Esistono ancora i poeti cristiani? Discorso su poesia e Cristianesimo
Poesia
Dana Gioia
Marie Noël era stata presentata a Henry de Montherlant da Jeanne Sandelion, poetessa dal carisma ineguale: inebriata dal sovrano, inattingibile Henry, riceveva come premio per la sua devozione un ostinato disinteresse, qualche frase di circostanza, di cui si ingioiellava. Nel giugno del 1928 scrive e Montherlant della “nostra più grande scrittrice cristiana”. Montherlant, come sempre, rapace, nicchia.
Nata Marie Rouget da antica famiglia di Auxerre, il 16 febbraio del 1883, assente dalla società letteraria dell’epoca, quasi reclusa, china verso i diseredati, indesiderata, la poetessa non aveva nulla per attrarre il trionfale Montherlant. Lo pseudonimo, Noël, non è vezzo ma la benda che custodisce un dolore, una specie di telo della Veronica: il giorno di Natale del 1904 viene trovato morto Eugène, il giovane fratello di Marie; lei ne risorge stigmatizzata dalla crisi. Incuriosito da una frase letta per caso – “Ciò che in me era amorevole ora è perduto” – Montherlant sfoglia Les Chansons et les Heures, edito da Chiberre nel 1922. Ne resta autenticamente folgorato. Sui suoi quaderni appunta:
“Leggo di rado i poeti contemporanei, perciò il mio giudizio è parziale. Tuttavia, per me Marie Noël è il nostro più grande poeta francese vivente. Per lo meno, è il solo che mi tocca. Certo, non è uniforme, qualcuno dovrebbe consigliarle di togliere qualche verso, qua e là, ma il resto è buono, meraviglioso. Nasce dal cuore ma è frutto di un’arte raffinata; è arte ma non è retorica. Sembra affondare nella Francia più arcana e il cristianesimo che la domina non infastidisce i versi. Alcune poesie sono tra le più belle mai scritte in lingua francese”.
Marie Noël, d’altra parte, riconosce in Montherlant, nella sua “rivolta, orgoglio, impurità, dubbio, blasfemia, ingratitudine, dannazione… la natura eccezionale dell’Uomo di Desideri che Dio attende dietro l’angolo”. Marie svolgerà la sua vita – che termina due giorni prima del Natale del 1967, in questo rintocco di nascite che adempiono la morte – ad Auxerre, solitudine trafitta dall’esperienza mistica, dall’ascia d’abisso. Alcune poesie hanno l’intensità dell’ode, l’impeto dell’inno; il diario, pubblicato nel 1959 come Notes intimes racconta il lato notturno della fede, il tormento, la rapina e il dubbio:
“Quando Dio ha soffiato sul mio fango per infondergli la mia anima, Egli ha certo soffiato troppo forte. Non mi sono mai ripresa da questo soffio di Dio. Non ho mai cessato di tremare come un cero vacillante tra due mondi”.
Negli anni, l’opera di Marie Noël, opera di miniatura dell’anima, per organo, del tutto inattuale, a tratti inattingibile, ottiene l’invalidità del riconoscimento: nel 1962 il Grand prix de poésie de l’Académie française (che andrà, negli anni, a Pierre Jean Jouve e a Yves Bonnefoy, a Jean Grosjean e Philippe Jaccottet, tra gli altri), nel 1960 la Légion d’honneur conferitale da De Gaulle. Viveva questi accidenti da lontano, entro una nebulosa grazia: i suoi rapporti erano per lo più epistolari, con pochi, con Montherlant, Mauriac, Colette, Jean Cocteau. Di suo, in Italia, non c’è nulla, se non il Diario segreto, tradotto da Adriana Zarri nel 1961, per Sei, in un tempo in cui, forse, il cristianesimo sapeva inabissarsi oltre i convenienti dissidi.
