Tenne in ostaggio l’attimo, Margiad Evans (1909-1958) – nom de plume di Peggy Eileen Whistler –, scrittrice di frontiera. Visse al confine fra l’Inghilterra e il Galles, la coscienza e l’incoscienza, la Natura e l’uomo, sulla linea d’ombra che disgiunge due emisferi.
Nel doppio cercò l’Uno e nell’Unione vide doppio. Epilettica dall’età di quarantun anni, eternò la storia della sua malattia fra i versi e la narrazione di Un Raggio di Oscurità, nel 1952 – ossimorico, il libro unì gli inconciliabili opposti di una patologia per l’epoca di opaca definizione.
Illustratrice, romanziera, quindi poetessa, più della propria coscienza temé di perdere l’abilità del saper scrivere, rosa da attacchi convulsivi d’ingenerosa frequenza. La scrittura, dunque, come strumento di lotta, di mancata sottomissione all’affezione cerebrale. La forma, quella poetica – “l’epilessia, come la poesia, esige un linguaggio che semplicemente non esiste” – come strumento per giungere al sé, ambire a Dio. Cercarlo al buio. Nell’attimo di interruzione della coscienza. Privilegiato accesso al cosmo spirituale.
“L’epilessia è una malattia religiosa o morale? È possibile che sia colpa mia?” – morboso interrogativo a tormento del tutto.
Accenna a lei, Banine – scrittrice-mantide di razza azera, altra avvezza agli spasmi spirituali – nel suo journal Ho scelto l’oppio (Magog, 2022), diario di conversione di un’abietta che nel cristianesimo trova virgineo riparo alla propria dissoluzione. Tormentata, come la Evans, da un costante sdoppiamento interiore – entrambe divise fra una ‘severa introspezione’ e un ‘tirannico egocentrismo’ –, di quest’ultima riporta nel suo memoir i primi versi di Gemini, pubblicati in Un Raggio di Oscurità, dualismo poetico che l’autrice dedica al contempo a sua figlia – “misterioso gemello” – e alla morte, la cui ombra mai pare abbandonarla.
Dapprima Possessione, quindi maieutica deduzione, la crisi epilettica che culmina in liberatoria perdita dei sensi è per la Evans frammento di irresponsabilità in cui librarsi, istante d’estasi nel dolore – l’associa alle impressioni della partoriente.
Madre ultraquarantenne – di Cassandra, unica figlia, sacerdotessa di un istante –, s’abbandona all’indagine, spinosa, fra maternità e arte come impegno intellettuale – “il cervello e l’utero sono città nemiche, i cui abitanti sono nati per battersi l’uno contro l’altro”. L’angoscia d’un ventilato aborto per timor di ereditarietà epilettica, la visione del figlio come ‘gemello’, eterno doppio – ma c’è posto, per due, nella celebre stanza tutta per sé?
Thoreau, Wordsworth, George Herbert, Henry Vaughan – come numi tutelari; Richard Jeffries – mistico della natura noto per The Story of My Heart –, il liutaio austriaco Jacob Stainer – come ricorrenti ossessioni, Margiad Evans – una delle migliori autrici di prosa in lingua inglese del Ventesimo secolo per Ceridwen Lloyd Morgan – si ascrive a una tradizione letteraria che ne incide il profilo nel pantheon dei più raffinati scrittori naturalistici dei suoi tempi. La forma – fa seguito a quella cerebrale – è fuori da ogni convenzione narrativa, si muove fra il concreto e l’astratto, avanti e indietro nel tempo, puntinata di poesie e pensieri di rilevanza non meno periferica dei passaggi in prosa. Ed è forse in questa diversità di registri che l’autrice trova la sua dimensione pluridimensionale – nel 1944 annotava su un diario:
“Quando mi cimento nella stesura di un racconto breve le mie mani si sentono come serrate in un paio di guanti troppo stretto”.
Alle atmosfere di Cime tempestose, il critico e poeta Derek Savage riconduce l’opera della Evans e, ad Emily Brontë costei dedica le sue energie in virtù di un saggio che rimarrà incompiuto in quanto prossimo alla follia. Rischiò, la Brontë, di assorbirne l’intero universo immaginativo poetico-letterario.
Alla Natura – eremo di Dio – dedica nel 1943 Autobiography, titolo contratto nel solipsismo, che risolve il sé solo in relazione alla Natura stessa. “La vita per me è solitudine. I miei sensi sono tutti solitari. Attraverso la solitudine respiro”. La luce scura, cupa, appassionata dei suoi scritti fu punto nodale della critica di Savage in The Withered Branch [1]– il saggio critico a lei dedicatos’inserisce fra Ernest Hemingway, Virginia Woolf, James Joyce, Aldous Huxley e E.M. Forster –, un’ipotetica incompiutezza letteraria, la Natura che surclassa l’autore stesso.
