Chi me l’aveva donato, molti anni fa, quando la giovinezza era costeggiata di impazienza e lupi bianchi, leggeva Pico della Mirandola, credeva che il lago fosse il distillato di un drago e che la luce – nella sua natura più profonda, d’alba – avesse i denti. L’edizione era modesta: in copertina, Gian Maria Volonté veste i panni del protagonista del libro, Zenone Ligre, nella trasposizione filmica che ne aveva fatto, nel 1988, il belga André Delvaux. Il film entrò nella selezione di Cannes, vinta da Pelle alla conquista del mondo di Bille August; quell’anno la giuria era presieduta da Ettore Scola. Il libro, che il tempo ha maculato, mostra qualche pagina strappata: segno che è passato da mani inquiete e cabbaliste; la dedica, che ho strappato, molti anni dopo, come si fa con i simboli per farli avverare, reca una parola privata e una frase tratta dal libro, questa:
“Il mondo è grande… Piaccia a Colui che forse È di adeguare il cuore umano alla dimensione di tutta la vita”.
Di frasi simili – un oltraggio al sussurro – è pieno quel libro, poco affascinante per i lettori puri – quelli che cercano: trama, coinvolgimento, eccitazione cutanea, schiena che scodinzola per verboso godimento – ma necessario ai cercatori, da tenere sempre in bisaccia. A costoro si augura – secondo le scansioni del romanzo – il tempo della Vita errante e quello della Vita immobile. Cioè: il gioco del fuoco e quello del ghiaccio.
Insomma: L’opera al nero – uscito nel maggio del 1968 – è il libro più bello di Marguerite Yourcenar, un autentico non-romanzo, così cristallino da restare infine insondabile, refrattario agli incantesimi della critica. È l’esatto opposto delle Memorie di Adriano, il libro, si dice, dell’assoluta maturità, pubblicato nel 1951: più accessibile, dall’avvenenza immediata – è scritto in prima persona, con cauti precedenti: Robert Graves e Walter Pater, tra gli altri –, l’infinito libro da comodino. L’opera al nero – che ha come fratellastri, piuttosto, i libri di Thomas Mann – è retrattile alla lettura, si mostra ostile al proprio tempo: come la ‘Grande Opera’ chiede, da parte di chi lo sfoglia, addestramento alchemico – il lettore sublimato, la Rubedo dello sguardo. Nell’Opera al nero la Yourcenar mostra suprema abilità nel pitturare gli interni e i volti – più che Dürer, respira in lei il genio di Vermeer –: il libro è tuttavia privo di una ‘dinamica’, è statico ed estatico assieme, pare scritto al bulino. Ciò che resta, appunto, è una collezione di frasi lapidarie, l’implacabile perizia, i perigli di una scrittura smerigliata, dal pelo irto, a tratti immalinconita in marmo:
“Darazi aveva parlato di miriadi di secoli che sono un momento del respiro infinito. Zenone calcolò che il ventiquattro febbraio prossimo, se fosse stato ancora in vita, avrebbe avuto cinquantanove anni. Ma la stessa considerazione valeva per quegli undici o dodici lustri come per quel pugno di sabbia: ne emanava la vertigine dei grandi numeri. Durante più di un miliardo e mezzo d’istanti, egli era vissuto qua e là sulla terra, mentre Vega girava intorno allo zenit e il mare faceva udire la sua voce su tutte le spiagge del mondo. Cinquantotto volte aveva veduto l’erba della primavera e il colmo dell’estate. Importava poco che un uomo di quell’età vivesse o morisse”.
La scrittura della Yourcenar, qui, non dice – intimorisce. Più umano di Adriano, Zenone, figura lunare per sovrappiù di luce, un Giovanni della Croce virato in nigredo, è risolto nella propria solitudine, non accoglie né condivide il desco. Per patronato di contraddizioni, il palazzo di Adriano ci si apre come una casa, i brutali sentieri percorsi da Zenone restano materia oscura.