“La sua scrittura risale alla fonte del canto devozionale medioevale… Una vita compiuta ma fratturata, sconnessa come il selciato irregolare di Auxerre su cui si affrettava a portare soccorso agli umili, agli ultimi, che la faceva inciampare, lei, l’infaticabile, che riscuoteva gli affitti e curava gli afflitti, che assisteva i moribondi, perpetuando una vita tra le ombra, benché avesse voluto ballare al sole. Non bella, mai amata, eppure unica agli occhi di Dio, la beneamata del Cantico: privata di tutto, a cominciare dal tempo per scrivere, la famiglia la rinchiuse tra catene di obblighi, eppure riuscì a non farsi addomesticare, a ideare un’opera che freme”.
Colette Nys-Mazure, “Portrait de Marie Noël”
Amica dell’abbé Mugnier, morta “in odore di santità” – dal 2017 è aperto il processo di beatificazione – Marie Noël, così ha scritto Ferdinando Castelli su “La Civiltà Cattolica”, è poetessa delle “notti oscure” e della “grande Angoscia”, “sorella delle anime turbate”, eroina muta di un cristianesimo edificato tra voragini, credo tra i calanchi, dove distruggere è distribuire:
“Non aprire gli occhi… mai. Di’ di sì a Dio qualunque cosa ti succeda. Fa’ ciò che ti comanda. Attraversa l’abisso su di un filo di paglia… La salvezza consiste solo nell’essere ciechi”.
Da qualche tempo Gallimard pubblica la sua opera: in Les Chants de la Merci (2003) Marie Noël esplicita la sua idea di poesia come “via profonda, intensa emozione che trasfigura”, come “ora di grazia che afferra il nulla e lo amplifica in infinito”:
“Imparare a leggere i poeti. Non leggerli come ‘giornalisti’. Troverai in loro l’essenza dei fatti, gesti che alimentano più di una curiosità. Devi lasciare che ti offrano la loro anima. Bellezza senza nome e senza luogo del Verbo che canta”.
In qualche modo, la crudeltà del candore.
***
Crepuscolo
Verrà l’ora… l’ora arriva… è questa…
sarò straniera nella mia casa
un’ombra sconosciuta nasconderà
la mia ragione sotto altre ragioni.
Diranno che ho perso la luce
perché vedo ciò che nessun occhio vede:
luce che precede l’alba, avanza
lungo la sera che insorge.
Diranno che non sono presente
perché attraggo presagi:
dal retro della mia nascita
mi chiamano, sento le case aprirsi.
Diranno che la mia bocca è folle
che non so più cosa dico
perché sul margine del giorno, dal suo pallore,
emergono parole insolite e profonde.
Diranno che ritorno all’infanzia
che non riconosco la verità:
anni lucidati a nuovo, saggezze passeggere
mentre rientro nell’Eterno.
*
Da L’accusa
Cammino a talloni stretti nella tua legge
in pieno giorno, che mi vedano… Mi accuso
Dio, sono una bugia per tutti, vivo l’inganno,
mi fingo migliore e più felice di ciò che sono.
Mi accuso… Ho predato un sorriso, ho preso
mani dolci per vivere, una voce serena,
ma il mio cuore è monito di minacce
lontane, ali in collera, spazi insonni.
Mi accuso: nel tempo d’ombre ho odiato
i miei, questi estranei, ho fatto la brava
una come un’altra, per non offendere nessuno
ed espiantare il pianto dal paese, mio malgrado.
Mi accuso: ho soffocato il mio cammino
che era saggio, dritto, certo, legge di padrone,
ho cercato di sparire tra i predoni
tra chi non sfama l’affamato, famelico.
Non sanno sotto quali cieli spaventosi
l’eterno distende la sua contrada errante
dietro quali venti a vetrate nasconde l’ingresso
del mio peccato mortale, tormenta del dolore.
Ah! Perché non mi è data una bella fronte, un cuore
che sa posarsi e scacciare l’angelo crudele
come un calabrone d’estate che vaga oltre
il vecchio recinto dove i piselli mettono il fiore?