“Una vita vissuta solo in rapporto alla natura, e non anche in rapporto al suo complemento, la storia, per non parlare delle relazioni personali, è un’esistenza a metà” – avanzò, paragonandola a Jeffries, J.C. Powys, D.H. Lawrence. In parziale accordo, Margiad ribatté al giudizio, non priva d’ironia, fra le deliranti pagine di Un Raggio di Oscurità – nei meandri della vita naturale s’era addentrata, in particolare, dapprima durante un anno trascorso insieme alla sorella Sian a Benhall, sulle rive del fiume Wye, da ragazze, sole, lontano dal complesso ménage familiare – la madre, Katherine Wood, pianista acculturata ed intellettuale, avvezza alle fughe e il padre, Godfrey Whistler, ad annegare i dispiaceri nel whisky; poi, nel 1941, assieme al marito Michael Williams, trasferendosi in un cottage di campagna a Potacre, nel Llangarron, sulle pendici di un crinale della campagna al confine col Galles, dove l’isolamento fu d’ispirazione per diari, lettere e romanzi.
Lo sguardo affilato, mai vacuo, una sigaretta fissa a decorare le dita, Margiad Evans – dettagli vividi, pensieri sconnessi e versi composti in ginocchio per devozione – scrive, gesto poetico più che politico, in abissale contrasto allo stigma sociale rivolto all’epilessia e alla malattia come patologia cerebrale. Pone – in maniera inedita – in prima persona, al centro della scena, intime descrizioni dei disturbi che autori precedenti affetti da epilessia, come Dostoevskij, avevano incarnato in personaggi di fantasia, esponendosi alla pubblica visione senza visionari artifizi. E senza alcuna traccia di autocommiserazione.
La scissione fra mente e cervello elevò il libro – puntinato di nevrotici paradossi – a pietra miliare sul tema. Nel 1953 il dottor Lennox – autore di Epilepsy and Related Disorders (1960), per anni testo sull’epilessia più consultato al mondo – fece pervenire le proprie congratulazioni, per la generosità di un’opera profonda che s’inoltra nei meandri spirituali, morali, mistici, inconsci della malattia, domandandole il permesso di riprodurne alcune parti.
Margiad muore a quarantanove anni, nel 1958, lo stesso giorno in cui era nata, il 17 marzo – la Natura, con innaturale perfezione, chiude il suo cerchio. Gli ultimi mesi, in ospedale – lacerata da un tumore al cervello, causa della sua epilessia, che scoprì solamente due anni prima di lasciare la terra – li trascorre, fra ultimi attacchi e paralisi, a scrivere poesie. Pronta per un viaggio fra i boschi eterni.
Fabrizia Sabbatini
*
La foresta[2]
In questa vita in cui nessuno vive come se stesso
Mi sono trovata a vagabondare in una grande foresta. Tutto era ombra.
Mi avventurai in profondità:
nessun canto d’uccello fischiava, nessun passo
tuonava silente sul tamburo della selva.
Nella federa delle foglie
non una crepa di luce; in alto, nessun volto di cielo
intagliato nei rami a osservare il mio.
Mi avventurai in profondità
senza risate o paure. Sempre più in profondità.
La mente o lo spirito scorse in me radici immobili
inabissate nel suolo, lunghe come rami.
Mi avventurai in profondità,
cantando nel doppio fondo della foresta
che era visibile e invisibile;
felice nel modo in cui alcun essere umano dovrebbe esserlo
nel silenzio, nella solitudine e nell’ombra.
Ero come il cuore di un morto
che canta nella fossa, prima d’essere tumulato per sempre.
Mi avventurai in profondità nella foresta, quando d’improvviso
un uomo di pietra con un fresco caprifoglio bianco
coronava la sua cecità: lapidi, i suoi occhi
non battevano ciglio. Mi arrestai, qui era effigiata
la mia gioia: pietra sacra e bianca essenza
a me legate, cieca, fino a quando calvi, gli occhi
s’illuminarono di lacrime, e stillarono sul viso luccicando come corde d’arpa…
Un’aria antica e selvaggia mi inebriò.
E piansi profondamente, non cantai perché le foglie cantavano già forte.
E piansi profondamente. E piango sempre.
[1] D.S. Savage, The Withered Branch: Six Studies in the Modern Novel. (Londra: Eyre and Spottiswoode, 1950).
[2] La poesia, qui tradotta per la prima volta, è contenuta in Margiad Evans, The Nightingale Silenced: and other late unpublished writings (Honno, 2020). [n.d.t.]