A onorare il 120 anni dalla nascita di Marguerite Yourcenar e i 55 dalla pubblicazione de L’opera al nero, Gallimard stampa come “Zénon, sombre Zénon” la Correspondance 1968-1970 (l’edizione è condotta da Joseph Brami e da Michèle Sarde) della grande scrittrice. Dal mannello, abbiamo estratto una lettera, esemplare, inviata al filosofo Gabriel Marcel, suo lettore d’eccellenza. Il 2 marzo del 1968, dal suo desertico rifugio nel Maine, Marguerite gli aveva parlato dell’ultimo romanzo in questi termini:
“L’opera al nero è un libro indefinibile, in cui ho cercato di seguire, nel frastuono dei fatti esterni, la segreta avventura di uno spirito: avanzando nella lettura, penetriamo in ambiti non distinti dalla filosofia o dalla teologia. La seconda parte del libro è dominata dal dialogo tra Zenone, medico, alchimista, ateo (in verità, ben poco ateo secondo il senso del termine usato comunemente oggi: è un uomo versato nelle ricerche occulte) e il suo amico priore dei Cordeliers, in cui ho cercato di raffigurare ciò che a me pare commovente della santità cristiana. Alcuni passaggi toccano il mondo, poco compreso, della Kabbalah”.
Chi mi ha preceduto, ha sottolineato alcune frasi dell’Opera al nero che continuano, per paradosso pari alla colpa, a colpirmi. Una è questa:
“Forse non aveva un’anima. Forse i suoi improvvisi ardori non erano che lo sfogo di una incredibile forza fisica… non erano che un succedersi di atteggiamenti violenti e superbi, ma arbitrari, come quelli che assumono le figure del Buonarroti sulle volte della Sistina”.
L’altro è questo:
“Per lui ogni donna era Maria e Eva assieme, colei che versa per la salvezza del mondo il proprio latte e le proprie lacrime e colei che si abbandona al serpente. Abbassava lo sguardo senza giudicare”.
Non si può violare il passato, capire se è volitivo Iddio o la nostra malsana idea di divinità, se ha senso divinare un significato, se occorre impratichirsi coi prati, piuttosto, e vedere il leone che alligna dietro quella criniera di fiori.
***
A Gabriel Marcel, 10 marzo 1968
Gentile signore, caro amico,
sono stata infinitamente toccata dalla vostra lettera, giunta ieri, e rattristata per le notizie che mi avete dato riguardo alla vostra salute. Sono lieta che possiate riposarvi al Sud: ma quindici giorni sono pochi rispetto alla fatica accumulata per una vita costantemente dedita alla riflessione e al lavoro. So cosa significhi una stanchezza tale da precludere ogni forma di quiete, che ci rende difficile se non impossibile abbandonarci al riposo, fosse pure per brevissimo tempo, che impone qualsiasi pace in una luce sinistra. Non vorrei dunque, vista la situazione in cui vi trovate, aggiungere ulteriore aggravio al vostro lavoro e alle vostre letture, eppure… sarebbe così prezioso per me avere un giudizio sul mio nuovo libro, che non ho il coraggio di impedirvelo. Sarà necessario che Réalités (o qualsiasi altra rivista, se non è possibile modifica) attenda le scadenze che voi intendete adottare, e che nessuna pressione si aggiunga a quelle che già subite.
Credo, d’altronde, che l’idea di un articolo complessivo sia da escludere: richiederebbe troppe riletture. Non sono sicura che un articolo del genere sia percorribile, visto che questo libro è di per sé tanto complesso. L’unico sguardo a un’opera che lo precede potrebbe riguardare Le memorie di Adriano: i due libri, per quanto diversi nella tecnica adottata, nella forma e nel contenuto, si basano su un canovaccio storico, presentano una sorta di panorama dell’epoca. Nonostante le diversità, un filo più o meno simile collega l’imperatore giunto all’apice della sua esistenza del primo romanzo al filosofo perennemente sotto minaccia del secondo. Per rendersi conto di ciò che accomuna questi libri e, non meno importante, di ciò che inderogabilmente li separa, basterebbe rileggere il primo capitolo delle Memorie di Adriano, “Animula, vagula, blandula”, che contiene una meditazione sulla condizione umana, e le ultime dieci pagine di “Tellus Stabilita”, che evocano l’incontro con un bramino e con Epitteto, con quella sorta di asserzione di “superumanità” che ne consegue; e magari le riflessioni sull’oscuro futuro dell’uomo compiute dal vecchio Adriano durante la guerra giudaica. Le ultime pagine del libro, in cui Adriano medita ancora una volta sul senso della vita e della morte, andrebbero paragonate alle meditazioni di Zenone nella cella del convento a Bruges e in prigione, come narrate in L’opera al nero.