Avrei lasciato la mia anima aperta
avrei tracciato per lei chiari canali:
ma ho scelto di dileguarmi nella notte
come un cane rabbioso di cui occorre disfarsi.
Mi sono diretta nel campo senza orizzonte
dove conduci a morte il folle condannato
e lontano da tutti i cieli dell’abbandono
mi sono unito alla gente di casa, come ho potuto.
Sotto la loro lampada ho ridotto i miei voti,
le mie parole, i pensieri, il sentire perché
restasse nella loro misura: opera di paziente usura
fino a morire quel poco che avevo da vivere.
Quando la verità viene a me in pieno giorno
come un criminale che torna da un luogo disfatto,
corro, la soffoco, le tappo la bocca,
cavallo selvaggio capitato nella stalla del re.
*
Compieta
In manus tuas, Domine
Il tuo angelo vaglia il bene e il male che ho fatto,
O Padre: i tuoi raccolti rientrano esatti.
Le strade della salvezza sono aggrovigliate…
La giornata, sterile o feconda, buona o cattiva, si chiude.
L’anima cerca invano il filo della memoria
si scontra con torsioni d’ombra e pensieri confusi,
smisurati, fratturati, come legno spesso –
o così piccoli che affogano nella notte nera.
Questa è l’ora dei volti senza orbite, degli occhi
aperti come pozzi nelle tenebre
dove il verme tombarolo s’incapsula nelle vertebre.
Liberaci dal male, nostro Padre celeste.
Sulle quattro pareti i ragni come spole
filano il telo delle mille ombre.
Li sento dietro le persiane
mentre muoiono lontane le lampade.
Qual è il resto della sera? Quando sorgerà
il nuovo giorno? Senza saperlo arretro
nella tenebra eterna. Non vedo nulla: nelle pupille
il riflesso che ruota del mio cervello.
Dormo, cieca e impotente:
Padre mio, ecco le chiavi della mia casa.
Conserva ciò che ho: la vita, la ragione,
la tua Grazia – fammi avanzare in Cielo.
Padre mio! Ho posto le mie mani nella tua mano.
Il sonno – o la morte – fendono la notte breve.
Respira sulla bolla errante del mio sogno
che mi consegni le rose di domani.
Padre mio! Le tue dita sigillano le palpebre,
il sonno – o la morte – vengono a passo leggero
i dodici pericoli mi chiamano a mezzanotte
ma mi addormento senza paura cantando le mie preghiere.
Io ti so, Padre, assiso al mio capezzale:
se in qualche vertigine si affloscia l’anima
me la restituirai, come una donna
ritrova a letto il piccolo che ha sognato.
Non sono un santo, mio Dio, cullami
tra le tue braccia, scuci gli incubi.
Sono soltanto una bambina, ho con me
i canti: non sono più di un uccello nel fogliame.
Non c’è ragione perché tu mi ami… I sentieri
mi portino a Te, senza lutto né lotta;
il sonno – o la morte – scivolano nella dolce notte…
Padre mio, accogli la mia anima nelle tue mani.
1908
*
La Morte dalle mani tristi
La Morte dalle mani tristi
arrivò in Paradiso.
“Dove vai, figlia mia,
così pallida in pieno giorno?”
Torno alla terra
dove avevo paese,
alla stagione nuova
dove avevo un amico.
Mi donò tre rose
ma mai una spiga.
Prima che il fiore si schiuda
prima che il grano maturi,
appena ieri, mi ha tradito.
Così muoio, oggi.
“Non piangere, figlia mia
il tempo è finito.
Invieremo sulla terra,
al tuo paese, un angelo,
per afferrare il tuo amico traditore
e portarlo qui”.
Non farlo, padre,
lascialo alla terra.
La sua bellezza è più bella
della stessa bellezza
lascialo! Se piange
notte e giorno senza di me
dovrò morire di nuovo:
troppo si è preoccupato”.
Marie Noël