamma si mescola alla voce”. Una poesia di Pierre Reverdy
Poesia
Giorgio Anelli
È un bene che mi abbiano detto
cos’è la luna quando ero bambina.
Così recita il verso di una poesia di Marilyn Monroe.
È meglio che me lo abbiano detto da bambina
perché ora non riuscirei a capirla.
La poesia non ha titolo, racconta una corsa notturna, in taxi, a Manhattan, si vede l’East River e, dall’altra parte, un’insegna al neon della Pepsi-Cola. Eppure:
Non guardo queste cose
cerco il mio amore.
La luna simboleggia il disordine dell’adultità. Sussurro questi versi tra me e me, quando percepisco di non capire più nulla.
La prima Marilyn che ho conosciuto è la poetessa. Come lei, da giovane, ho vissuto in un rigido contesto pentecostale che vietava la cultura pop; a differenza sua, non mi sono rimpinzata di film per fuggire il proibizionismo. Ho visto i suoi film dopo aver letto Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters by Marilyn Monroe. Come tanti, mi ha sedotto il fascino – ancora proibito – della sua immagine: Marilyn, su un divano, apparentemente sorpresa, guarda in alto, ha un taccuino nero in grembo. Rossetto corallo, indossa una dolcevita nera, è bellissima e colta. La foto è tratta da una serie di immagini, del 1953, scattate per “Life” da Alfred Eisenstaedt. A ventisei anni Marilyn era già famosa: aveva iniziato a frequentare la star del baseball Joe DiMaggio. Aveva posato nuda, anni prima, per un calendario, scandalizzando l’America maccartista. I ritratti della sex symbol tra i libri rodono i desideri del pubblico che ride della “stupida bionda” incapace a leggere. (Il desiderio, dopo tutto, è questa sottomissione involontaria, spesso legata al risentimento). Come sempre, Marilyn ha insistito per supervisionare le immagini; i provini sono vagliati dalla sua penna rossa.
Le poesie di Marilyn sono per lo più frammentarie. Raramente la prima bozza evolve in una seconda, temi e motivi si ripetono come ossessioni rielaborate di continuo. Sono scritte su quaderni, carta cruda, sul ciglio dei copioni, tra i dialoghi dei film; sono sfoghi di nervi, tensioni estatiche, sogni. A volte ciò che ci pare una poesia è l’esito di alcune parole appuntate durante gli anni trascorsi in psicanalisi con Lee Strasberg, il controverso sostenitore del “Metodo”, la tecnica che stimolava gli attori a scavare nelle profondità di se stessi, a inabissarsi nelle proprie emozioni per abitare con pienezza il ruolo assegnatogli. Alcune poesie sono scritte in modo ordinato, spesso corrono lungo la pagina, con versi che si inseguono, collegati da frecce. I versi, a volte, terminano dove finisce il foglio su cui sono vergati. “Aveva l’istinto e il passo del poeta, le mancava il controllo”, ha detto Norman Rosten, poeta di fama, suo amico.
Marilyn aveva mollato le scuole all’epoca del primo matrimonio, e a parte un corso di letteratura a Ucla, non ha avuto un’istruzione profonda, formale. Era un’autodidatta impegnata, disordinata: in una libreria di Los Angeles, defunta da tempo, acquistava i libri che le interessavano. Aveva una passione per le Lettere a un giovane poeta di Rilke. Arthur Miller, il suo terzo marito, ha detto che Marilyn non ha mai finito di leggere un libro, “tranne Chéri di Colette e alcuni suoi racconti”. Altri lo contraddicono. Amava I fratelli Karamazov: avrebbe voluto interpretare Grušen’ka. La sua biblioteca custodiva oltre quattrocento libri, tra cui le poesie di D.H. Lawrence, quelle di Emily Dickinson, i versi del poeta cinese Yuan Mei, un’antologia di poesie africane.
Quando mi sono trasferita da New York City in Polonia, nel 2016, tra i libri che ho portato con me c’erano le poesie di Marilyn Monroe. In particolare, amo alcuni brani in cui l’attrice affronta la morte, la tentazione del suicidio, come in questo poema in prosa:
“Desidero essere morta – assolutamente inesistente, un niente – andare via da qui – da qualunque parte ma come – Ci sono sempre i ponti – il Ponte di Brooklyn, ad esempio – Ma amo quel ponte (tutto è bello visto da lì, e l’aria è nitida, pulita), passeggiarvi è piacevole, nonostante le auto impazziscono, di sotto. Dovrei scegliere un altro ponte, brutto, senza panorama – eppure io amo i ponti – c’è qualcosa in loro… in effetti, non ho mai visto un ponte brutto”.
