Una volta, parlando di poesia, ha parlato di “un calvario rude”, di qualcosa di simile al petroglifo e alla nuvola. Interludio tra pietra e pena. Di solito, per scrivere, si volge alla foresta. Di solito, si aggira nei boschi di Gentioux-Pigerolles, nel Limosino, dove abita, con marito e due figli. “Mi piace la sfida dell’arrampicata, la lotta contro gli elementi, quell’acquazzone di felci… il Limosino è un altopiano di aria e vento, memoria di terra scritta”. Marie-Noëlle Agniau ha cinquant’anni; filosofa di formazione, insegna; pratica un proprio vagabondaggio poetico. Pubblica per piccoli editori, le éditions La Porte, le éditions L’Arbre à paroles o per tipografi-artisti, incurante delle classifiche di gradimento lirico. Tranne alcune rarità, i suoi libri non si trovano su Amazon. In una raccolta di poesie, Mortels Habitants de la Terre (2016), Marie-Noëlle Agniau racconta la morte della madre, la morte della lingua madre, la morte di un mondo. Lo spiega così:
“Ho avvertito presto il potere degli strumenti tecnologici. La loro forza ha implicato una conversione del nostro rapporto con lo spazio e con il tempo, dunque con la realtà. Hanno disfatto tutto. Schermi blu marchiano i volti. Teste inghiottite in quelle scatole magiche. Qualcosa scivola via, per sempre. Un suolo. La lingua che mi è stata insegnata. La lingua madre. La terra madre. L’atto di scrivere, impugnando la penna con le dita. Non ci sarà restituito mai più”.
Per descrivere la sua poesia, Marie-Noëlle Agniau adotta le parole prime e gli scarti: il fiume, il flusso, lo stormo, “le impronte di paesaggi primitivi”. Le sue placche poetiche ricordano, sulla scia delle ‘illuminazioni’ rimbaudiane, l’enigma di René Char, una Marguerite Duras che ha fatto il bagno nel Flegetonte. Il suo dire, ondivago, finge di minare il vagabondaggio di spine, di muoversi in marcia, senza i lini del destino:
“Se ho un progetto, è un brutto segno. Se ho in mente di scrivere questo o quello, sto limitando l’esperienza della scrittura, la sto ostacolando. Ciò di cui necessito non è un’idea – ne ho in mente una, ora, ad esempio: il totale trapianto di un volto – ma un ritmo che si impone e che devo modellare. Ora, è tenebra: nulla è all’erta”.
Sembra, piuttosto, una scrittura di fratture e di frizioni. Uno che apre il petto della terra e ne mangia, a piena bocca: dai denti non scorre sangue, bensì miele.
***
Dal suolo vivente sorge…
I
Dal suolo vivente sorge il doppio dell’uomo e del pesce. La corda della miracolosa pesca. Lontano il mare dietro la spiaggia immensa. Il pane con le briciole che avanza. Afferriamo il cappello di carta. Lui è il grande innocente. Dalla viva terra sorge il tamburo rotondo e l’eretto grido – purtroppo, la prospettiva è reclusione. Altezza dove le ginocchia battono. Marciare al riparo del tempo negli inediti panni di questa opera prima corrode il volto di Dio. Avanzano, un filo d’oro sulla schiena. La gola è in pace nel collare dei venti. Dal vivo suolo emerge la curva di una schiena. Il peso dell’essere. La pelle del pesce. Non avevano paura di accoppiarsi spalancando la grande bocca. Dalla viva terra sorge l’olio – il pigmento per scrivere – la corona e il seggio: rosso sangue. Un bambino di nove giorni. Il suo cranio è morbida spugna. I ricordi si agglutinano e percepiscono il limite dell’abisso.
II
Cammino con te che lentamente cammini. Non lontano dal verziere, il penultimo giorno del nome. Aggiungere il numero necessario di secondi – lorda massa di una Terra che scarseggia a se stessa. Testimone: la silente vita.
Dite – che forma abbiamo? Corpo cosparso di particole di luce. Vedere il dubbio. Vedere cosa? La zampa di un insetto che si frantuma. In un secondo. Forse di meno. Lichene del fuoco? Basta un credo. Cos’è questo corpo che afferra collisioni? Sentimento di essere uomo.
III
Le meduse cambiano colore.