Per voi, sarà sufficiente sfogliare questa trentina di pagine per capire i rapporti e le divergenze tra i due libri. Vi prego però di credere che, nonostante i ragguagli richiesti, non rimarrei delusa se intendeste abbandonare il progetto. So cosa significa abitare un obbligo. Vi ringrazio, più che altro, per il sentimento di amicizia di cui mi avete onorato: il resto è francamente superfluo.
Per quanto riguarda André Fraigneau[1], vi confesso che di lui non ho letto nulla in questi anni (dal 1940): mi ispira simpatia e ho l’impressione, piuttosto malconcia e malinconica, che creda di aver deluso le grandi speranze che i suoi amici (me compresa) hanno riposto in lui. Dal 1939 l’ho visto una sola volta, ad un ricevimento organizzato da Plon: mi si è avvicinato per dirmi qualche parola – non ho voluto riprendere i lembi di un dialogo che un tempo fu intimo tra noi, e che ormai sarebbe stato privo di sincerità. A dire il vero, devo aggiungere che mi è impossibile dimenticare un libro, in verità banale, che André Fraigneau ha pubblicato durante l’occupazione: parlava della situazione dell’epoca, degli ebrei in fuga nel 1940, con una disinvoltura che ritengo sgradevole e troppo schietta. A questo punto, predichereste indulgenza, contando sul fatto che tengo in simpatia un autore come Maurice Sachs[2], che ho conosciuto un po’ prima del 1939, e che ammiro (pur con riserve) Montherlant. La vicenda di un uomo altrimenti tragicomico come Maurice Sachs è affatto diversa: non posso non apprezzare il suo genio picaresco e poi… ha pagato fin troppo cara la propria bassezza, non ha senso criticarlo, oggi. Preferisco ricordare l’estro di quel ragazzo mutevole come una banderuola, lieve fino alla follia, ma anche elettrizzato da un curioso ardore che incontrai nel 1939, era settembre, in un caffè di Parigi, sionista entusiasta, che già trascinava a stento una gamba falciata dalla sciatica, e si apprestava a morire andando appresso al convoglio tedesco.
Quanto a Montherlant, nonostante gli artifici e le imposture retoriche, egli mi domina con il vigore della sua grandezza: ammiro lo scrittore, ecco. In Fraigneau, al contrario, non trovo nulla, a giudicare le sue opere, che ravvivi in me la simpatia di un tempo, o mi faccia provare per lui autentica stima: ritrovo, piuttosto, gli stessi atteggiamenti convenzionali e quella superficialità che forse è amabile quando si hanno vent’anni. Forse mi sbaglio riguardo a quest’uomo, che non posso giudicare dacché non lo frequento più, ma non è a lui che chiederò di leggere il mio libro.
Per favore, tenete per voi questi miei ricami: non voglio offendere André Fraigneau né qualsiasi altro.
Scusatemi per questa lettera, fin troppo lunga.
Grace Frick serba caro il ricordo del vostro breve soggiorno nel Maine, e vi ricorda con amicizia.
Marguerite Yourcenar
[1] André Fraigneau (1905-1991), lettore per Grasset, è stato tra i primi a scoprire il talento di Marguerite Yourcenar. Nel 1941 ha fatto parte della delegazione di autori francesi – che comprendeva Drieu la Rochelle, Robert Brassilach, Abel Bonnard, Marcel Jouhandeau – invitati a Weimar da Joseph Goebbels. “Questa è una rara testimonianza della Yourcenar, se non l’unica, per ciò che ne sappiamo, del suo antico amico. I biografi tendono a pensare che lei lo amasse, che fosse stata da lui rifiutata: tale amore avrebbe trovato trasposizione poetica in Feux. Durante l’occupazione, André Fraigneau pubblica per Gallimard La Fleur de l’âge” (Joseph Brami).
[2] Omosessuale, autore di un libro di spietata avvenenza, Il sabba (in Italia: Adelphi, 2011), Maurice Sachs (1906-1945) fu assunto durante la guerra dalla Gestapo come collaboratore. Fu spia, trafficante, delatore, prostituendosi. Arrestato dalla stessa Gestapo per i rapporti spesso falsi e confusi che faceva pervenire, fu imprigionato nel carcere di Fuhlsbüttel e abbattuto con una pallottola alla nuca.