La poesia è una corsa frenetica, da subito. Alla ricerca di un modo per uccidersi, il poeta si imbatte in ciò che lo salverà: il ponte, che diventa un problema esistenziale, o meglio, ciò che risolve la sua esistenza. Non sappiamo se il dilemma della morte è vinto, probabilmente no, ma il suicidio viene ostacolato dall’ironia pratica, dalla bellezza ordinaria del mondo. Eccola la verità: il fatto che ci sia “qualcosa” nei ponti ci impedisce di abusarne saltando sotto.
L’unica buona battuta nel noioso, egolatrico libro di memorie di Arthur Miller è quando descrive Marilyn come “un poeta all’angolo della strada che cerca di recitare davanti a una folla che le strappa i vestiti”. La metafora echeggia, intenzionalmente, il momento in cui i fan, esagitati, all’aeroporto, hanno strappato i vestiti e i capelli di Marilyn, fino all’intervento delle guardie. Resta salda quell’immagine del “poeta all’angolo della strada”; il resto è di lirica violenza.
*
Vita –
Scorro in ogni direzione
Rimango appropriata ai bassifondi
forte come una ragnatela al
vento – esisto vera nel gelo che scintilla.
Ma i miei raggi imperlinati hanno i colori che ho
visto in quel dipinto – ah vita, sono loro
che ti hanno ingannata.
Questa è una delle poesie più sorprendenti di Marilyn, fin dall’audace apostrofo e dal trattino enfatico, una reminiscenza della Dickinson, che conferiscono al testo un significato rituale. Marilyn non chiede nulla alla vita: questa non è una preghiera ma una descrizione. “L’attrice non deve avere una bocca”, ha osservato Marilyn. Quel finale, “ah”, “ah, vita”, è superfluo, pura effusione della voce. L’attrice che non dovrebbe avere bocca, la apre.
Chi sono i lettori previsti da Marilyn? Spesso scriveva versi sulle lettere, agli amici, ma non sembra coltivasse particolari aspirazioni nel diventare poeta. Eppure, ha scritto poesie. Pubblicate molto tempo dopo la sua morte da editori che hanno setacciato i detriti verbali della grande attrice, fanno parte del ritmo della sua vita privata. Marilyn passava molto tempo davanti allo specchio, guardandosi. Non era rapita da un trito narcisismo. Affinava i movimenti del viso, imparando a capire come apparisse davanti agli altri. Non ha mai cercato la pubblicazione: leggerla, dunque, fa pensare di guardare il riflesso di un’ombra. Queste poesie, isolate, appena desunte, incarnano il dialogo del sé con se stesso… Scrivere per se stessa ha dotato queste poesie di una sorta di argento vivo, di una ‘stranezza’ intrigante.
“L’Abisso non ha un biografo”, ha scritto Emily Dickinson. Benché ci affanniamo a strappare i vestiti di Marilyn Monroe, lei rimane inviolata. Anche la sua scrittura non la denuda. “Io non sono M.M.”, ha scritto Marilyn, in caratteri minuscoli, sul bordo della sceneggiatura, mentre gira Il principe e la ballerina (1957). Che la negazione sia sottolineata e non cancellata accentua il paradosso. “Solo parti di noi toccheranno parti di altri”, scarabocchia, altrove. “La sola verità è solo – che la propria verità, nella migliore delle ipotesi, permetta alla comprensione di insediarsi nella solitudine di un altro”.
James Baldwin, che ammirava Marilyn ed era indignato del ritratto così ovvio che di lei aveva fatto Miller, riteneva la solitudine essenziale per l’artista. “La solitudine di cui parlo… è la solitudine della nascita e della morte, la spaventosa solitudine che si vede negli occhi di uno che soffre, che non possiamo aiutare”, ha scritto. Dell’abisso, Marilyn ha toccato gli estremi: la tenebra, la luce. I suoi detrattori, per descriverla, usavano parole connesse alla luce: i capelli biondi, il viso chiaro, gli abiti bianchi. Tale incandescenza, in effetti, può scaturire soltanto da un abisso.