**
Ho il diritto di descrivere il tuo evento. Libro degli uccelli nella mano, ti consiglio di non cominciare a correre, per lo meno con il tuo ritmo. A volte parli. Nessuna rete si trae dal vortice murmure della tua lingua. La sua eccessiva richiesta di supporto aereo, al principio. Tu sei il mio paradiso. Il mio paradiso paradisiaco, di cui bevo ad ogni momento, soprattutto nei moti bestiali, perché sembro le bestie quando vedo il mondo sparire nella guerra dei corpi, sempre più vasti sempre più oscuri, sempre più precisi nella nomenclatura dei corpi. Tu sei il mio paradiso. Il giardino luminoso quando cammini verso di me, i capelli contorti dall’acconciatura del sole. È lei su cui cammini nelle foglie verdi del fine settimana. Tu sei quello che spazza la polvere. Un piede non è sufficiente. Rovesci tutte le stelle dalla stola, tutte le stelle del cielo, tutto ciò che non sei tu. A volte, crolli lì dentro. Come tra le braccia carnali del letto gemello. Come la sciarpa passata per tutti i volti. Ma tu sei il mio paradiso, il mio giustapposto nome. Posso abbattere l’odio.
**
Galleggiano le biglie? Chiede colui che guarda attraverso la collisione dei mondi. Galleggia la luce, la sua indecifrabile e obliqua ubiquità? Le biglie galleggiano nella chiara lampa del fiume? Nelle mani del bambino che interpreta Giona assiso nella balena? Galleggiano come una foglia? Come la rana pescatrice? Il significato galleggia? E le reiterate lezioni? Galleggiano come il mimo che spezza il linguaggio? Galleggia come l’ombra che scuotiamo per allontanarci da noi stessi? Ti avvicini. Galleggia? Ami i nomi che reca? Agata, ragno, tornado, drago. Galleggia da molto tempo? Da sempre? Da quando abbiamo intrapreso il gioco? Galleggia sui muri? Galleggia prima di affondare? Quanto a lungo? Possiamo vederlo? Il momento che precede la sparizione. Che colore ha? È necessaria la rete? Per tenerle insieme? Perché affondino più in basso? Le biglie che suddividiamo in due pile galleggiano? Le biglie che gettiamo con rabbia galleggiano? Cosa abbiamo perduto? Che cosa teniamo tra le dita? Conosci il nuoto? Le sfere di terracotta galleggiano? Non smettere mai di giocare. Galleggi? Come una cima? Sei multicolore.
**
Fuga (23)
Nessuno venne, nessun brusio, nessuna creatura di carne, nessun uccello,
nessuna articolazione. Il cuore cresce in un’altra cavità. Eccoti: secco come la bocca, che trasformi la notte in tessuto inerte.
(le maschere penetrano nella camera della sfinge)
L’uovo di polvere
che rigurgiti integra gli sforzi della specie. Dunque, non ti scuoti. Bisogna tenersi la testa come si tiene in mano la mano che trema e sostiene a pena le proprie ossa. Voce che arriva, scoraggiata dal branco. Come se tutte le bestie della creazione assalissero la speranza. Pezzo di pelle nudo per cui litighiamo a colpi di lingua, nella folla,
violenta. Come se la parola fosse in pericolo, eppure è sana, sicura, nell’immagine.
*
Voglio vedere. Sentire tramite l’occhio e il polmone. Voglio ricordare questa immagine per sempre. La dolce e leggera inquietudine dello stagno. Voglio. Serro gli occhi. Lascio che accada. Devi far accadere le cose. Lo stagno sarà con me. Un giorno o l’altro. Con le sue acque calme e profonde. Sì. Volevo rivederlo. Andare con la sola scorta del mio desiderio. Della mia immagine. L’immagine del mio essere. Sul bordo dello stagno. E la foresta. Alle spalle. Mi sono recata in tranquillità. Come verso un’altra me stessa. Con passo limpido. Sto arrivando. Con la memoria. Il vecchio stagno. Parole segrete mescolate a erbe selvatiche. Arrivo. Lo stagno è scomparso. Ma sono io. Sono sparita. Insieme allo stagno. Le sue acque calme e profonde. Il verde. Il grigio. Il livido. Non c’è più acqua. Nella foresta. La sua scorta. I pensieri vanno a caccia. Cercano i suoi umori. Il suo odore. La vista, insopportabile. Lei vaga. Lei piange. Forse, piange. Al suo posto c’è una vaga, umida terra. Al mio posto. Non più lo stagno. Non più l’acqua. È come se qualcuno avesse rivoltato la pelle di una bestia. E abbia capovolto la Terra. È da lì che mi guarda lo stagno? È ritornato. È stato restituito. Senza dire nulla. Senza nulla chiedere. Senza congedarsi dai miei ricordi. Non ha lasciato impronte.
Marie-Noëlle Agniau